19 Gennaio 2006
Liberazione

Sulla traccia di Nives

Pino Ferraro

Nives è il nome di una donna. Sulla sua traccia si svolgono le pagine dell’ultimo libro di Erri De Luca. Sulla traccia di Nives, (Mondadori, pp. 120, euro 14,00), intenso, come sempre. Tagliente, come il vento in altura. E’ prepotente, «il vento in alta quota è il padrone del tempo». Ti zittisce e chiude. Come le nevi, di cui Nives è nome. L’origine latina sottintende ad nives. Madonna delle Nevi. Una via di Napoli si chiama così, stretta e tortuosa, va dal mare a salire. L’origine del nome importa poco al libro che fa cordata con altre parole, di etimo vissuto, di un tempo rimasto indietro senza poter passare. E non passa, se non lo si libera, perché del tempo non ci si libera. Aspetta sempre che la storia gli dia la sua verità. Invece è ancora chiuso in carcere. Quello in cui sono detenuti ancora gli anni del nostro dopoguerra. E del sogno ad occhi aperti di tante strade e volti. C’era la vita che volevamo. E un paradosso, quanto più si va in alto sulla terra più diventa freddo e più si è soli. Ci si separa. Si parla ad una voce sola o, forse, si ascolta una voce che ti fa ripensare. Qui è la voce di Nives la voce interiore. In un passaggio Erri confessa, non ha mai avuto il panico della metafora bianca davanti alla pagina da scrivere, perché già scritta, il suo è un trascrivere, un lavoro antico fatto ancora a mano. Una foto, nel libro, lo ritrae mentre trascrive note sotto il Dhaulagiri. Un dialogo di due voci o piuttosto un monologo di una voce che trova nell’altra il suo appoggio, la traccia del proprio voler dire. Nives Meroi è tra le pochissime donne al mondo che hanno conosciuto quote di esistenza superiori a cinquemila. I metri non c’entrano. C’entra l’esistenza. C’entra la relazione d’amore a quelle quote. Le voci di lontano. Seguire, perdersi, urlarsi e tacere a quelle quote. E intendersi. Insieme al suo compagno, Romano, che nel libro si vede di lontano, mentre arrampica.

E poi i miracoli. «Sono frequenti, ordinari. Reggono continuamente la vita e quando quella smette è perché ha smesso di spedire una carica pilota che faccia da guida al miracolo. Si muore quando non si chiede più. Il verbo della vita è chiedere, avere una domanda, lanciare il punto interrogativo verso l’alto, annuvolato o sgombro. Chiedere per forzare la solitudine, a bassa voce mandare lontano la richiesta, perché il soffio e non il grido va lontano. Chiedere perché non chiedere è la resa». Chiedere non è volere. Nemmeno è fare domande. E «se proprio è necessario far risalire i miracoli alla divinità, allora è una che non può evitare il maremoto nell’Oceano Indiano, ma può accorrere sul posto per strappare un rimasuglio di vite, inventare eccezioni. Sono giochi di prestigio di un artista da circo che fa spalancare la bocca ai bambini. Sono loro gli intenditori dei miracoli, quelli che li vedono apparire più spesso. Per scorgerli conta essere disposti a meravigliarsi».

Il miracolo è l’eccezione. Non quella che conferma la regola. Quella che la sconvolge e supera. Il miracolo è sempre eccezionale. Napoli è un luogo d’eccezione. Non è strano che compaia in questo giro di pensieri del libro. Un luogo d’eccezione, qualche volta eccezionale. Qui sulle nevi, in compagnia di Nives, chi parla torna con la mente a Ischia, all’adolescenza, alla casa paterna e al distacco da quella casa. Alle scelte giunte fino alla decisione resa abitudine di strappare al mattino un’ora non concessa come apertura di giornata e leggere. In ebraico. In cima. In solitudine. Per sentirsi poi parlare dentro. E mischiare le voci del testo e della casa, quelle delle strade e dei fogli. «Sono uno che scrive, perciò sto in disparte». Ci sono libri che si leggono e si commentano. Si criticano, prendendo posizioni, lamentando mancanze e plaudendo a conferme. Ci sono poi libri che si ascoltano. Si può ascoltare quando non c’è vento. «E questa notte è fortunata, non c’è vento», dice la voce di Nives. Un libro che non si può ascoltare se c’è vento. Ma che solleva vento. Lo avverti e fai fatica a tenerti lontano. C’è rumore di richiesta. Si alza spesso il vento. Cala di colpo quando arrivano struggenti i momenti in cui si legge del padre e di Napoli. Degli alpini e delle manifestazioni. Delle carceri in cui si sta chiusi, in cui restano chiusi. Gli anni settanta, (chissà perché si continua a chiamarli di piombo), gli ottanta, il processo “Calabresi”, le aule di tribunale e la storia insabbiata ancora nell’invenzione della cronaca. Le carceri. «Vengo alle montagne e assaggio un freddo differente, che si scioglie a valle, alla fine del viaggio. Vengo da un maltempo non scaduto. Qui salgo le arie aperte per potermi separare dall’aria dei rinchiusi, la loro ora di cammino nei cortili budello con le graticole sopra la testa. Le più lunghe prigioni per motivi politici di tutta la storia d’Italia, questo è il record della mia generazione. Non vengo sulla traccia per dimenticare. Un prigioniero mi ha scritto: respira anche per me. Non lo so fare, non ho polmoni sgombri». Nives: «No, così non puoi salire». Bisogna lasciare dietro ciò che pesa e frena, quando davanti a te c’è qualcosa, vuole tutto. Qui si alza e tira forte il vento. Non si può non alzare al rumore del presente che si vive, a non volere il peso del passato.

L’amnistia del tempo passato. Non per la remissione o per l’oblio, ma per andare avanti. Per liberare il tempo, non per liberarsene. Per liberare. Smetto di ascoltare, leggo. Un corrente fredda porta l’amnistia. Un’altra più pressante porta a ripensare alla prigione. Al carcere. Li distinguo. Forse non sono la stessa cosa. Riduzione della pena? perdono? Risarcimento? o non piuttosto restituzione. Di persone. Di vita. Non più carceri, ma altro. Non vado oltre per non uscire troppo dalla traccia di Nives. Per quanto la “restituzione” la ritrovo come nascita di vita nella pagina che mi strapperebbe ancora dall’ascolto. Allora faccio smettere il vento. «Durante gli anni rivoluzionari erano rare le nascite tra le nostre file. Quando ne capitava una mi stupivo: che avvenire darà un rivoluzionario al figlio? Poi ho visto compagne partorire in prigione, crescere bimbi là dentro. Poi doverli salutare, affidati all’esterno. Per quanto fosse penoso, altra pena aggiunta, quella era vita nuova, indipendente, che proseguiva fuori. I rivoluzionari devono fare figli, molti, devono seminare di là dai recintiin cui finiranno sepolti».

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