20 Aprile 2005
il manifesto

Le ali di Jessamy in volo fra due mondi

Incontro con Helen Oyeyemi giovanissima autrice del romanzo «La bambina Icaro», storia di un’amicizia immaginaria, ma molto pericolosa, fra la Nigeria e Londra
Maria Teresa Carbone

Nella scena che apre La bambina Icaro, romanzo di esordio della ventenne anglo-nigeriana Helen Oyeyemi, pubblicato a gennaio con molto clamore in Gran Bretagna e prontamente edito in Italia da Rizzoli (pp. 337, euro 17,50, traduzione di Annamaria Biavasco, Valentina Guani e Elisabetta Humouda), la protagonista del libro, la piccola Jessamy Harrison, è nascosta in un guardaroba: «Era seduta nell’armadio del corridoio, tra asciugamani e biancheria, e mormorava tra sé: Sono nell’armadio. Aveva la sensazione di doverselo ripetere per riuscire a crederci. Un po’ come faceva al mattino quando si svegliava e si diceva: Mi chiamo Jessamy. Ho otto anni». Incerta di sé, fragile, divisa fra due culture – quella del «bianchissimo e biondissimo» padre inglese, e quella della madre, Sarah, che ha lasciato la sua Nigeria per Londra dove è diventata scrittrice -, Jess è una bambina solitaria, che non ama la vita fuori dall’armadio e preferisce guardare per terra («un posto che rimaneva sempre più o meno uguale»), scrivere haiku, leggere. Ed è proprio la solitudine da un lato, e l’appartenenza a una doppia cultura dall’altro, a catalizzare, durante un soggiorno presso la casa africana della famiglia materna, l’apparizione di una amica immaginaria, ma anche molto reale, TillyTilly, che trascina Jess in un percorso sempre più doloroso alla scoperta di sé, in cui si avvertono echi delle vicende personali dell’autrice. Arrivata a Londra dalla Nigeria a quattro anni, Oyeyemi, che oggi frequenta il secondo anno di scienze politiche al Corpus Christi College di Cambridge e appare come una ragazza sicura di sé e spiritosa, con un paio di ciocche blu cobalto che spiccano nella sua capigliatura nera, ha attraversato nel corso dell’adolescenza una profonda crisi depressiva, superata anche, se non soprattutto, grazie alla scrittura: una scrittura, ha detto di lei la scrittrice Ali Smith, in cui lo stile infantile, «tanto esplicito da risultare imbarazzante», unito a una grande sicurezza narrativa, produce «una sorta di isteria stranamente concreta». Abbiamo incontrato Helen Oyeyemi a Roma, dove è venuta nei giorni scorsi per presentare il suo libro.

Lei ha firmato il contratto per la pubblicazione della Bambina Icaro quando aveva appena diciott’anni, ma il testo ha richiesto una elaborazione lunga e complessa. Ce ne vuole parlare?

Ho iniziato a scrivere molto presto, senza nessuna pretesa letteraria: era una pratica personale e non mostravo a nessuno i miei testi. Quando avevo tredici anni ho cominciato una serie di racconti, che ruotavano intorno alla figura di una bambina un po’ vera e un po’ immaginaria, TillyTilly appunto, e componevano una unica storia, caratterizzata dal fatto che di volta in volta lei finiva sempre per danneggiare i suoi amici. All’ultimo anno di scuola, però, ho avviato un racconto diverso, dove questo personaggio non aveva più un ruolo centrale e compariva invece una nuova protagonista, Jess. Quando sono arrivata a una ventina di pagine, ho avuto la sensazione che fosse la cosa migliore che avevo scritto fino a quel momento. Così, ho mandato il testo a un agente letterario, Robin Wade. In realtà, volevo solo chiedergli qualche consiglio, perché pensavo che in futuro, magari a trenta o quarant’anni, sarei diventata una scrittrice. Il giorno dopo invece ho ricevuto la sua risposta: mi diceva che era entusiasta e aspettava il seguito. È stato un periodo strano, che ricordo come una sorta di sogno: stavo preparando gli esami finali, dovevo affrontare il colloquio di ammissione a Cambridge, e intanto scrivevo quasi di nascosto. In casa non avevo parlato del mio romanzo, usavo il computer dei miei genitori, ma a loro raccontavo che era per i miei compiti. Così, quando ho firmato il contratto per la pubblicazione del romanzo, questo ha rappresentato una sorpresa per tutti.

 

Al suo successo ha in parte contribuito il fatto che il suo profilo di autrice – la sua giovinezza, la sua provenienza da un retroterra culturale misto – corrisponde al sogno di ogni editore, all’incarnazione di una tendenza letteraria sempre più diffusa. Questo non la disturba?

Quando Robin Wade mi ha incoraggiato a continuare, ho pensato che si trattasse di un’occasione da non perdere. Certo, sono consapevole di avere tutti gli elementi giusti per diventare un «caso letterario», a partire dal fatto che ho scritto questo primo libro quando ero giovanissima, ma sono convinta che quello che conta alla lunga è il testo, ed è questo che mi interessa di più. So bene di rappresentare una moda, che come tutte le mode è destinata a estinguersi presto. Ma è sulla qualità della scrittura che si misura un autore, e su questo, con il tempo e con l’esercizio, comincio a sentirmi più forte.

 

La protagonista del suo libro è, come lei, un’avida lettrice, e nel testo vengono citati molti autori diversi, dai grandi scrittori africani come Achebe ai poeti romantici inglesi, alla Alcott di Piccole donne. Quali sono le voci che l’hanno influenzata di più?

In questo periodo sto rileggendo tutte le poesie di Emily Dickinson, e sicuramente la sua scrittura avrà una presenza molto intensa nel nuovo libro che sto scrivendo, un romanzo ambientato a Cuba e incentrato intorno alla mitologia yoruba. Ma dietro La bambina Icaro c’è tutta una massa di letture che si intrecciano, a partire proprio da Piccole donne, un libro che in effetti continua a piacermi molto per il modo in cui segue la trasformazione delle quattro ragazzine su un lungo arco di tempo. I testi che mi hanno colpito di più, che ho sentito più vicino, però, sono stati i racconti di Poe e Yoruba Girl Dancing, un romanzo di qualche anno fa della scrittrice anglonigeriana Simi Bedford: quando l’ho letto la prima volta, sono rimasta sconvolta. Quanto ai grandi scrittori africani, e nigeriani in particolare, come Achebe e Soyinka, non credo di averne subito l’influenza, anche se apprezzo il modo in cui scrivono della Nigeria senza mai essere «esotici».

 

Di recente lei ha affermato in un articolo che potrebbe analizzare l’Africa d’oggi per anni interi, senza sapere di cosa in realtà si tratti. Eppure la cultura tradizionale nigeriana ha un ruolo importante nel suo romanzo.

In effetti, mi irrita molto sentir parlare genericamente di Africa, mi chiedo di cosa si stia parlando, come se si trattasse di un luogo omogeneo. Al contrario, sono convinta che sia necessario guardare all’Africa nelle differenze, molto forti, fra le diverse culture. Così, per quanto mi riguarda, preferisco parlare del paese che conosco meglio, la Nigeria, e delle sue condizioni attuali, che continuano a essere preoccupanti, anche se forse si intravedono segnali positivi di cambiamento. E nella Bambina Icaro, anche se non ho preso spunto da un particolare mito del patrimonio yoruba, sono stata influenzata dai racconti di mia nonna, che è una formidabile narratrice di storie. Anzi, potrei dire che ho cercato di fondere il suo gusto del racconto con elementi legati alle mie letture.

 

Pensa che la posizione di «dualità» culturale in cui si trova la protagonista della Bambina Icaro, Jess, possa essere stata influenzata dalla sua situazione? E in generale ritiene che l’elaborazione del suo romanzo si possa ricollegare alla depressione di cui è stata vittima nell’adolescenza?

Se Jess si trova in una posizione di incertezza, è perché mi sono resa conto che non potevo mantenere come personaggio centrale TillyTilly, che è priva di sostanza, dato che non esiste un distacco fra quello che lei è e le azioni che compie. Avevo quindi bisogno di sviluppare una figura da contrapporre alla sua: una figura che fosse in una situazione di insicurezza tale da consentire a Tilly-Tilly di insinuarsi dentro di lei. La dualità di Jess la rende vulnerabile, ma non direi che corrisponde alla mia personale esperienza, sebbene sicuramente anch’io, in quanto figlia di immigrati, mi trovi in una posizione «intermedia», che può rivelarsi interessante dal punto di vista letterario. Quanto al rapporto fra depressione e scrittura, devo premettere che non mi piacciono i testi autobiografici, i memoir. E in ogni caso penso che per scrivere sia necessario essere in uno stato di buona salute mentale. Quando ci si sente depressi, nulla va come si desidera, e qualsiasi cosa si scriva tende a essere autoreferenziale. E questa non è certo una situazione produttiva.

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