8 Febbraio 1980

Senza contatto (racconto)

Sono su una vettura che va a forte velocità non so dove, non c’è destinazione, ma nel mio viaggio sento che c’è un senso, la vettura è vuota, le maniglie oscillano per la grande velocità, la luce è forte, bianca, entra come acqua dai finestrini, ma anche l’aria entra sempre più forte, perché la vettura acquista velocità maggiore mentre procede. Par quasi di volare, poi vedo che sulla vettura c’è anche lei, la ragazza a cui penso e alla quale debbo parlare. Sono emozionata e felice, finalmente potrò dire quello che mi pesa sul cuore, finalmente potrò chiarire con lei ciò che mi opprime da tempo. Non so dove sia salita, non l’ho notato, forse era già sulla vettura, ma a causa della troppa luce non l’ho vista subito. O forse è salita a una fermata di cui non mi sono accorta. Ma direi che da quando sono salita la vettura non ha fatto fermate. Va fortissimo, stride sulle rotaie, sferraglia sul percorso. Io tento di avvicinarmi alla ragazza e lei fa altrettanto, ma è molto difficile questa operazione perché a causa della velocità e delle curve non sta in piedi, si rischia di cadere e bisogna tenersi forte agli appigli. Siamo comunque abbastanza vicine, io le parlo, lei mi parla, ma non sento niente e anche lei non sente niente, il rumore della vettura copre le nostre voci, l’aria ci porta via le parole, le fa volteggiare, le sfila e le polverizza. La voce non serve, ci teniamo sempre più strettamente agli appigli perché l’aria è ormai una presenza concreta in tutto lo spazio, è così forte che non riusciamo più a tenere i piedi in terra, ce li sentiamo sollevare, portare via dalla forza dell’aria che ci solleva, ci porta sempre più su, ci dà la sensazione di arrampicarci per l’aria, di rattrappirci, comunque se non ci teniamo ben strette saremmo portate via, la corrente nella vettura è fortissima, ci strappa quasi i capelli, li sentiamo fluttuare di qua e di là a seconda della posizione che l’aria ci fa prendere, perché c’è in noi anche un tentativo di ripararci, di resistere, di non farci strappare i vestiti dal corpo, ma è un tentativo sempre più vano, perché siamo in preda all’aria, alla velocità, a questo forsennato andare senza fine, senza meta, volando ormai appese alle maniglie su questa vettura che non pare più sulla terra, ma nello spazio. E voliamo, continuiamo a volare per un verso e per l’altro, ci vediamo volteggiare in questa corrente fortissima, in quest’aria così spessa e bianca che ha una consistenza forte. E non ricordo più quello che avrei voluto dirle, perché questa lotta è estenuante, stare appese è l’unica salvezza, se una maniglia si spezzasse l’aria ci risucchierebbe, finiremmo fuori dalla vettura che va a una velocità ormai pazzesca , dall’esterno non si vede nulla, solo luce, l’aria è bianca, pastosa, stiamo afferrate ai sostegni e siamo a volte orizzontali, le mani strette così forte che fanno male, le braccia in tensione, il corpo che vola, le masse d’aria che lo spingono in alto, lo tendono, lo piegano, lo avvolgono e lo svolgono, lo sollevano a volte interamente e di più in modo che la testa a volte è più in basso, si riempie di sangue… E la mia di pensieri, tutti quelli che avrei voluto tramutare in parole e che risultano ora spezzati, troncati, diversi nella sequenza in cui avrei voluto esporli, nuovi rispetto all’espressione, perché è impossibile usare la parola in questa vorticosità, se appena si tenta di parlare l’aria si immette in bocca, forza la gola, fa male contro le labbra. Bisogna tenere la bocca ben chiusa, e anche gli occhi che si possono aprire a fessura, per darsi un’occhiata intorno, per scrutare attraverso la pulviscolarità bianca la forma dell’altra…Io vedo lei in bilico, stretta alle maniglie, le gambe impegnate a seguire i movimenti della corrente, ne colgo ogni tanto un’occhiata rapida, quasi sfuggente attraverso l’aria pastosa, mi basta comunque per riconoscerla ogni volta, per coglierne un tratto, un’espressione che mi ricorda altre sue espressioni lontane, come riprodotte qui dal movimento continuo che si deve compiere per non essere strappate via, lanciate lontano. Ma è un vedersi a distanza, è un riconoscersi attraverso la memoria, perché su questa vettura che ormai procede senza più contatto terreno, manca la possibilità di un contatto materiale, anche un discorso lo sarebbe, ma non c’è la possibilità, non ci si può avvicinare o vedere distintamente, non si può comunicare se non per mezzo di messaggi mentali, di segni che si corporizzano nei nostri corpi costretti e impegnati a compiere spesso gli stessi movimenti di adesione alla corrente. Siamo solo noi sulla vettura che va per l’infinito, credo sia così, siamo due corpi che si riconoscono nella stessa tensione, che a volte si confondono, perché spesso ho la sensazione di essere lei, e deve avere anche lei la sensazione di essere me, quando mi guarda e mi cerca attraverso il pulviscolo accecante. Questo viaggio prosegue, la tanta luce che è nella vettura annulla giorno notte stagioni anni ore dell’esistenza, c’è solo il tempo ammassato compresso veloce che ci sostiene e ci fa ondulare come corpi nello spazio. O come le pezze di Diane Bond appese a una corda nel vento rabbioso di un prato.

 

Tratto da La sproporzione ( Ed. La Tartaruga 1980)

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