4 Maggio 2007
il manifesto

Straniamento e quotidianità in perfetto equilibrio

Oggi e domani a Siena un convegno dedicato alla scrittrice canadese, nota per le sue storie, dotate di grande raffinatezza stilistica, le cui proporzioni non raggiungono mai quelle di un romanzo. Qui accanto anticipiamo la premessa scritta da Alice Munro per il suo ultimo libro, che la Einaudi pubblicherà in novembre con il titolo “La vista da Castle Rock” per la traduzione di Susanna Basso Due giornate all’Università di Siena, introdotte
Carlo Pagetti

Molti considerano Alice Munro la maggior autrice vivente di racconti, degna di essere paragonata a Cecov, a Flaubert, e anche, per rimanere nella tradizione novecentesca delle grandi scrittrici anglofone, a Katherine Mansfield e a Elizabeth Bowen. All’interno di una cultura qual è quella del Canada, che fa del multiculturalismo la sua bandiera, e in cui artisti anglo-canadesi e franco-canadesi sono in grado di raggiungere esiti letterari assai diversi, spesso di prim’ordine, Alice Munro si presenta in modo quasi dimesso, con l’aspetto mite e pacato di una ormai anziana signora, nata nel 1931 e a lungo vissuta in una delle zone rurali dell’Ontario, sul Lago Huron, a sud-ovest della grande metropoli di Toronto. In realtà, come insegnano anche i suoi racconti, non bisogna mai fidarsi delle apparenze.

Personaggi più volte ripresi
Nel corso degli anni (la sua prima raccolta risale al 1968) Munro ha portato a un livello di straordinaria raffinatezza stilistica il suo discorso narrativo, che non raggiunge mai le proporzioni di un romanzo corposo, ma si ramifica in racconti non privi di una robusta intelaiatura e talvolta collegati tra loro. Così, nella raccolta In fuga (Runaway 2004), recentemente pubblicata da Einaudi, almeno tre racconti ruotano attorno al personaggio di Juliet, ragazza di belle speranze in viaggio verso la costa del Pacifico, alla ricerca di un saldo legame sentimentale, che poi rincontriamo nei panni di una giovane donna, già disillusa e incapace di ristabilire un legame profondo con i genitori ormai anziani, e poi ancora madre di una ragazza che diventa, a sua volta adulta, e preferisce evitarla per “scomparire” nella vastità del Canada, condannandola alla solitudine.
Poiché quest’ultima storia, che è intitolata “Silenzio”, è raccontata dal punto di vista di Juliet, tormentata dai dubbi e dai sensi di colpa, i lettori non sapranno mai le motivazioni autentiche che hanno spinto la figlia ad andarsene. “Quello che mi interessa riguardo a una storia è sempre ciò che non è semplice”, ha commentato l’autrice in un’intervista del 2005.
Tradotta in Italia solo a partire dal 1994, quando La Tartaruga diede alle stampe La danza delle ombre felici con la postfazione di Oriana Palusci, Alice Munro è stata valorizzata negli ultimi anni da alcune belle edizioni einaudiane delle sue raccolte di racconti, ma rimane una scrittrice difficile da cogliere nella complessità del suo linguaggio, fortemente allusivo e a tratti ironico, certamente carico di temi “universali” (la solitudine dell’esistenza e la casualità talvolta crudele degli eventi, l’incertezza dei legami familiari e l’incombere della malattia e della morte), ma anche ricco di riferimenti al paesaggio e alla cultura canadesi.
Certamente nei racconti di Munro non troviamo i vasti orizzonti o le sperimentazioni romanzesche della quasi coetanea Margaret Atwood, che spazia dalla ricostruzione storica alla distopia avveniristica, dal tema della condizione urbana a quello della wilderness; oppure le proiezioni verso l’alterità etnica e geografica di Michael Ondaatje, che può ambientare tutto un romanzo (Lo spettro di Anil) nello Sri Lanka lacerato dalla guerra civile. È pur vero che l’ultima raccolta, The View from Castle Rock (che la Einaudi pubblicherà a fine anno) intende scavare nel territorio a metà tra finzione e storia familiare della Scozia rurale, e che proprio le radici scozzesi del passato di Munro contribuiscono a spiegare la voluta ambiguità di certe situazioni narrative, in cui, ad esempio, le figure femminili che popolano le sue vicende appaiono vittime, ma talvolta vittime consenzienti o perfino complici, di un mondo ancora sostanzialmente patriarcale. Non a caso, le ondate dei coloni europei, massicce fin dall’Ottocento, portavano oltre Atlantico anche gruppi di contadini scozzesi poveri e maltrattati nel loro paese a causa della supremazia inglese, pronti a trasformarsi nelle avanguardie dell’Impero britannico e a scontrarsi con le popolazioni locali per il possesso della terra, come successe nella seconda metà del XIX secolo nel Manitoba. Su questi eventi fondativi della nazione canadese (la lotta tra gli scozzesi e i Métis cattolici e francofoni, nati dall’unione degli esploratori francesi con le donne native) si è soffermata in diverse occasioni Margaret Laurence, un’altra grande romanziera anglo-canadese, morta prematuramente nel 1987, ma assai poco ha da dire Alice Munro, che di solito introduce personaggi di origine anglosassone e situazioni collocate nel secondo dopoguerra. Piuttosto, i suoi racconti vivono dell’atmosfera rarefatta dei piccoli incidenti quotidiani, associati alla vita monotona della provincia, mentre i protagonisti più consapevoli – soprattutto figure femminili – socchiudono appena una porta, intravedendo nello spiraglio che si è aperto, l’orrore del vuoto e l’angoscia delle occasioni fallite.
Spesso i racconti di Munro hanno inizio nel passato e rimangono in bilico tra un tempo ancora più lontano e l’irregolare procedere verso un incerto presente, che è anche quello dell’autrice e dei suoi lettori. La discontinuità temporale è forte come quella spaziale: non a caso, Munro ha sottolineato che le sue figure femminili “invecchiano” assieme a lei, ricordando alla maniera di Virginia Woolf anche alcune situazioni autobiografiche non del tutto gradevoli: avendo cominciato a scrivere verso i vent’anni nel periodo in cui stava per sposarsi, ha dovuto fare a lungo i conti con obblighi familiari e sociali che intralciavano la sua creatività, ed è riuscita a pubblicare la prima raccolta di racconti solo a trentasette anni.
D’altra parte, il “femminismo” di Munro non è militante, essendo piuttosto basato sulla rivendicazione di una energia intellettuale che permette alle donne di sopravvivere in un universo ostile e insidioso. I personaggi femminili più intensi della Munro hanno una capacità di riflettere e di meditare sulla loro sorte da cui non ricaveranno certo la felicità o la pace interiore, bensì la forza di strappare dal caos della vita un brandello di verità, di provare un momento illuminante di epifania. Forse, più che a Joyce, bisognerebbe pensare ai moments of being di Virginia Woolf, o comunque a un’ispirazione profondamente meta-narrativa, dal momento che le figure femminili di Munro si rispecchiano nella loro creatrice, come lei – un po’ ironicamente – si riflette nella loro condizione subalterna. La stessa Alice Munro ha insistito sul fatto che un racconto nasce dentro di lei da un accumulo progressivo di dettagli, in modo tale che la struttura narrativa si complica e viene resa più arbitraria e impalpabile. Così, nella short story “In fuga”, che dà il titolo alla omonima raccolta, ci troviamo in un primo tempo di fronte a una coppia di giovani sposi, Carla e Clark, che accudiscono ai cavalli in una malandata fattoria dell’Ontario, ed è subito chiaro che il legame tra i due non è affatto paritario, poi la vicenda si complica con l’entrata in scena di una donna più anziana ed esperta, Sylvia, che è forse attratta da Carla e vorrebbe aiutarla a fuggire a Toronto, mentre un ulteriore elemento di disturbo, apparentemente marginale, è dato dalla scomparsa della capretta Flora, a cui Carla è affezionata. Il seguito di “In fuga” suggerisce – più che mostrare – il fallimento dell'”alleanza” tra le due figure femminili e la minaccia di una violenza maschile che sembra aleggiare sulla conclusione del racconto, senza materializzarsi.
Esclusa qualsiasi tonalità patetica o melodrammatica, il linguaggio terso e raffinato della scrittrice canadese si fissa su figure, paesaggi, oggetti, bagnandoli di una luce quasi spettrale (ghost è un termine che torna spesso in Munro), eppure nitida e, per così dire, “naturale”.

Varianti sul tema del mistero
A questo effetto a metà tra lo straniamento e la quotidianità contribuisce il senso dello spazio canadese, fatto soprattutto di territori disabitati o scarsamente popolati, privo di una identità rigida e circoscritta, essendo esso stesso modellato, nella sua estensione, per conferire identità a chi è come costretto – o costretta – a spostarsi continuamente (“in fuga”, appunto), senza mai potersi riconoscere in un centro solido, istituzionale, affettivo. Anzi, un paradossale, seppure evanescente equilibrio narrativo viene raggiunto quando il centro e il vuoto (a livello geografico, ma anche interiore, emotivo) finiscono per identificarsi, talvolta – come succede a Juliet, la Giulietta senza il suo Romeo, che abbiamo incontrato nella trama di “In fuga” – nel ricordo lancinante di un percorso personale in cui i fallimenti sono stati superiori agli attimi di felicità, senza perciò annullare questi ultimi.
“Sento che le cose sono molto misteriose – ha detto Munro – anche in quelle che noi chiamiamo esistenze del tutto normali, e che esse non possono essere spiegate facilmente; tuttavia è proprio questa qualità della vita a essere straordinaria.”

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