28 Febbraio 2016
Repubblica

Laura Lepetit: “La mia vita è oggi senza rimpianti, l’ho vissuta da donna e da femminista”

di Antonio Gnoli

L’editrice, intellettuale e femminista, nasce a Roma nel 1932, ma nel 1944 si trasferisce a Milano. Ha fondato e diretto fino al 1997 la casa editrice La Tartaruga

Esercitare le virtù del femminismo – che poi vuol dire avere un possesso e una sensibilità diversa del proprio corpo e della propria anima – non è stata una cosa semplice. Me ne accorgo leggendo questa Autobiografia di una femminista distratta (Nottetempo) con cui Laura Lepetit ha rimesso ordine nella propria vita di ricordi e di emozioni. C’è qualcosa di leggero quando scrive e di istintivamente guardingo nel modo di parlare e di porgersi al suo interlocutore, quasi che appartenere all’universo maschile rappresenti ancora se non un ostacolo alla conversazione almeno un piccolo inciampo alla comprensione. Intendiamoci: c’è eleganza, cortesia, disponibilità nel modo che Laura Lepetit mostra nell’accogliermi nella piccola casa milanese. E se grande era il disordine sotto il cielo in quei lontani anni Settanta, si dovrà pur ammettere che poco è restato di quelle danze, di quei volteggi, al sole di sgargianti vesti colorate, di quelle importanti rivendicazioni che ruppero la cupezza degli anni di piombo: “Non credo di dover parlare a nome di tutte le compagne con cui ho condiviso il cammino e le idee. Ma so che per molte di noi quegli anni – con le spinte al cambiamento che incubarono già prima del 1968 – furono la rappresentazione di un modo nuovo di intendere la vita e i rapporti tra le persone”.
In ogni momento di forte cambiamento c’è come la sensazione che si debba mettere in discussione tutto.
“Quando si è nel mezzo di un forte vento tutto si scompiglia intorno a te e tu non ne esci indenne. Ma la parola indenne non rende l’idea. È come un’ebbrezza che ti avvolge e ti spinge alla trasformazione”.
Quando il vento cala?
“Ci si può chiedere se ne valeva la pena. Per me ne è valsa la pena”.
Come guarda oggi al suo passato?
“È strano, delle cose che potevano sembrare allora insignificanti, oggi capisco che sono state fondamentali; mentre fatti ritenuti importanti sono diventati trascurabili. Se c’è qualcosa che regge la mia vita sono pochi dettagli, le cose minime che mi sono accadute”.
Un atteggiamento antieroico.
“L’eroismo è una qualità praticata soprattutto dall’universo maschile. Eroine ce ne sono poche e di solito fanno una brutta fine. Non mi schiero né con Madame Bovary né con Giovanna d’Arco. Ricordo che fin da bambina i modelli che ci proponevano in famiglia e nella scuola dovevano personificare il sacrificio domestico. Poi c’era chi se ne allontanava. Quasi sempre la strega di turno che finiva sul rogo; o la sognatrice di virtù borghesi che seguendo i suoi impulsi amorosi finiva puntualmente suicida”.
Quando la sua vita è cambiata?
“Ho studiato nelle scuole di suore: prima a Roma dalle Orsoline e poi a Milano dalle Marcelline. Mio padre era ingegnere; ci trasferimmo subito dopo la guerra. Poi il liceo e infine l’Università: la Cattolica”.
Un’educazione molto tradizionale.
“Per la quale ho conservato profonda riconoscenza. Le suore non erano così becere come di solito si è portati a pensare. Mi chiedeva quando è cambiata la mia vita? Se ripenso agli anni Cinquanta mi appare questa specie di mistica della femminilità che copriva ogni angolo esistenziale della donna: dal cinema, ai vestiti, al modo di pensare. Sono cambiata grazie al femminismo che ha aperto le porte della coscienza”.
A chi deve questa scelta o, meglio, questa nuova consapevolezza.
“Una donna fondamentale nella mia vita è stata Carla Lonzi. Ricordo un suo provocatorio pamphlet: Sputiamo su Hegel. Era il suo modo per uscire allo scoperto. La filosofia era stato soprattutto un affare maschile e la donna considerata un ricettacolo di banalità. Il libello uscì nel 1970, quasi in coincidenza con la fondazione del gruppo Rivolta femminile. Mi colpì che definiva le donne l’imprevisto della storia”.
Come la conobbe?
“Casualmente. Un’amica mi invitò a partecipare a una riunione di autocoscienza. E lì vidi Carla. Era una donna affascinante e spiritosa. La prima volta indossava dei pantaloni di pelle nera e una camicetta bianca. Una mise inusuale per l’epoca. Era di una bellezza fuori dai canoni. Nel passato era stata allieva di Roberto Longhi e aveva esercitato la critica d’arte. Aveva scoperto Carla Accardi, Kounellis, Twombly e Pietro Consagra. Con quest’ultimo ebbe una lunga storia che si concluse nel 1979”.
Anche tra di voi ci fu una rottura.
“Fu una scelta abbastanza drammatica. Carla mi pose di fronte a un’alternativa secca: o sei con me o sei fuori dal gruppo di Rivolta femminile”.
Cosa era accaduto?
“Pensavo che il movimento si dovesse avvalere di una casa editrice propria, capace di rappresentare le istanze femministe. Lei reagì male”.
Perché? Dopotutto era abbastanza naturale che un movimento si dotasse di una casa editrice.
“In effetti, all’inizio Carla sembrò interessarsi al progetto. Poi prevalsero i dubbi. Infine la certezza che la casa editrice ci avrebbe obbligato a venire a patti con i circuiti commerciali. Non a caso lei aveva sempre pubblicato per editori sconosciuti e spesso distribuiva a mano i suoi libri. Era una donna che non amava i compromessi. Rispettavo le sue posizioni, ma sentivo la necessità di una struttura più solida”.
E crea la casa editrice “La Tartaruga”, come mai un titolo così?
“Fu piuttosto strano. Anche perché il panorama internazionale era popolato da “Édition des femmes”, “Women’s Press”, “Virago Press”. Scelsi “La Tartaruga” perché l’animaletto simboleggiava una lentezza e un’autonomia proverbiali. Non volevo correre e, soprattutto, non volevo dipendere eccessivamente dal mercato. Ricordo che ne parlai con Erich Linder, il più straordinario tra gli agenti letterari, allora anche l’unico. Lo conobbi alla Milano libri, dove tra l’altro avevo lavorato. Somigliava a Erich von Stroheim. Mi ascoltò mentre gli illustravo l’idea di una casa editrice al femminile, ma attenta alla qualità della scrittura. Fu prodigo di consigli. E generoso”.
Che anno era?
“Uscii dal gruppo di Rivolta nel 1974 e fondai la casa editrice l’anno successivo”.
Ha più rivisto Carla Lonzi?
“Solo una volta, ci incontrammo casualmente per strada. Due parole di circostanza e niente più. In cuor mio sapevo che prima o poi l’avrei rivista in un modo più autentico. E invece non accadde. Morì troppo presto. Se ne andò nel 1982 per il riacutizzarsi di un tumore. Non sapevo che era malata. È doloroso pensare alla vita di alcune persone che hanno segnato parte del tuo cammino e poi perderle definitivamente, senza un chiarimento, una risposta, uno sguardo di intesa”.

 Ci sono due donne sulle quali si esprime con giudizi opposti: Virginia Woolf e Simone de Beauvoir.
“Appartengono a due esperienze differenti. Virginia sembrò darci un’idea della donna vista dall’interno. Simone esteriorizza, ne parla come farebbe una mentalità maschile. Quando lessi Il secondo sesso non capivo a chi volesse rivolgersi. Non mi emozionai leggendolo. Spirava un vento freddo in quelle pagine che mi gelarono le dita. Oltretutto, mi insospettiva l’immagine che dava di sé: accanto a Sartre, incorniciata da certi ridicoli turbanti, come una signora intelligente della buona borghesia, destinata a governare un salotto letterario”.
E la Woolf?
“Intanto era bellissima. Conobbi bene la nipote Angelica Garnett, figlia di Vanessa Bell. Andai a trovarla dove viveva, in un villaggio della Provenza. Ci vedemmo nella piazza del paese. L’attesi seduta a un caffè. Arrivò radiosa e mi condusse a casa. Un bel giardino e poi notai le pareti affrescate di suoi disegni e una grazia nel portamento snello. Somigliava in maniera impressionante a Virginia. Lo stesso volto allungato, il naso che sembrava una piccola spada e gli occhi. Occhi grandi, chiari e sempre spalancati sullo stupore del mondo”.
Cosa pensava della zia, del suo suicidio?
“Credo che avesse messo quell’episodio tragico tra parentesi. Non ricordo nessuna allusione. Del resto, era poco più che ventenne quando la Woolf morì. Allora non sapeva che fosse una grande scrittrice”.
Però era vissuta in un ambiente di artisti, in quel clima di Bloomsbury dove ciascuno, come in una meravigliosa recita, interpretava una parte.
“Bloomsbury era una garanzia di creatività e libertà tra le persone”.
Libere e promiscue.
“Cosa intende?”
Mi pare che Angelica era nata da un unione illegittima tra Vanessa Bell e Duncan Grant. Vanessa era infatti sposata a Clive Bell. La promiscuità è che tutti andavano con tutti. Sessualmente viaggiavano senza passaporto. E in seguito Angelica sposerà lo scrittore David Garnett che era stato l’amante di Duncan Grant.
“Era una comunità sessualmente molto libera, dove le donne avevano un ruolo tutt’altro che subordinato”.
Lei perché volle incontrare Angelica?
“Perché era l’ultima testimone diretta di quel mondo nel quale aveva conosciuto tutti. Fu generosa e quando le dissi che avrei volentieri pubblicato il saggio Le tre ghinee – che io considero tra le cose più belle che Virginia Woolf abbia scritto – fu molto felice. In quel libro profetico, che uscì nel 1938, insieme all’imminente tempesta che avrebbe sconvolto l’Europa, si percepiva il ruolo fondamentale che Virginia assegnava al movimento delle donne”.
C’è qualcosa di analogo tra le scrittrici italiane che le abbia suscitato gli stessi sentimenti?
“No, la Woolf fu un caso di ineguagliabile talento nella scrittura e profonda visione sociale. Però una scrittrice italiana che mi ha affascinato è stata Anna Banti. Apparentemente quanto di più distante dal mio mondo. Era la moglie di Roberto Longhi e per avere un contatto con lei mi rivolsi a Cesare Garboli. Ricordo che Cesare mi invitò a pranzo in un ristorante dalle parti di Viareggio, dove viveva. Passammo un paio d’ore in cui brillò per intelligenza e teatralità”.
Era certamente lui.
“Alla fine mi sorprese, perché dopo aver chiesto il conto pregò il cameriere di preparargli un cartoccio con i resti del pesce. Se lo mise in tasca e tornammo verso casa. Dove ad accoglierlo c’erano cinque o sei gatti, ai quali distribuì gli avanzi. Fu Cesare a mediare il mio incontro con la Banti. Avevo letto il racconto Lavinia è fuggita, tanto bello da reggere perfino il confronto con la Woolf. Le spiegai l’intenzione di voler pubblicare una sua raccolta di racconti. Alla fine, dopo qualche perplessità legate al fatto che Mondadori preparava un Meridiano su di lei, accettò”.
Mentre parlava pensavo che è sempre difficile stabilire il grado di autonomia di una donna, o magari di un uomo, dentro una coppia. La Banti scrittrice mentalmente molto libera costruì un muro di protezione attorno a Longhi.
“Credo che sapesse essere molto autonoma e al tempo stesso protettiva. Non dimentichi che era nata alla fine dell’800, allevata nei valori della borghesia, da cui in parte ha saputo emanciparsi. Quando la incontrai vidi una donna che aveva saputo dare un senso nuovo alla parola solitudine”.
Cosa vuole dire?
“Di solito la donna sola è sempre un po’ compianta. È senza qualcosa. La solitudine ha anche il suo lato positivo. Dopo anni vissuti in famiglia la si può apprezzare e non esserne vittima perché ci manca qualcosa o qualcuno. La solitudine per me è disporre del proprio tempo, dei propri desideri. Essere se stesse”.
L’accosterebbe dunque alla vecchiaia?
“Non necessariamente, anche se è facile che le due cose camminino insieme. Nella vecchiaia si allentano o si perdono tutti i legami precedenti: sei stata figlia, poi moglie e infine madre e magari nonna. La vita per un lungo tempo è affollata di presenze. Poi, a un certo punto, si perde questa folla e si entra in una nuova dimensione. La vecchiaia è una stagione con le sue particolarità”.
Tra queste c’è anche la riscoperta della fede?
“Per quanto mi riguarda mi interessa molto di più la laicità. La religione è stata per lungo tempo per me una cosa quotidiana. Presente nella scuola, soprattutto. Poi ne ho capito il folclore. E lì l’ho abbandonata”.
Cos’è l’amore per lei?
“Credere nel sentimento amoroso ma non nel sentimentalismo”.
Ha figli?
“Due e vari nipoti”.
Perché “femminista distratta”?
“Perché non sono metodica. Seguo l’ispirazione del momento. E spesso mi distraggo”.
Un antidoto contro la noia. Ha paura di annoiarsi?
“La noia, quella profonda, è un sintomo del fatto che le cause in cui credevi non erano poi così interessanti. Quel tipo di noia non mi ha afflitto. Non ho rimpianti né pentimenti. Ho vissuto da donna e da femminista. Due condizioni che hanno trovato un corretto equilibrio”.

(Repubblica, 28 febbraio 2016)
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