13 Marzo 2010
Alias

Intransigenze tra vita e scrittura

di Roberto Galaverni

Come parla di poesia Amelia Rosselli? È presto detto: con grande attenzione, intransigenza, precisione. Lo conferma la lettura di un libro importante: È vostra la vita che ho perso. Conversazioni e interviste 1964-1995, a cura di Monica Venturini e Silvia De March, con una prefazione di Laura Barile (Le Lettere, “fuoriformato”, pp. 394, € 35,00). In realtà, a parte un solo frammento del 1964, il volume raccoglie interventi che vanno dalla metà degli anni settanta alla morte della scrittrice. Un ventennio che arriva a cose ormai fatte: dopo il terzo libro di versi del 1976, Documento, la Rosselli accetterà pochissimo da se stessa. Sono tuttavia anni di contatto continuo con la poesia, di lavoro su testi già scritti, di traduzioni e auto-traduzioni, di concentra-zione e di ascolto, non importa se più o meno corrisposto. A ogni pagina traspare, inconsumabile attraverso gli anni, la fedeltà a una vocazione poetica che è stata anche una scelta. Perché di questo si tratta: una vocazione alla poesia “istintiva”, perfino “biologica”, ma poi una scelta, un impegno fin da subito estremamente consapevole, anche del proprio rovescio autolesionistico. II titolo stesso del libro allude all’intrico perverso di magnanimità e d’ingratitudine esistenziale proprie di una decisione così senza mezze misure, così integrale, così assoluta. “Ho scelto di non sposarmi per non distrarmi da lei”, dice la Rosselli. E lei, ovviamente, è la poesia.
Forse anche per la similarità delle domande poste dagli intervistatori, torna attraverso gli anni un giro fisso di ricordi, temi e argomentazioni che fin dall’inizio e poi sempre più appaiono inevitabili. La Rosselli sembra possedere addirittura una memoria espressiva di natura formulare, dove le definizioni riescono tanto più invariabili quanto più rispondono al rischio di un fraintendimento della sua vicenda biografica, della sua disposizione creativa, della sua poesia. Se penso, ad esempio, al proliferare imprevedibile della conversazione di Zanzotto, dentro e fuori, di qua e di là, di su e di giù, e insomma dovunque si possa andare, qui al contrario ci si trova in un viaggio sopra biliari fissati come una volta per sempre. La Rosselli parla di poche cose, ma queste sempre e in tutto decisive. Essenzialità, chiarezza, se possibile verità. La Rosselli non distoglie lo sguardo di lì, non si allontana da quei suoi nuclei basici. Per questo – ed è la cosa che più si può apprezzare nel tono e modo delle sue parole – non è mai facilmente conciliante con i suoi interlocutori. E invece: concentrazione, esattezza, severità, calore, ecco come parla la Rosselli. Così, molto spesso la sua risposta procede attraverso la negazione diretta, il rovesciamento o la rettifica delle premesse implicite della domanda che le viene posta. Evidentemente, questo tono non può essere separato dalla qualità del suo pensiero. Sono le verità – le verità non trattabili – che una giovanissima ragazza approdata a Roma nell’immediato dopoguerra aveva saputo conquistarsi da sé, ripartendo come da zero quando tutto, forse anche i ricordi, sembrava essergli stato dato e poi subito tolto ancora prima di partire.
Non per questo le cose mancano. Gli snodi cruciali -i lutti, la diaspora – della storia familiare, i riferimenti alla vita privata alla sua “vita balorda”, come la chiama), le difficoltà economiche, la malattia, l’insonnia, le ossessioni e il senso di persecuzione, gli snidi musicali, le letture, gli amici, i giudizi sui poeti (sì a Montale, Penna, Saba e Pavese, molto meno credito alla neoavanguardia, troppo accademica e pedante, con l’eccezione sempre ribadita di porta) le riflessioni sui propri libri, la metrica, le scelte linguistiche e espressive dei lapsus… E poi le osservazioni sull’isolamento e la solitudine, intese sì come una ritorsione della vita e del destino, una condizione difficile che si deve subire, ma poi anche come qualcosa di elettivo e d’irrinunciabile, proprio perché coincidente con lo spazio stesso del respiro della poesia. Ed è proprio sulla poesia, sui procedimenti creativi, sul rapporto tra vita e scrittura che vengono fatte le considerazioni più importanti. L’argomentare della Rosselli possiede un impianto teorico semplice e rigoroso. Qui davvero più che mai non tollera che si diano equivoci. Tutti gli interventi raccolti nel libro in fondo gravitano attorno alla rivendicazione della globalità, dell’autonomia, della libertà, del valore attivo delle sue scelte e
dei suoi risultati di poesia. In questo senso, la Rosselli rifiuta qualsiasi incasellamento o rappresentanza meccanica di una parte definita, a partire dalla propria. Di qui l’insistenza sulle risultanze filosofi-che e conoscitive della sua poesia, sull’estraneità alla presa diretta dell’autobiografia e della confessione, sull'”uscita dall’io”. Il suo fondamentale “contenutismo”, come lo definisce con un termine che non ama, allude proprio alla volontà di superare la dimensione privata per accedere a un'”esperienza” non soltanto personale o soggettiva. “La poesia”, dice la Rosselli, “non deve essere confessione, ma ricerca di verità”. O ancora: “la nevrosi non si può farla dilagare in forma di libro da far comprare. È inutile esprimerla come sostanza della poesia”. Ecco allora il costante, ferreo, pervicace riferimento al distacco della conoscenza, alle procedure di composizione poetica, alle scelte del codice metrico, all’oggettivazione linguistica e espressiva, o se si preferisce all'”attenzione a non sbrodolare”…
Questa raccolta di interviste sembra rispondere anzitutto a quanti hanno cercato indebitamente nella Rosselli la legittimazione di una poesia intesa ora come libera verbalizzazione di una presunta, santissima verità psichica e ombelicale, ora come presunzione di un contatto magico, sacerdotale con qualcosa di altrimenti insondabile e indicibile, cadendo così in uno dei più infestanti – se preso per questo verso – “poetesi” della nostra poesia degli ultimi decenni. Non sono una “sibilla”, non sono una “veggente” dice la Rosselli. “Non c’è nulla di profetico nei miei versi […]. Ho costruito la mia poesia anche con l’ispirazione, ma non con le “facoltà magiche”. Ho fatto studi di psicologia, perfino di alchimia, e non ci sono cascata”. Sembra di sentire perfino le parole dì un’intervista del grande Auden, il più intelligente dei poeti: “Potevo scegliere diversi modi di drenare una miniera, ma non mi era permesso usare strumenti magici”. Per chi voglia essere un poeta – è la stessa Rosselli a dirlo – “non v’è differenza”,
E questo vale anche in relazione alla questione essenziale della “femminilità” (o, sul piano sociale e politico, del femminismo), su cui la Rosselli torna molte volte, a ribadire che si tratta di una premessa, di una componente, di una motivazione importante ma mai coincidente con un tutto – la sua volontà di essere poeta, la sua poesia – che non ne discende direttamente, quanto la comprende in sé rimanendo comunque una cosa diversa. Così quello che scrive della sua amata Sylvia Plath credo che valga anche, se non di più, per lei, la Rosselli: “non è mai stucchevolmente femminile, non rappresenta mai l’anima femminile come genere in sé. Quando sceglie qua e là metafore e temi di questa natura lo fa per ricordare al pubblico il suo sesso. Ma quando non ci bada non si indovinerebbe mai. Ha una sua virilità femminile”. Come la Rosselli sapeva che una buona causa non basta a scrivere una buona poesia, così era anche consapevole di essere un poeta, un poeta senza aggettivi, un poeta e basta; e come tale voleva essere letta e compresa. La poesia della Rosselli non è – la parola dunque è sua -una poesia di “genere”.

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