10 Gennaio 2014
il manifesto

La libertà di negare le regole del dominio

di Alessandra Pigliaru

 

Dopo il bell’esordio di Undici (2008), fina­li­sta al Pre­mio Cal­vino del 2007, Mia figlia fol­lia (2010) e Ogni madre (2012), tutti editi per le edi­zioni nuo­resi Il Mae­strale, adesso arriva un’ulteriore con­ferma: Savina Dolo­res Massa è una scrit­trice molto brava e leg­gerla è un’esperienza di bel­lezza che ci si dovrebbe saper con­ce­dere. Il suo ultimo romanzo si inti­tola Cenere calda a mez­za­notte (Il Mae­strale, pp. 430, euro 18) ed è un canto maturo, pieno e com­mo­vente. A muo­versi nelle folte pagine con­se­gna­teci dall’autrice ori­sta­nese sono per­so­nagge e per­so­naggi dal carat­tere coc­ciuto e fiero che fanno della pro­pria pre­ca­rietà l’osservazione pri­vi­le­giata del mondo, al dritto e al rove­scio. Non temono giu­dizi, distin­guono cata­strofi dell’anima e del corpo e rac­con­tano una sto­ria che si svolge lungo quasi cento anni nella pic­cola comu­nità di Ari­stà­nis (nome in sardo di Oristano).

Il carat­tere di tran­si­to­rietà con­tras­se­gna le descri­zioni fatte da Massa, tut­ta­via la signi­fi­ca­zione esatta è quella che si gioca tra il rad­dop­pia­mento della realtà e la con­di­zione mate­riale di vita. Se la prima non è mai una scap­pa­toia bensì la capa­cità elet­tiva della scrit­tura di costruire mondi pos­si­bili, la seconda mostra come di quel desi­de­rio di allon­ta­na­mento non si pos­sano tacere mai le meta­mor­fosi cor­po­ree. La cenere non si sof­ferma qui solo alla fini­tu­dine ma diviene cro­cic­chio tra rea­li­smo magico e poe­tica della vul­ne­ra­bi­lità. E di sto­rie esem­plari, potremmo aggiun­gere, che cuciono l’atmosfera rare­fatta e al con­tempo tan­gi­bile di donne e uomini comuni in costante combattimento.

La disci­plina per resistere

Nella pic­cola comu­nità sarda che Savina Dolo­res Massa rac­conta a par­tire dagli inizi del Nove­cento, la cenere è infatti anche la pie­tas che viene meno quando i viventi cer­cano si sopraf­fare le pro­prie e i pro­pri simili, fino a rap­pre­sen­tare le spo­glie di un modo nuovo di stare nel mondo tra la neces­sità di fare comu­nità e la libertà di con­trav­ve­nire alle regole pre­sta­bi­lite. Ma la cenere è altresì la stessa che Bona­ria e Pep­pina uti­liz­zano nel pro­prio lavoro in una casa padronale.

Nel regi­stro iro­ni­ca­mente tagliente uti­liz­zato dall’autrice, la con­fi­denza con la pro­pria fra­gi­lità è pro­por­zio­nale alla forza del pren­dere parola. Un ordine del discorso che l’autrice disci­plina poli­ti­ca­mente in favore di chi resi­ste o ha resi­stito. Le voci inad­do­me­sti­cate che non sanno nulla dell’avidità e alle quali «la vanità non serve», assu­mono nel romanzo una tra­vol­gente ener­gia asser­tiva. Si deve dare retta a quel vociare per­ché in fondo è pro­prio que­sta la lezione di fuoco a cui il romanzo e l’interesse della scrit­trice da sem­pre si appella. Si potranno sco­prire i rac­conti di amore e di morte della fami­glia Mam­maiòni, cioè di quando Anto­nio perde la moglie Bona­ria, crea­tura taci­turna «che lasciava il calco di sé ovun­que», in seguito a un inci­dente tanto pic­colo quanto fatale. Nella deci­sione dell’uomo di farne durare il ricordo attra­verso lo scam­bio con i pro­pri tre figli ancora pic­coli, prende avvio l’esercizio sim­bo­lico della rico­no­scenza. Soprat­tutto si impa­rerà la stoffa sociale e di affe­zione tra­sfor­ma­tiva che Savina Dolo­res Massa con­se­gna a Chic­chino, Gio­ma­ria, Angelo, Rebecca, Tom­maso, Maria e a tutta la lita­nia di donne e uomini che abi­tano le dense pagine di Cenere calda a mez­za­notte. In un oriz­zonte privo di eroi­smi e risar­ci­menti dell’onore per­duto, l’autrice con­verte il corpo della scrit­tura in una mol­ti­tu­dine che sa met­tersi a repen­ta­glio «anche quando in pan­cia si agi­ta­vano spade che feri­vano, e non erano duelli tra cava­lieri e cavalli (…) ma fame». Fino al gioco della memo­ria. O ancora fino al pro­ta­go­ni­smo di una intera comu­nità del desi­de­rio che tra­figge la sto­ria dell’ingiustizia e del costante man­carsi e ritrovarsi.

I peri­me­tri rivoltati

Nella siste­ma­zione can­giante di gene­ra­zioni che si dipa­nano in una tes­si­tura rela­zio­nale sor­pren­dente, Savina Dolo­res Massa si muove con mae­stria a trat­teg­giare un pae­sag­gio — umano e natu­rale — par­lante di attese e pre­mo­ni­zioni, con­sa­pe­vole di una resti­tu­zione com­plessa tra lotta per la soprav­vi­venza ed ere­dità di chi ci ha pre­ce­duto. Su quest’ultimo tema, il con­ge­gno della scrit­tura rag­giunge un com­pi­mento nella nar­ra­zione di luo­ghi para­dig­ma­tici di cui pos­siamo seguire il det­ta­glio nel tempo. Tra le tante, par­ti­co­lar­mente impor­tante è la sto­ria di Petro­nilla e Lui­setta, madre e figlia che sco­prono la dif­fi­coltà di dirsi pros­sime nell’accoglienza di un cor­redo fami­liare pesante con cui non si fini­sce mai di fare i conti. Del resto l’interrogazione rimane aperta: «Per­ché que­sta sorte di nascere donna? E cosa volevi essere? Nuvola».

Ma il corpo a corpo non è solo quello con la pro­pria madre, è bensì più ampio e con­tro­verso come ogni signora della scrit­tura sa pre­sa­gire. È infatti nell’assunzione di respon­sa­bi­lità verso il futuro da parte della genea­lo­gia che l’autrice trova una sua spe­ci­fica libertà di movi­mento. Intanto del suo stesso lavoro, giac­ché Cenere calda a mez­za­notte è un libro che per rigore e dedi­zione rie­sce a com­porre in via defi­ni­tiva la costel­la­zione di alcune let­ture capi­tali. Non stu­pi­ranno in que­sto senso diverse con­so­nanze con le grandi scrit­ture poe­ti­che e let­te­ra­rie nove­cen­te­sche, tra tutte basti pen­sare a quelle con Anna Maria Ortese. In secondo luogo, nel suo lento rimem­brare la sto­ria di una terra che può essere la Sar­de­gna come qual­siasi altra, per­ché a par­larne sono quelle e quelli che ne hanno saputo agi­tare e rivol­tare i peri­me­tri. E se la pre­fe­renza va alla quo­ti­dia­nità di allar­gati nuclei fami­liari che cer­cano di darsi giu­sti­zia, è vero che in que­sta cura per chi rie­sce a soprav­vi­vere non c’è mai cele­bra­zione della vit­tima. Piut­to­sto si reclama la pro­se­cu­zione di una resi­stenza visio­na­ria che, ogni volta come fosse la prima, sce­glie la nar­ra­zione espe­rien­ziale come metodo ine­lu­di­bile e com­pe­tente di dare parola al mondo.

(il manifesto, 8 gennaio 2014)

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