15 Gennaio 2005
D di Repubblica

Nel faro delle storie. Intervista a Jeannette Winterson

Monica Capuani

Al 40 di Brushfield Street, proprio di fronte al vivacissimo Spitalfield Market, nell’East End di Londra, c’è una vecchia casa di mattoni rossi e, al piano terra, un negozio con l’insegna “Verde’s”. In un’epoca remota apparteneva a un importatore di arance e Jeanette Winterson, il cui romanzo d’esordio si intitolava Non ci sono solo le arance, non ha saputo resistere. Ha ristrutturato la casa, dove vive quando è in città, e riaperto il negozio, che vende verdure biologiche e delicatessen dalla Francia e dall’Italia. Saliamo al piano di sopra, dove il fuoco è acceso nel caminetto. E li si svolge la nostra conversazione su Il custode del faro, che Mondadori pubblica in Italia in questi giorni. Minuta, gli occhi febbrili e i riccioli ribelli, anni fa Jeanette Winterson fece una tumultuosa comparsa al Festiva letteratu ra di Mantova e tenne, davanti al pubblico stregato dalla forza dei suo eloquio e della sua gestualità, un’autentica “predica”. Raccontò che, abbandonata dalla madre, era stata adottata nel villaggio di Accrington, vicino Manchester, da due “folli di Dio” che l’avevano destinata alla vita della Chiesa. Una storia simile a quella di Silver, la piccola orfanella narrata in quest’ultimo romanzo e affidata al vecchio Pew, il custode dei faro cieco. Nata nel ’59 come l’autrice, è un personaggio dickensiano con l’ossessione di raccontare storie, come fa la gente di mare per sopravvivere alla noia della bonaccia o al furore delle tempeste.

Come mai questo interesse per una storia di mare?

Mi sono resa conto che tutti i miei libri finiscono con l’acqua, di un fiume o dei mare, e quest’elemento è potente anche a livello onirico e simbolico per me, l’idea che tra qui e New York c’è solo la vastità dell’oceano mi piace. Chissà com’era navigare all’epoca delle navi a vapore: giorni e giorn in mare, in balia dei nulla, poi all’improvviso, in lontananza, la luce d’un faro. In questo romanzo volevo raccontare il viaggio che ciascuno di noi fa grazie alla vita. E il faro funzionava come perfetta metafora di speranza, guida, consolazione, monito.
L’immagine del faro non può non richiamare Virginia Woolf… Uno dei miei fari nel mondo della letteratura. Quando ero a Oxford a studiare, i miei professori dicevano che nell’800 c’erano quattro donne scrittrici: Jane Austen. Emily e Charlotte Brontè e George Eliot. Io ero disperata: “Solo quattro?”, mi ripetevo. Una donna che, come me, voleva scrivere non aveva un grande passato dietro di sé. Un secolo dopo, Virginia Woolf aprì una porta che era sempre stata chiusa: fu la prima a sperimentare davvero con le parole e a crearsi nel mondo maschile delle lettere uno spazio tutto per sé, difendendolo con le unghie e i denti. L’ossessione di raccontare storie che ha Silver è anche la sua…
Sono cresciuta ascoltando storie. Vivevo con una famiglia povera e analfabeta nel nord dell’Inghilterra rurale. L’istruzione non stava a cuore a nessuno, ma c’era una tradizione orale di storie della Bibbia e non solo. Questo mi ha insegnato a memorizzare quei racconti e anche a considerare una storia come un talismano che puoi portare in tasca e raccontare a te stesso quando ne hai bisogno. Un grande conforto negli anni dell’infanzia, perché ero una bambina solitaria. E’ grazie a questo se sono sopravvissuta, avvolgendomi in questa calda coperta di storie. E ho sempre pensato che se fossi riuscita a raccontare me stessa in quel modo avrei conquistato la libertà. Perché se sei una storia puoi sempre cambiare il tuo destino, puoi essere Aladino, Huckleberry Finn o Robinson Crusoe, Heathcliff. La vita, invece, ha un finale già scritto.

I libri, quindi, erano un passo verso la libertà?

Sì, una porta che conduceva in un altro mondo. Non avevo una guida e procedevo divorando libri scaffale dopo scaffale. nella biblioteca dei mio paese. Erano come un sentiero solido sotto i miei piedi, la terra che sosteneva i miei passi. La mia ancora di salvezza. La miccia per la mia immaginazione, Ancora oggi quello che amo di più del leggere un libro è che e un atto privato e incontrollabile. Ci sei tu e c’è il libro, nessuno può sapere cosa stia accadendo dentro di te mentre sei li che leggi quelle pagine, nessuno può interferire in quello spazio privato. Forse è l’ultima vera libertà, questa storia d’amore tra lettore e scrittore. E quest’ultimo si deve esporre, senza paura di spendere delle parti di sé. Frida Kahlo ha affermato con i suoi quadri che non c’è separazione tra l’artista e la sua opera. Sono gli uomini che separano continuamente la sfera pubblica da quella privata. Come il personaggio di Babel Dark nel mio libro, che vive una doppia vita con una moglie che odia e un’amante che lo fa impazzire di gioia e di emozione. Una fonte di ispirazione, così almeno crede lui, per Jeckyll/Hyde di Robert Louis Stevenson. Rampollo di una famiglia di ingegneri responsabili della costruzione della maggior parte dei fari d’Inghilterra…

Anche in questo romanzo lei parla d’amore con spudoratezza, senza timore di essere bollata di “sentimentalismo”.

È vero. Le due parole più difficili da pronunciare oggi sono “ti amo”. A dire “ti odio” ci riesce chiunque, e si dice sempre di più. Ma dire “ti amo” è una cosa così enorme, così complessa, così esigente, e che ci rende così vulnerabili che pronunciare quelle due parole diventa un’impresa eroica. C’è chi dice: “Oh Dio, un altro libro sull’amore!”. L’amore è un argomento così enorme che non dovrebbe esistere libro che non lo affronti.
Che lo si abbia o meno, l’amore è il tema sul quale abbiamo bisogno di discutere in continuazione. E per quanto affermi di aver voglia di sicurezza e conforto, l’essere umano per natura ama il rischio e le emozioni forti. È questa la grande nevrosi: cercare di trasformare in qualcosa di rassicurante un’emozione che per costituzione è l’esatto contrario. La cosa migliore è accettare questa realtà, Invece di ripeterci come un mantra: “Non devo lasciarmi ferire”, dovremmo augurarci il contrario. Tanto accadrà in ogni caso.

Quindi “tanto vale vivere”…

Certo. La nostra stessa identità è un paese sconfinato che impieghiamo una vita intera a esplorare. Ogni tanto arriva qualcuno che ci porta in un territorio selvaggio di noi dove non eravamo mai stati e che non sapevamo esistesse. E il viaggio più intenso ed esotico che si possa fare. Freud, che l’aveva già capito all’inizio del secolo scorso, ha cercato di tracciare una carta geografica e di scrivere una guida a quel paese inaccessibile e ancora inesplorato. La scienza, però, ha il limite di invecchiare continuamente. L’arte, invece, vive in un eterno presente. Calvino nelle Città invisibili dice che dobbiamo capire la differenza tra ciò che è “inferno” e ciò che non lo è, per consentire a quest’ultimo di esistere e durare. L’uomo non è solo una creatura che mangia, dorme e lavora. È un essere che sogna e ama. Quel fragile, sottile, delicato mondo di emozioni ed esperienze va riconosciuto e alimentato. Il mio compito, come artista, è quello di proteggere quel mondo e dargli spazio: in ogni opera d’arte, c’è sempre qualcuno che ama, che esulta e che piange.

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