30 Gennaio 2007
il manifesto

Leggere a Tehran dietro i veli della censura

L’ascesa delle intellettuali è un fenomeno di enorme portata, il cui impatto sull’assetto del paese è tanto più rilevante, perché non è più limitato alle élite
Dopo secoli in cui la letteratura persiana è stata dominata da opere di poesia «al maschile», ora è l’epoca della prosa scritta dalle donne Alternando spesso impegno politico e letterario, le scrittrici sono le protagoniste di una nouvelle vague che riesce con successo a sfidare il regime
Anna Vanzan

L’Iran è tornato a occupare stabilmente le prime pagine dei giornali di tutto il mondo, dopo i clamori alla fine degli anni Settanta, quando si era imposto all’attenzione internazionale come il paese che aveva rovesciato un governo oppressivo ma «laico» per mortificarsi sotto l’egida di una rigida teocrazia islamica. Fra l’ascesa dello sciismo – dal 1501 la religione di stato in Iran – come componente politica nel mondo arabo orientale e la querelle internazionale che pone la Repubblica Islamica d’Iran sul banco degli accusati per la sua determinazione a conseguire l’energia nucleare, l’interesse globale per il «paese degli ayatollah» è enormemente cresciuto negli ultimi due anni. Le vicende iraniane interne ci giungono sull’onda delle dichiarazioni del suo presidente, Mahmud Ahmadinejad, che mentre dà in escandescenze contro Israele, infligge quotidiane umiliazioni alla popolazione e alla società civile, vessando in particolare le componenti più propositive e a lui contrarie: donne, giovani, intellettuali.
Dietro l’egemonia degli «inturbantati»
Al tempo stesso, chi non si accontenta delle semplificazioni della maggioranza dei media (che continuano a proporre trite immagini di un paese stretto tra chador e crisi economica) segue con interesse misto a stupore le molteplici attività delle organizzazioni non governative che si muovono sull’altopiano e che operano in ambiti diversi, dall’archeologia all’ambientalismo, dalle questioni femminili/femministe alla difesa dei diritti dei bambini. E non manca di sorprendersi di fronte al fervore della scena culturale iraniana animata da mostre di pittura e scultura, festival cinematografici, manifestazioni letterarie. Come è possibile conciliare l’egemonia politico-sociale degli «inturbantati» e l’attività delle (tante) donne come il premio nobel per la pace Shirin Ebadi, oppure la repressione di universitari (docenti e studenti) con le librerie iraniane traboccanti di nuovi titoli? Da tempo si parla dell’Iran come di un paese schizofrenico, definizione che ha sostituito quella secolare, attribuita dall’Occidente, di un paese ipocrita, dove la gente si comporta in un modo nella vita pubblica e al contrario nel privato. Poco si conosce invece dell’attività culturale degli iraniani, se non di riflesso, quando casi di intellettuali perseguitati dal regime salgono alla ribalta internazionale.
Vale la pena allora sottolineare come negli anni successivi alla rivoluzione il livello di istruzione sia cresciuto in modo esponenziale: attualmente la giovanissima popolazione (due terzi degli iraniani hanno meno di trent’anni) è composta da uomini e donne che hanno un livello di istruzione medio-alta e che seguono con grande interesse quanto il mercato editoriale propone: un fattore, questo, che ha naturalmente stimolato la produttività degli scrittori.
Da tempo immemorabile la letteratura costituisce un’arena privilegiata del dibattito culturale e sociale iraniano e gli scrittori sono impegnati nel denunciare le ineguaglianze, l’oppressione politica e l’ipocrisia di una parte della classe dei religiosi: già Hafez, il poeta iraniano per eccellenza vissuto nel XIV secolo, era un fustigatore della doppiezza dei sedicenti religiosi.
Il trionfo del racconto breve
Anche oggi la letteratura soddisfa la duplice esigenza di scrittori e lettori che sentono la necessità di esprimere le loro insoddisfazioni rispetto sia alla generale mancanza di libertà sia nei confronti di quella grande fetta di società iraniana che non sa o non vuole adeguarsi alle istanze della modernità e al bisogno di riforme.
Adeguandosi ovviamente ai tempi, gli autori iraniani pongono oggi minore attenzione ai canoni retorici, mentre attribuiscono grande importanza ai contenuti e adottano di preferenza la forma del racconto breve, divenuto veicolo privilegiato per esprimere sentimenti e idee, mezzo duttile che ben si presta alla pubblicazione su riviste o addirittura sul web. La letteratura degli iraniani insomma si modifica per superare le difficoltà, per sfuggire all’occhio sempre vigile del censore, nascondendo significati pericolosi sotto strati di simboli e di allegorie. È una letteratura in lingua persiana concepita per un pubblico di lettori persiani, per la maggior parte fiction di una certa qualità, assai lontana dalle celebri «Lolite» che non si leggono a Tehran, ma che sono viceversa scritte in inglese e confezionate per essere lette a Parigi e a New York, dove diventano best seller (e dove la prosa letteraria cede il passo a quell’aspetto socio-scandalistico dell’Iran che tanto piace in Occidente).
Nel complesso, tuttavia, la situazione editoriale iraniana è tutt’altro che rosea: gli editori privati, cui sono stati tagliati i fondi governativi e che sono i più vessati dalla censura per le loro scelte ritenute spregiudicate dal regime, sopravvivono con grande difficoltà, ma riescono comunque a resistere. In questa nuova produzione letteraria iraniana straordinario è il numero delle donne, che anche in questo settore hanno superato, per numero e abbondanza di produzione, i colleghi maschi, così come le studentesse universitarie sono ormai più numerose dei loro compagni.
L’ascesa delle scrittrici e delle intellettuali è un fenomeno di enorme portata il cui impatto sull’assetto sociopolitico e culturale del paese è sempre più rilevante, anche perché non è più limitato alle élites. L’alto grado di istruzione raggiunto dalle donne, l’accessibilità (per costi e distribuzione) della produzione letteraria e la voglia di cambiamento delle giovani donne fanno sì che questa letteratura abbia una diffusione relativamente ampia, diventando strumento di riflessione, discussione e lotta.
Non sono poche, fra l’altro, le scrittrici che alternano impegno politico e letterario: è questo il caso, per esempio, di Noushin Ahmadi Khorasani, autrice di racconti brevi, ma anche animatrice di riviste femministe, ora passate on line, sempre presente non soltanto nelle manifestazioni di piazza, ma ovunque occorra perorare la causa delle donne. Per aggirare l’ostacolo rappresentato dagli editori, spesso restii a pubblicare libri che potrebbero incorrere nelle maglie della censura, Noushin ha inaugurato una sua casa editrice, che si affianca alle circa cinquecento sigle editoriali dirette da donne nel paese (anche se solo circa la metà di queste è veramente attiva).
Coniuga impegno civile e attività editoriale anche la storica Ziba Jalali Naini, collaboratrice di «Esprit» e dei parigini «Cahiers de l’Orient», che in Iran dirige la rivista «Godfeglu» (Dialoghi) e una casa editrice orientata soprattutto alla pubblicazione di testi socio-filosofici. La studiosa è inoltre da tempo impegnata in un progetto di riscrittura dei testi didattici che negli anni successivi alla Rivoluzione sono stati modificati per persuadere le giovani generazioni del ruolo subalterno e domestico delle donne.
Luoghi di incontro
Diversi sono i dispositivi adottati dalle scrittrici per mascherare (ma forse «velare» sarebbe il termine più appropriato) la loro protesta. Alcune – da Azardokht Bahrami a Tahere Alavi – elaborano storie dove le donne sono volutamente descritte anche «in negativo», per sottolineare come i mali della società iraniana non siano tutti attribuibili agli uomini. Altre, come Farkhonde Aqai e Fereshte Sari, preferiscono invece celare la loro denuncia utilizzando tecniche narrative particolari: così la prima avvolge le sue trame in atmosfere misteriose tipiche del genere giallo, mentre la seconda impiega un linguaggio simbolico e allusivo, che dà alle sue narrazioni un tono sottilmente inquietante.
Dopo secoli in cui la letteratura persiana è stata dominata da opere di poesia «al maschile», ora è l’epoca della prosa scritta dalle donne. Così, paradossalmente, oggi sono gli scrittori a cogliere qualche idea dalle loro colleghe: di recente per esempio è uscita un’antologia di racconti di un gruppo di autori che ricalca una analoga operazione condotta con successo tempo fa da sette scrittrici. In un quadro complessivamente repressivo qual è quello iraniano, la scrittura potrebbe in ogni caso apparire come un lavoro pericoloso (oltre che poco remunerativo). Eppure ci sono autori che hanno abbandonato carriere meno rischiose per dedicarsi alla penna: è questo il caso, fra gli altri, di Amir Hossein Cheheltan, ex ingegnere elettronico, che è oggi fra gli scrittori iraniani più noti e più prolifici. E sebbene periodicamente molti di questi scrittori e scrittrici abbiano dovuto scontrarsi con i rigori della censura, sperimentando in alcuni casi anche il carcere, nessuno desiste. Se l’arena politica è occupata dalle forze oltranziste, proprio il campo letterario e artistico diventa un luogo tanto più prezioso di scambio di idee e di confronto.
In uno spazio librario di Tehran, per esempio, si è festeggiato lo scorso autunno il premio internazionale «Publishers’ Freedom Prize» vinto nel 2006 da Shahla Lahiji, la prima donna editore in Iran. La sua casa editrice, Roushangaran, nata nel 1983, si occupa da oltre vent’anni di temi legati al mondo femminile, e in generale allo sviluppo del pensiero democratico. Significativamente uno degli interventi alla manifestazione era intitolato «Perché il silenzio» e polemicamente rilevava come i media iraniani non avessero dato nessuna notizia dell’importante riconoscimento internazionale ottenuto dall’instancabile editrice, ennesima dimostrazione dei risultati conseguiti, nonostante le evidenti difficoltà, dalla società civile.
Allo stesso modo, le gallerie d’arte in cui espongono artiste e artisti iraniani diventano luoghi dove si incontrano persone che condividono non solo l’amore per l’arte, ma anche e soprattutto una visione comune di vita in cui le relazioni sociali possano svolgersi serenamente e senza controlli da parte del potere politico. Alcune esposizioni, del resto, rappresentano un chiaro espediente per parlare di problemi sociali: ne è un esempio il premio fotografico intitolato a Kaveh Golestan, un giornalista iraniano ucciso da una mina in Iraq nel 2003, mentre lavorava per la Bbc: non a caso molte delle foto segnalate nelle recenti edizioni del premio – dai volti insanguinati degli studenti picchiati mentre protestano davanti alle università a una coppia giovanissima che si abbraccia in un parco cittadino (cosa non consentita se non c’è un vincolo coniugale fra i due) – rappresentano palesemente un atto di protesta e di denuncia nei confronti del regime.
Una lunga convivenza con la dittatura
Ovviamente non tutto il paese partecipa di questa vivacità intellettuale. Sono soprattutto le grandi città, e in primis Tehran, che coagulano fermenti e aspirazioni, mentre l’Iran rurale resta ancora in gran parte lontano dagli stimoli culturali in cui si coniugano creatività e impegno sociale. Sono numerose le cittadine prive non solo di gallerie d’arte ma pure di librerie, così come la percentuale di lettori e di libri letti è molto disuguale.
Eppure, nonostante le continue delusioni politiche, una grande spinta vitale si avverte in Iran, una spinta che ha le sue radici nella lunghissima storia del paese. Gli iraniani hanno maturato un’esperienza millenaria di adattamento a condizioni avverse: dalla conquista araba, avvenuta nell’VIII secolo, essi sono stati soggetti a una infinita serie di dinastie straniere, perlopiù turche, finché negli anni Venti sono stati dominati dalla brevissima dinastia dei Pahlavi, iraniani sì, ma pur sempre autocrati e dispotici. Poi è arrivata la teocrazia. Usi da secoli a convivere tra una dittatura e l’altra, gli iraniani hanno imparato così a compensare il mancato affermarsi di un progetto democratico con una sempre rinnovata creatività in campo artistico e culturale, una creatività di cui purtroppo l’Occidente coglie, colpevolmente, poco o nulla. A parte il cinema (che peraltro riscuote consensi soprattutto di critica ai grandi festival internazionali, rimanendo tuttavia poi confinato in brevi apparizioni in sale d’essai), la letteratura, come la pittura e la scultura, vengono ancora una volta esiliate in spazi eccessivamente angusti dal grande gioco dei mercanti e mercati internazionali.

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