7 Giugno 2016
le Monde

Pensavo solo a disubbidire (Titolo originale: «Je ne pensais qu’à désobéir»)

Intervista ad Annie Ernaux realizzata da Sandrine Blanchard

Traduzione di Silvia Baratella


Non sarei arrivata dove sono se…

…Se non fosse per mia madre! E lo dico senza esitazioni! Mia madre è stata fondamentale. Per la sua personalità, la sua forza, il suo sguardo sul mondo e in particolare sul mondo sociale. Tutto questo mi ha sostenuta, e mi ha sostenuta anche nella rivolta. Lei voleva tracciare il mio destino. Ne è ampiamente responsabile.
Sua madre l’ha sempre spinta ad andare avanti. Voleva darle quello che lei non aveva avuto?
Voleva soprattutto darmi una vita interessante, una vita indipendente, questa parola era molto importante. Il successo materiale contava meno per lei del successo intellettuale. Appena si è accorta che andavo bene a scuola, si è messa a far di tutto per facilitarmi l’accesso agli studi e soprattutto – all’epoca cosa totalmente eccezionale nei confronti delle ragazze – per impedirmi letteralmente di dedicarmi a un’occupazione femminile. Aveva un certo tipo di condiscendenza, quasi di disprezzo, per le donne che restavano a casa perché il marito poteva permettersi di mantenerle. Sono stata cresciuta in questa immagine negativa della vita da casalinga. Quando è morto mio padre, poco tempo dopo mia madre ha detto una frase che ho trovato terribile: «Verrò da te e ti farò le faccende». Era per liberarmi. Significava «Sono sempre qui». È una cosa immensa.
Quando ripensa a sua madre, qual è la prima immagine che le torna in mente?
Materialmente, è l’immagine del fuoco. È stata una donna che, come diceva lei, non si era mai lasciata pestare i piedi. Il mio femminismo dipende da lei. Mia madre non aveva paura di niente. Era sempre in rivolta. Con degli eccessi di violenza spaventosi. La famiglia Duchesne non viveva nell’ovatta! Io ho preso un sacco di schiaffi. In questo campo sono una leggenda di famiglia!
Perché?
Perché ero un numero. Ho iniziato molto presto a ribellarmi all’autorità. Pensavo solo a disubbidire. Ero molto interessata alle questioni sessuali. Mia madre pensava che avessi in me tutte le possibilità del male e ne ero convinta io stessa.
Eccelleva a scuola per far piacere a sua madre o perché la scuola le piaceva?
La scuola mi rendeva felice. Figlia unica, in classe trovavo finalmente delle compagne. Ero una chiacchierona inveterata. E adoravo leggere. Ma tenevo distinta la lettura dei libri comprati da mia madre da quella per le lezioni di francese.
Quali sono i suoi primi ricordi notevoli di letture?
Via col vento di Margaret Mitchell, che ho letto a nove anni. Mia madre l’aveva comprato per sé. Suppongo che sia stato il modo in cui ne parlava con le clienti della drogheria a farmi venir voglia di leggerlo, perché adoravo stare sotto il bancone ad ascoltarle conversare. Quel libro per me rappresentava un mondo. Credevo alla realtà di quella storia. Ero andata persino a cercare il nome di Scarlett O’Hara sull’enciclopedia! Volevo saperne di più rispetto a quello che c’era nel romanzo. Anche Jane Eyre di Charlotte Brontë mi ha colpita molto. Quel libro in prima persona è come un filo rosso dell’esistenza. Anche in questo caso si trattava di vivere una vita di indipendenza, senza farsi dominare. Quei modelli mi hanno strutturata.
Quali sono i suoi sogni di ragazza?
Da bambina non avevo desideri precisi, il futuro era aperto. Con le mie amiche, le mie cuginette, c’era l’immaginario dell’amore. In alcune lettere che ho scritto a sedici il matrimonio mi ripugna. All’epoca non si immaginava nessun altro modo per stare con un uomo. Ho avuto molto presto la sensazione che il matrimonio fosse quasi solo la fine della vita. Forse era l’influenza di Una vita di Maupassant, che mi aveva scossa. L’ho letto a tredici anni di nascosto e ne sono stata completamente sconvolta.
Nasce allora la voglia di avere una professione?
Sapevo che avrei fatto qualcosa. Mia madre mi ha sempre ricordato che alle elementari una suora le aveva detto: «Annie è una futura insegnante». Non si era sbagliata! Tra chi rifugge il proprio ambiente sociale, i miracolati evadono così: da un mestiere che non richiede un’eredità economica.
A partire da quando ha questa coscienza di classe?
Non è mai stata formulata. Neanche nel mio diario segreto. È nell’ordine delle sensazioni e della certezza: facevo parte di un ambiente modesto. Avevo questa coscienza di classe nella scelta delle amiche, nel sentirmi diversa. Sapevo tutto quello che mi separava da alcune di loro e al tempo stesso avevo questo desiderio di imparare. Era un mondo che mi sembrava meraviglioso, perché c’era la musica classica, quella che non conoscevo. La musica era davvero, in quella fase dell’adolescenza, il segno dell’esclusione. Era quello di cui più avevo voglia di appropriarmi.
Che cosa le mancava di più?
Molte cose! Ma non è mai stata una gelosia sociale. Era una sensazione di carenza, di imperfezione. Il senso d’ingiustizia è arrivato molto più tardi.
Quando?
Non l’ho provato in me stessa ma nelle situazioni. Quando ho fatto la prima comunione nel collegio cattolico di Yvetot avevo chiesto se poteva venire mia cugina, che frequentava la scuola pubblica. Quando il giorno è arrivato, eravamo in maggio, lei si è messa il suo più bel vestito e un pellicciotto di lapin. La direttrice venne a chiedermi: «Non c’è sua cugina? Non la vedo».  Io le risposi: «Ma sì, c’è, è lì.» La faccia della direttrice… era piena di disprezzo. Non l’ho mai dimenticata. Di storie come questa potrei raccontarne a palate. È la forza dei transfughi quando ammettono di esserlo: ne sanno molto di più sui rapporti sociali, guardandola dalla posizione che occupano, di chi è stato da sempre in posizione dominante.
In che momento ha avuto l’impressione d’aver cambiato condizione sociale?

Essenzialmente vivendo lontano dai miei genitori e sposandomi con un ragazzo della media borghesia di destra.

Cos’è cambiato allora nella sua vita quotidiana?

Gli argomenti di conversazione; il fatto di percepire la condiscendenza del tuo compagno verso i tuoi genitori e il tuo ambiente; le famose buone maniere a tavola e, cosa che mi ha subito colpita molto, quella sicurezza nell’affrontare il mondo di cui io ero completamente priva. Hai l’impressione che il mondo sia fatto apposta per quella classe dominante e che le appartenga sia di diritto che di fatto. C’entra anche il corpo: quell’imbarazzo di avere un corpo plebeo, un’aria “da contadina”.

Qual è stata la prima persona a cui ha parlato della sua voglia di scrivere?

Una nuova amica, che ho conosciuto quando mi sono iscritta a lettere. In giugno, quando sono stata accettata al corso propedeutico all’università, mi ricordo di avere scritto, inventandomi un nome: «Anne Sainte-Claire pubblicherà il suo primo romanzo». È stato molto strano. In seguito, ho incassato dei rifiuti giustificati. Le cose non si sono svolte in modo lineare. La conseguenza di quei rifiuti è stata la fuga nella ricerca di una relazione con un uomo. Poi c’è stata una serie di cose un po’ drammatiche, come il mio aborto. Alla fine, mi sono trovata sposata e subito madre. Non potevo scrivere ma non ho mai smesso di pensarci. Mio marito, Philippe Ernaux, ha letto il mio primo testo e l’ha commentato in modo poco gradevole. Dopodiché non ho più dato niente da leggere a nessuno. Mi sono posta molto presto delle questioni di scrittura: non c’è una storia da raccontare. Non è la storia quel che conta, ma quel che c’era in gioco nella storia. In ciò che si è vissuto c’è qualcosa che fa andare avanti la conoscenza. C’è più nello scrivere che nel ricordare.

Lei aveva «voglia di vedere il mondo intero». L’ha fatto?

Quella voglia è stata incanalata molto in fretta dalle necessità della vita. Alla fine ho viaggiato soprattutto grazie ai miei libri. Ma ho fatto un viaggio che è stato estremamente importante con mio marito nel 1972. Avevo trentun anni. Era stato organizzato da Le Nouvel Observateur (l’antenato de L’Obs) per incontrare Salvador Allende in Cile. È durato due settimane. Entrando in contatto con le poblaciones, sono tornata alla mia infanzia in modo staordinario.

Perché?

Perché mi sono accorta fino a che punto ho vissuto in un mondo che era per certi aspetti vicino a quel che vedevo nelle poblaciones: il quartiere operaio, la famiglia di mia madre devastata dall’alcool eccetera. Nacque la sensazione di aver delle cose da dire. E poi c’era un giornalista letterario del Nouvel Obs ad accompagnare il gruppo, Jean-François Josselin. Discutevo molto con lui. Non so come né perché gli ho confidato il mio segreto: che avevo già scritto un testo. Al di fuori di mio marito, non lo sapeva nessuno. Jean-François Josselin voleva che glielo mandassi. Gli ho promesso di farlo. Ma non ho mantenuto la promessa. Quel primo testo del ’62 era una cazzata. Non raccontavo la realtà, non c’era niente di sociale, era solo una ricerca di forma. Alla fine, ho iniziato a scrivere un mese dopo quel viaggio in capo del mondo.

La politica le è sempre interessata…

Appartengo a quella generazione che ha succhiato col latte i racconti delle guerre del XX secolo. In famiglia ma anche a scuola, dove la prof di storia ci leggeva «Le campane di Nagasaki». E poi di politica ho sentito parlare fin da bambina nella versione Café du Commerce, il bar di mio padre. E mia madre ha sempre votato. L’ho accompagnata per la prima volta in cabina nel 1945. Andava anche ad assistere allo spoglio. Sono sempre in attesa di un profondo cambiamento. Da diversi decenni sto constatando un ineluttabile ripiegarsi della società su se stessa. Manca una reale accettazione degli altri. Ho insegnato alle medie a Pontoise tra il 1975 e il 1977. Mi ricordo di una classe di terza difficile, irrequieta. Abbiamo fatto dei dibattiti. Ho ancora in testa i discorsi già populisti di allievi che mi dicevano: «Mia sorella non ha avuto la casa popolare e degli arabi sì». La questione del razzismo ce la trasciniamo da molto tempo.

In che momento ha avuto la sensazione di essere in tutto e per tutto una scrittrice?

Sono cosciente, piuttosto, di un privilegio, di una chance di poter fare qualcosa che è – come forse avrebbe detto mia madre – quel che c’è di più bello. Non ho cercato di far carriera ma di preservare la possibilità di scrivere. D’altronde sta diventando molto difficile. Di fronte a ogni libro da scrivere, io non sono niente, ogni volta è una lotta. Ho realizzato quel sogno di scrivere e di essere pubblicata. Ma non è il nirvana, la felicità, non è affatto quel che immaginavo.

Cioè?

Non avrei mai immaginato che fosse un impegno simile; la forma quasi mistica che avrebbe preso la scrittura. Bisogna sacrificarle un sacco di cose: la vita sentimentale, un po’ anche quella familiare. Non sono una nonna molto disponibile! Quando si prende quella piega, è finita. L’esistenza è vuota e informe senza scrittura. Non si tratta di dire «mai lasciar passare un giorno senza aver scritto una riga», ma di stare nella ricerca, di avere un progetto intorno a cui tutto si focalizza. Vivere con un libro che bisognerà scrivere. Mémoire de fille (uscito nel 2016 per Gallimard, N.d,T.), mi sentirei molto in colpa se non l’avessi scritto. Anche La Place (Il posto, ed. L’orma, 2014, N.d.T.).

«È così che vive la gente?»: si è sempre posta questa domanda…

Sì. Sono stata immersa in una comunità fin da piccolissima. Vivere dal mattino alla sera con i clienti di un bar-drogheria, senza intimità familiare o quasi, significa avere l’impressione di essere stata attraversata, prestissimo, da ogni tipo di conversazione e di linguaggio. Poi, cambiar classe sociale, cioè cambiar mondo, ti dispone a osservare, a porti questa domanda. Le barriere sociali restano sempre molto forti. La società francese continua a essere una specie di aristocrazia con i suoi fasti, il suo decoro, le sue gerarchie…

Che posto ha avuto la religione nella sua vita?

Un posto importante. Tutti i giorni in collegio c’erano la storia sacra e le preghiere. Per mia madre, era importante essere religiosi: credere in Dio e comportarsi secondo una regola morale. Credeva nell’efficacia della preghiera. Anche se quando mia sorella è morta di difterite, la preghiera non è servita a molto. Ero veramente colpita dai sacrifici da fare e dal senso di colpa sessuale della mia prima confessione a sette anni: avevo confessato di aver commesso atti impuri e mi sono presa una terribile reprimenda da parte del confessore. Ne ho dedotto di essere praticamente dannata.

Che cosa ne resta?

Ne resta quello che potremmo chiamare un sottotesto. È anche come un primo mondo. Anche se sono persuasa che ci attenda il nulla, faccio come se ci fosse qualcosa che dovrebbe essere salvato e di cui io sarei depositaria. Non è la mia anima, è quello che faccio. È molto diverso. Si potrebbe dire che la letteratura o la scrittura abbiano sostituito Dio, in un certo senso. Oppure che scrivere è la missione che mi è stata assegnata.

Come ha vissuto gli attentati?

Stamattina, alla radio, sono stata colpita da quello che diceva molto pacatamente un ragazzo su France Inter (nome di un canale radio, N.d.T.): sì, c’è della violenza ma non quanta nelle grandi guerre o in Siria. Non lo diceva per passività ma come per un senso di quello che è il corso della storia. La cosa più dura è cercare di capire e sapere che non si potrà capire nel momento presente, che sarà possibile solo dopo. Quello che colpisce, anche – ed è terribile da dire – è la facilità con cui si assimila quello che succede. All’indomani degli attentati di Bruxelles, nella metropolitana tra Parigi e Cergy, un uomo e una donna avevano vagamente sentito dire cos’era successo: «Mi sembra che sia successo qualcosa a Bruxelles», diceva la donna. Ed è stato tutto. Questa vita che continua, ecco cosa mi ha colpita. Poi hanno parlato solo di lavoro, di vacanze, di bambini… Era un giorno come gli altri.




«Je ne pensais qu’à désobéir»

Je ne serais pas arrivée là si…

… Si ma mère ! Et c’est sans hésitation possible ! Elle a été fondamentale. A cause de sa personnalité, de sa force, de son regard sur le monde et en particulier sur le monde social. Tout cela m’a portée, et m’a portée aussi dans la révolte. Elle voulait tracer mon propre destin. Elle en est largement responsable.

Cette mère vous a toujours poussée à aller de l’avant. Elle voulait vous donner ce qu’elle n’avait pas eu ?

Elle voulait surtout me donner une vie intéressante, une vie indépendante – ce terme était très important. C’était moins la réussite matérielle que la réussite intellectuelle qui comptait pour elle. Quand elle s’aperçoit que je réussis bien en classe, elle va tout faire pour me faciliter cet accès et notamment – ce qui était tout à fait exceptionnel pour les filles à l’époque – de littéralement m’empêcher de me livrer à une occupation féminine. Elle avait une forme de condescendance, presque de mépris, pour les femmes qui restaient à la maison parce que leur mari pouvait les entretenir. J’ai été élevée dans cette image négative du ménage. Lorsque mon père est mort, elle a dit, peu de temps après, une phrase que je trouvais terrible : « Je vais venir chez toi et je ferai ton ménage. » C’était pour me libérer. Cela signifiait « je suis toujours là ». C’est immense.

Quand vous repensez à votre mère, quelle est la première image qui surgit ?

Matériellement, c’est l’image du feu. C’est une femme qui, comme elle le disait, ne s’est jamais laissée marcher sur les pieds. Mon féminisme, c’est à cause d’elle. Ma mère n’avait peur de rien. Elle était toujours en révolte. Avec des excès épouvantables de violence. On n’était pas dans la douceur dans la famille Duchesne ! J’ai reçu énormément de claques. Dans ce domaine je suis la légende de la famille !

Pourquoi ?

Parce que j’étais un numéro ! Je me suis très vite opposée à l’autorité. Je ne pensais qu’à désobéir. J’étais beaucoup portée sur les questions sexuelles. Ma mère pensait que j’avais en moi toutes les possibilités du mal et j’en étais aussi persuadée moi-même.

Votre excellence scolaire, c’était pour faire plaisir à votre mère ou parce que l’école vous plaisait ?

L’école me rendait heureuse. Fille unique, je retrouvais enfin des compagnes de classe. J’étais une bavarde invétérée. Et j’adorais lire. Mais je séparais mes lectures des livres achetés par ma mère de celles pour la classe de français.

Quels sont vos premiers souvenirs marquants de lecture ?

« Autant en emporte le vent » de Margaret Mitchell que j’ai lu à l’âge de 9 ans. Ma mère l’avait acheté pour elle. Je suppose que c’est la manière dont elle en parlait avec les clientes dans l’épicerie qui m’a donné envie de le lire. Car j’adorais être sous le comptoir pour les écouter discuter. Ce livre représentait un monde pour moi. Je croyais à la réalité de cette histoire. J’ai même cherché dans le dictionnaire le nom de Scarlett O’Hara ! Je voulais en savoir plus que le livre ! « Jane Eyre » de Charlotte Brontë m’a aussi beaucoup marquée. Ce livre à la première personne est comme un fil rouge de l’existence. Il s’agit, là encore, de vivre une vie d’indépendance, sans domination. Ces modèles-là m’ont structurée.

Quels sont vos rêves de jeune fille ?

Enfant, je n’ai pas de désir précis, l’avenir est ouvert. Avec mes amies, mes cousines, il y a l’imaginaire de l’amour. Dans des lettres que j’ai écrites à 16 ans, j’ai une répugnance pour le mariage. A l’époque on n’imagine pas d’autre moyen pour être avec un homme. J’ai très tôt le sentiment que le mariage n’est pas autre chose que la fin quasiment de la vie. Peut-être est-ce l’influence de la lecture d’« Une vie » de Maupassant, qui m’a ébranlée. Je l’ai lu à 13 ans en cachette et j’ai été complètement bouleversée.

Est-ce qu’une envie professionnelle se dessine ?

Je sais que je ferai quelque chose. Ma mère m’a toujours rappelé qu’au cours élémentaire une religieuse lui avait dit : « Annie est un futur professeur. » Ça n’a pas manqué ! Dans les transfuges sociaux, les miraculés passent par là ; par un métier où il n’y a pas besoin d’avoir un héritage économique.

A partir de quand avez-vous cette conscience de classe ?

Elle n’est jamais formulée. Même dans mon journal intime. Elle relève de la sensation et de la certitude : j’appartiens à un milieu modeste. J’ai cette conscience de classe dans le choix des amies, dans la différence que je sens. Je sais tout ce qui me sépare de certaines d’entre elles et en même temps j’ai ce désir de connaître. C’est un monde qui me paraît merveilleux, parce qu’il y a la musique classique, celle que j’ignore. La musique est vraiment, à ce moment-là de l’adolescence, le signe excluant. C’est celui dont j’ai le plus envie de m’approprier.

Qu’est-ce qui vous manque le plus ?

Beaucoup de choses ! Mais ce n’est jamais de la jalousie sociale. C’est le sentiment d’un manque, d’une imperfection. Celui d’une injustice arrive beaucoup plus tard.

Quand arrive-t-il ?

Je ne l’ai pas ressenti en moi-même mais dans des situations. Quand j’ai fait ma communion au pensionnat catholique d’Yvetot j’avais demandé si ma cousine – qui, elle, était à l’école publique – pouvait venir. Le jour arrive, on est au mois de mai, elle a mis sa plus jolie robe et un manteau de fourrure en lapin. La directrice vient vers moi : « Où est votre cousine, je ne la vois pas ? » Je lui réponds : « Mais si, elle est là. » Le visage alors de la directrice… c’était du mépris. Je ne l’ai jamais oublié. Des histoires comme celle-là, j’en ai des tonnes. C’est la force des transfuges quand ils admettent qu’ils le sont : ils en savent beaucoup plus sur le monde social, depuis la position qu’ils occupent, que ceux qui sont d’emblée dans le monde dominant.

A quel moment vous avez ce sentiment d’avoir changé de classe sociale ?

Essentiellement en vivant loin de mes parents et en me mariant avec un garçon qui était de la moyenne bourgeoisie de droite.

Qu’est-ce qui change alors dans la vie quotidienne ?

Les sujets de conversation ; le fait de ressentir la condescendance de votre compagnon vis-à-vis de vos parents et de votre milieu ; les fameuses manières de table et, ce qui m’a tout de suite beaucoup frappé, cette assurance dans le monde dont j’étais complètement dépourvue. On a l’impression que le monde est fait pour cette classe dominante et qu’il leur appartient de droit, de fait. C’est aussi lié au corps : cette maladresse d’avoir un corps plébéien, le côté « la paysanne ».

Quelle est la première personne à qui vous parlez de votre envie d’écrire ?

A une nouvelle amie, que je rencontre lors de mon inscription en fac de lettres. En juin, alors que je suis reçue à la propédeutique, je me souviens d’écrire, en m’inventant un nom : « Anne Saint-Claire publiera son premier roman. » C’est très étrange. Par la suite, j’ai essuyé des refus justifiés. Les choses ne se sont pas passées de manière linéaire. La conséquence de ces refus, c’est la fuite dans la recherche d’une relation avec un homme. Puis une série de choses un peu dramatiques, tel que mon avortement. Finalement, je me retrouve mariée puis mère. Je ne peux pas écrire mais je ne cesse jamais d’y penser. Mon mari, Philippe Ernaux, a lu mon premier texte, avec des commentaires peu agréables. Après je n’ai jamais donné à lire à personne. Très vite, je me pose des questions d’écriture : il n’y a pas d’histoire à raconter. Ce n’est pas l’histoire qui compte mais ce qui était en jeu dans l’histoire. Dans ce qu’on a vécu, il y a quelque chose qui fait avancer la connaissance. Il y a plus en écrivant qu’en se rappelant.

Vous aviez « l’envie de visiter la terre entière ». L’avez-vous fait ?

Cette envie a été très vite canalisée par les nécessités de la vie. J’ai finalement voyagé surtout à cause de mes livres. Mais j’ai fait un voyage qui a été extrêmement important avec mon mari en 1972. J’avais 31 ans. Il était organisé par Le Nouvel Observateur (ancêtre de L’Obs) pour rencontrer Salvador Allende au Chili. Ce voyage a duré deux semaines. Grâce au contact avec les poblaciones, j’ai fait un retour extraordinaire sur mon enfance.

Pourquoi ?

Parce que je m’aperçois à quel point j’ai vécu dans un monde qui était proche parfois de ce que je voyais dans les poblaciones : le quartier ouvrier, la famille de ma mère où l’alcool faisait des ravages, etc. Surgit le sentiment d’avoir des choses à dire. Et puis, pour accompagner le groupe, il y avait un journaliste littéraire du Nouvel Obs, Jean-François Josselin. On discutait beaucoup avec lui. Je ne sais pas comment ni pourquoi j’ai livré mon secret : que j’avais déjà écrit un texte. En dehors de mon mari, personne ne le savait. Jean-François Josselin voulait que je lui envoie. Je lui ai promis de le faire. Mais je n’ai pas tenu ma promesse. Ce premier texte de 1962 était très foutraque. Je ne racontais pas la réalité, il n’y avait rien de social, c’était une forme que je cherchais. Finalement, j’ai commencé à écrire un mois après ce voyage au bout de la terre.

La politique vous a toujours intéressée

J’appartiens à cette génération qui a été nourrie des récits des guerres du XXe siècle. Dans la famille mais aussi en classe où ma prof d’histoire nous lisait « Les cloches de Nagasaki ». Et puis la politique, j’en ai entendu parler depuis l’enfance sous la forme de café du commerce. Dans le café de mon père. Et ma mère a toujours voté. Je l’ai accompagnée pour la première fois dans l’isoloir en 1945. Elle allait même assister au dépouillement. Je suis toujours en attente d’un profond changement. Je constate depuis plusieurs décennies un mouvement irrépressible de la société vers une sorte de repli. Il n’y a pas de réelle acceptation des autres. J’ai enseigné en collège à Pontoise entre 1975 et 1977. Je me souviens d’une classe de troisième qui était difficile, agitée. Nous avons eu des débats. J’ai encore en tête les discours déjà populistes d’élèves me disant : « Ma sœur n’a pas eu d’appartement HLM alors que des Arabes en ont eu. » On traîne la question du racisme depuis longtemps.

A quel moment avez-vous eu le sentiment plein et entier d’être écrivain ?

J’ai plutôt conscience d’un privilège, d’une chance de pouvoir faire quelque chose qui est – peut-être comme aurait dit ma mère – ce qu’il y a de plus beau. Je n’ai pas cherché à faire carrière mais à préserver la possibilité d’écrire. Cela devient très difficile d’ailleurs. Devant chaque livre à écrire, je ne suis rien, chaque fois c’est une lutte. J’ai réalisé ce rêve d’écrire et d’être publiée. Mais ce n’est pas le nirvana, le bonheur, ce n’est pas du tout ce que j’imaginais.

C’est-à-dire ?

Je n’imaginais pas que ce serait un tel engagement ; la forme presque mystique que prendrait l’écriture. Il faut y sacrifier beaucoup de choses : la vie sentimentale, un peu familiale aussi. Je ne suis pas une grand-mère très disponible ! Quand on prend le pli, c’est fini. L’existence est informe et vide sans écriture. Il ne s’agit pas de dire « pas un jour sans une ligne » mais d’être dans la recherche, d’avoir un projet et que tout se focalise autour de lui. Vivre avec un livre qu’il va falloir écrire. « Mémoire de fille », j’aurais eu une grande culpabilité si je ne l’avais pas fait. « La Place » aussi.

« Est-ce ainsi que les hommes vivent » : Vous vous êtes toujours posé cette question…

Oui. J’ai été immergée très tôt dans une communauté de gens. Vivre du matin au soir avec des clients d’une épicerie-café, sans intimité familiale ou presque c’était le sentiment d’être traversé, très tôt, par toutes sortes de conversations et de langages. Ensuite, changer de classe sociale, c’est-à-dire changer de monde, dispose à observer, à se poser cette question. Les clivages sociaux restent toujours très forts. La société française demeure une forme d’aristocratie avec ses fastes, son décorum, ses classements…

Quelle place a eu la religion dans votre vie ?

Une grande place. Tous les jours au pensionnat il y avait l’histoire sainte et les prières. Pour ma mère, l’important était d’avoir de la religion : une croyance en Dieu et se conduire conformément à une règle morale. Elle croyait en l’efficacité de la prière. Alors que lorsque ma sœur est morte de diphtérie, la prière n’a pas fait grand-chose. J’étais vraiment marquée par les sacrifices à faire et par la culpabilité sexuelle de ma première confession à l’âge de 7 ans : je m’accuse d’avoir eu des gestes indécents et je me prends une volée de bois vert du confesseur. Donc je comprends que je suis pratiquement damnée.

Qu’en reste-t-il ?

Il en reste ce qu’on pourrait appeler un hypotexte. C’est aussi comme un premier monde. Même si je suis persuadée que c’est le néant qui nous attend, je fais comme s’il y avait quelque chose qui devait être sauvé et dont j’étais dépositaire. Ce n’est pas mon âme, c’est ce que je fais. C’est très différent. On pourrait dire que la littérature ou l’écriture a remplacé Dieu, d’une certaine façon. Ou encore qu’écrire est la mission qui m’a été donnée.

Comment avez-vous vécu les attentats ?

Ce matin, à la radio, j’étais frappée par ce que disait très posément un jeune garçon sur France Inter : oui il y a de la violence mais pas autant que lors des grandes guerres précédentes ou qu’en Syrie. Ce n’était pas dit par passivité mais comme une sorte de ressenti de ce qu’est le cours de l’histoire. Le plus dur est d’essayer de comprendre et de savoir qu’on ne pourra pas comprendre au moment présent ; ce sera plus tard. Ce qui frappe aussi – et c’est terrible à dire – c’est la facilité avec laquelle on intègre ce qui arrive. Au lendemain des attentats de Bruxelles, dans le RER entre Paris et Cergy, un homme et une femme n’avaient que ouï-dire de ce qui s’était passé à Bruxelles. « Il me semble qu’il s’est passé quelque chose », disait la femme. C’était tout. Cette vie qui continue, cela m’a frappée. Ils n’ont parlé que de travail, de congés, d’enfants… C’était un jour comme les jours.

Propos recueillis par Sandrine Blanchard

 

(le Monde, 5/4/2016)

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