9 Febbraio 2017
oggettisolidi.wordpress.com

WOOLF WORKS, l’inchino di McGregor al genio di Woolf

“Woolf Works è in fondo proprio questo: un magnifico inchino a tempo di musica al genio di Virginia Woolf”. Così Elisa Bolchi conclude questo articolo, iniziando con “Non ci girerò intorno: Woolf Works è un capolavoro”.

Le righe di mezzo meritano il tempo che richiedono per essere lette. Non ci siamo sentite di mettere una diga ad un flusso di parole appassionate che sono scaturite spontanee, a poche ore dal termine dello spettacolo.

Fate un break e godetevi la lettura!

 

Non ci girerò intorno: Woolf Works (http://www.roh.org.uk/productions/woolf-works-by-wayne-mcgregor) è un capolavoro. Più ancora di questo, Woolf Works è unico perché è un lavoro artistico e critico al tempo stesso, un lavoro informato, competente, intelligente, appassionato. È il risultato di “molti anni di pensiero in comune” (citando Woolf) di professionisti eccellenti e artisti talentuosi. A partire da Wayne McGregor (http://waynemcgregor.com/), coreografo stabile alla Royal Opera House e genio dell’arte coreutica, che interpreta gli spazi scenici in modo vitale e lascia parlare i corpi dei suoi ballerini autonomamente, seppure in sintonia con ciò che li circonda.

Le musiche originali di Max Richter (https://it.wikipedia.org/wiki/Max_Richter) sono poi non solo il corrispettivo musicale del ritmo della prosa di Virginia Woolf, ma il risultato del medesimo processo mentale che l’ha portata alla composizione. McGregor e Richter riescono dunque non solo a reinterpretare, omaggiare e riscrivere, ma fanno appunto anche un lavoro critico, strutturale oserei dire, sull’opera di Woolf, e lo fanno con competenza assoluta. Lo spettacolo è un trittico ispirato a tre delle opere più note della scrittrice britannica: La Signora Dalloway, Orlando e Le

Onde. I titoli dei singoli balletti dicono già molto del lavoro fatto.

 

Il primo, I now, I then, gioca tutto sull’intreccio di presente e passato nella mente di Clarissa Dalloway, su ciò che lei è oggi – interpretata da una Alessandra Ferri di una bravura commovente – e da ciò che lei sente, ricorda di essere e di essere stata. Le coreografie di Ferri sono così fatte di tempi lunghi, respiri ampi, di trattenuti e sostenuti, com’è il tempo nella mezza età, quando inizia a dilatarsi e ogni gesto è frutto di riflessione e viene tenuto per una battuta in più, viene meditato e respirato più a fondo. Le giovani e bravissime Beatriz Stix-Brunell – Clarissa da ragazza – e Francesca

Hayward – Sally Seton – danzano invece su un ritmo più incalzante, sfiorando appena il palcoscenico tra un piccolo sbalzo e un glissé, e ci restituiscono l’idea della freschezza della giovinezza, che non ha tempo nemmeno per toccare davvero il suolo con tutta la pianta del piede. Genio è far ballare la Ferri una battuta dietro la Stix-Brunell, farle trattenere ogni passo mezzo tempo in più, per dare l’idea del tempo che è passato e della Clarissa cinquantenne che ricorda se stessa.

Anche Septimus riesce a esprimere col corpo tutto ciò che Woolf ha tanta faticato a mettere in parole (“la scena della pazzia mi snerva tanto”, annota Virginia nel diario). Il trauma di Septimus traspare da un potentissimo Edward Watson che lavora tutto sulla perdita di peso, perché Septimus ha perso il suo baricentro, cerca un equilibrio che non trova in un corpo che non gli appartiene più, e sembra più ingombrante di quanto non sia. L’unico sostegno lo trova nel ricordo dell’amico, che si fa appoggio fisico in un passo a due maschile di rara bellezza. Il primo atto si chiude con una magnifica scena corale, a richiamare la fine del romanzo, la scena della festa che Woolf aveva costruito con tanta cura affinché apparissero pian piano tutti i personaggi della vita di Clarissa, e che qui diventano un sentire, un respiro comune che si chiude su Clarissa, come il romanzo: “for there she was”.

Il secondo balletto è tratto da Orlando e ancora una volta il titolo è già dichiarazione di poetica: Becomings. Qui la parte più narrativa è abbandonata per giocare tutto su un livello più profondo che Max Richter spiega in un’intervista: è il noto che diventa impercettibilmente distonico per una piccola modifica che ci fa fermare a interrogarci. Non è quanto accade in Orlando?

Presentato come ‘biografia’ nonostante sia una favola fantastica di un uomo che diventa donna e vive tre secoli. E allora tutto qui è giocato sulla dissolvenza dei generi e i costumi diventano elemento chiave, perché capita che gli uomini siano in body e gonnellino e le donne in calzoni e giacca; i ballerini fanno piccoli sbalzi e adagi e le donne grandi sbalzi e sostenuti, e nei passi a due fatichiamo a capire chi è la donna e chi l’uomo in una coreografia androgina che rappresenta tutta la forza e la potenza della scrittura woolfiana e mette alla prova un cast di una bravura mozzafiato, che riesce a ballare in una battuta i passi che ne richiederebbero tre, tanto che l’occhio quasi fatica a mettere a fuoco tutti i movimenti che pure sono perfetti, puliti, solidi, come le parole di Virginia Woolf. Le musiche, poi, insieme alle luci, creano un amalgama temporale che passa dal rinascimento al novecento: così McGregor rende quel tempo impossibile che Woolf narra con leggera ironia.

Il terzo e ultimo atto, Tuesday, si spoglia della tecnica estrema per dare spazio allo stile, che come diceva Woolf “è solo ritmo”. Se nello scrivere Le onde lei ricercava il ritmo dell’onda, anche McGregor fa respirare i suoi ballerini su quel ritmo, che Richter rende con una sovrapposizione di sonorità anch’esse sinusoidi che si intrecciano e sovrappongono tra loro come le voci dei sei personaggi delle Onde. Qui le ballerine tolgono le scarpe da punta, Ferri lo fa fisicamente, in scena, e rimane scalza, proprio perché, come la scrittura di Woolf, la poesia non è tecnica ma ritmo.

Tutto quest’ultimo balletto è giocato allora su coreografie d’insieme in cui si inseriscono canoni appena accennati, e ciò che vediamo sono voci che parlano insieme ma con toni diversi. In breve ‘vediamo’ Le onde. La potenza fisica del secondo atto lascia spazio qui a grandi port de bras che a tratti ricordano quasi una révérence, la parte finale di una lezione di danza in cui ci si inchina a maestro e pianista a tempo di musica.

Woolf Works è in fondo proprio questo: un magnifico inchino a tempo di musica al genio di Virginia Woolf.

 

(oggettisolidi.wordpress.com, 9/2/2017)

Print Friendly, PDF & Email