13 Giugno 2009
la Repubblica

Una feroce storia di donne e bambole

Leonetta Bentivoglio

La copertina del volume sfoggia un rosa carico. Rosa confetto o rosa degli accessori delle Barbie. Troneggia il viso di una bambola con chioma biondo platino e labbra smaltate dello stesso rosa. Nauseante eccesso di finzione, marzapane stucchevole, doccia di profumo di violette. Il culto plastificato della velina trionfa sul fallimento delle pretese del vecchio femminismo. Queste immagini non affiorerebbero se a firmare il romanzo Sorella, mio unico amore non fosse l’ americana Joyce Carol Oates, cantastorie di un’ America gotica al di là della patina lucente. L’ autrice di Una famiglia americana, Blonde, L’ età di mezzo e La figlia dello straniero sa narrarci con una cattiveria senza scampo un mondo fatto di donne in preda a sogni insulsi, maschi alcolici e incestuosi, perversioni nascoste nel garbo zuccherino di villette a schiera, Grand Guignol suburbano mascherato dalla grottesca avvenenza dei riti consumistici. Esasperando ancora tale prospettiva, Sorella, mio unico amore racconta, per voce del mesto fratellino Skyler, la vicenda di Edna Louise, bambina dotatissima per il pattinaggio: già a quattro anni vince ogni gara ed è una stella. Suo padre e sua madre, Bix e Betsey Rampike, paiono stagliarsi dai più volgari reality televisivi: l’ uno è un borioso fusto palestrato avido di automobili, giochetti erotici e ragazze compiacenti; l’ altra è una bellona svuotata di ogni senso esistenziale e logorata dall’ ansia di trattenere il coniuge in perenne fuga. È lei, questa strega grandi curve, a ribattezzare col nome di Bliss la pupetta-prodigio, investendola delle sue ambizioni frustrate. La trucca come la più smerciabile adulta, ne fascia il sederino con ammiccanti slip, consegna la sua infanzia a sguardi morbosi. E Bliss finisce uccisa nella notte oscura. Nella trama tutto riconduce alla storia vera di JonBenet Ramsey, reginetta di bellezza di sei anni che nel 1996 venne trovata massacrata nella cantina della sua casa bamboleggiante e oscena come le mises della vittima. Gli indiziati principali dell’ omicidio, rimasto insoluto, erano i genitori, che per anni si professarono innocenti spargendo fiumi di lacrime e ricordi nei talk show delle tivù statunitensi. A quella morte la fiction della Oates offre una soluzione tanto contorta nelle cause quanto prevedibile nell’ identità del colpevole. E il plot riempie un esagerato numero di pagine ossessive, che ci frastornano anche con interventi grafici sul testo, pieno di cancellature, lettere in stampatello, corsivi e spazi bianchi: vezzo caro alla scrittrice americana, usato per esempio ne La madre che mi manca, che enfatizzava in farneticazioni anche visibili il dolore della protagonista, colpita dal trauma di un delitto proprio come Skyler. Diseguale, prolissa, debordante, ma di ferocia mirabile nelle sue vette di delirio pulp, Joyce Carol Oates si conferma intrepida e spietata nella sua condanna della famiglia “disfunzionale” di un Occidente folle e pronto a dare un prezzo a tutto.

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