18 Agosto 2014
L'immaginazione n. 282 (Manni editore)

VITA COSENTINO, Tam tam

Di Monica Giachino

Cifra e pregio di questo esile e solido volumetto, racconto autobiografico di una malattia
che colpisce all’improvviso e invalida e spezza lo scorrere dell’esistenza, è la brevitas che nella forma e nella sostanza nulla concede all’ornato.
Nelle poche righe del Prologo, quasi citazione posta in esergo, una donna cerca compulsivamente la sequenza di un film che continua a tornarle alla mente, perché sa che in qualche modo la riguarda. Quello che le interessa sono due battute del dialogo tra un adulto e un ragazzo che ha tentato di morire. Le trova e le trascrive, per non dimenticarle. Dice l’adulto: «Io credo che ci sia una specie di velo tra le persone e la morte. A volte succede che questo velo si tolga all’improvviso… e così vediamo la morte. Per un attimo la vediamo chiaramente. Poi questo velo si rimette in posizione e torna tutto a posto. Riprendiamo a vivere». Risponde il ragazzo: «Tu credi?».
Intorno alla domanda «Tu credi?», e soprattutto intorno alla difficile risposta, si organizza
per venti capitoletti la storia di due anni: la malattia che colpisce in un giorno qualunque,
fitto di impegni come di consueto («lei stramazzata nel pieno della sua vita attiva»); il ricovero e la diagnosi; i mesi di degenza ospedaliera e la difficile riabilitazione; il rientro
a casa e il ritorno ad una vita normale che normale non riesce ad essere perché è necessario imparare nuovi gesti, convivere con i limiti di un corpo che imprigiona, reinventare un’esistenza possibile.
Tam tam è insieme biografia di sé e di tanti, scrittura come terapia, certo, ma soprattutto
come testimonianza. In tale direzione vanno la scelta efficace di raccontare l’“io” in terza persona e la rinuncia alla valenza identitaria dei nomi propri. C’è una “Lei”, c’è un “Lui”, un ma rito che resta accanto. C’è una folla di persone, appartenenti al prima o al dopo, tutte ritratte per cenni, per segmenti minimi e incisivi che si compongono in uno stilizzato mosaico di figure e di storie: i compagni d’ospedale, quelli incontrati durante la lunga riabilitazione, le infermiere, i terapisti. Ci sono soprattutto le amiche, inaspettatamente tante: «l’amica che per lei è come una sorella», «la compagna di cinema», quella che è «la donna più buona che c’è», l’«amica dei tempi della militanza», quella con «la macchina vintage e un fiocco rosso sull’antenna». Amiche capaci di far risuonare lo strumento
antico di comunicazione e di chiamata a raccolta che dà il titolo al libro, il tam tam appunto, e di confermare una rete salvifica di solidali affetti.
Vita Cosentino racconta una vicenda di dolore fisico e intellettuale («il corpo è così ingombrante che le toglie anche le energie mentali […]. I progetti non hanno gambe per camminare e non ne vede più il senso») ma anche una storia di coraggio nell’affrontarli e nell’opporsi con «un’ansia di vivere prepotente, quasi provocatoria» al «tempo scandito dai rituali della malattia, tempo di azioni ripetute sempre uguali, tempo schiacciato sul presente, tempo vuoto», tempo che è necessario ritrovare, ricalibrato.
In un saggio sulla comunicazione linguistica nell’età presente Vita Cosentino aveva parlato
della «rinuncia a dire tutto, per dire “qualcosa”, che faccia corpo vivo con la propria vita, con la propria esperienza, con il proprio sentire emozionale» (Lettera a una professoressa riletta da una professoressa). Questa regola presiede alla scrittura di Tam tam. Il racconto procede per sottrazioni: non c’è un “io” invadente, non ci sono nomi, l’aggettivazione è selezionata con rigore. La prosa privilegia la paratassi ed è tesa a nulla concedere al patetico o all’effusione sentimentale. Gli squarci lirici sono sorvegliati con attenzione e prontamente chiusi da una nota ironica o da una cruda sferzata. Un esempio, l’inattesa fioritura di papaveri che accoglie la protagonista nel giorno del primo anniversario della malattia: «Abita in quella casa da ventisette anni, è passata vicino a quel campo migliaia di volte e non aveva mai visto un papavero. Quel 16 maggio invece è tutto un occhieggiare di bottoni rossi, ora aggrumati, ora più radi. Lei non ne aveva mai visti tanti tutti insieme, neanche da bambina. […] Adesso ha voglia di ridere e di abbracciare l’amica che l’ha portata fuori di casa». Immagine immediatamente smorzata dal commento che segue e sigilla il capitolo: «Il 16 maggio puntualmente torna dopo dodici mesi, ma di papaveri in quel campo neanche l’ombra».
Alla vita andata in frantumi e alla fatica di rimettere insieme pezzo su pezzo fa riscontro la
sapiente e simbolica circolarità della struttura narrativa. Sul risveglio la mattina del primo anniversario della malattia si apre il libro. Su un risveglio notturno, un altro anno è passato, il libro si chiude. La notte ha portato in sogno la figura della madre da giovane. La sequenza riprende simmetrica quella del campo di papaveri delle prime pagine, con un affine cambio di registro in clausola: la madre ha accanto a sé «un cespuglio di piante umili: ogni stelo sulla sommità si divide e ripiega in tre cimette fiorite. […] le indica e dice: “Ci sono ancora piccoli fiori bianchi che devono sbocciare”. / Fine del sogno. / Si alza con la sua stampella e va in bagno».

Pubblicato sulla rivista l’immaginazione” n. 282 – Luglio-agosto 2014 (Manni editore)

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