Questa presentazione della Comunità Ipazia è apparsa nel volume "Duemilauna. Donne che cambiano l'Italia”. A cura di Annarosa Buttarelli, Luisa Muraro, Liliana Rampello Pratiche Editrice, Milano, 2000
2 Marzo 2000

Biografia di una comunità scientifica femminile, Ipazia

di Gabriella Lazzerini

È il 1986. Ancora sgomenta l’episodio di Chernobyl, ultimo atto di tante catastrofi apparentate con la scienza. Mai come in questo momento l’universo scientifico è apparso tanto vicino al vivere quotidiano, e insieme tanto distante, con i suoi codici incomunicabili, il suo futuro greve di
imprevisti. Alcune donne della Libreria di Milano vogliono rispondere alla paura trovando un modo per far entrare la loro politica nella cittadella della scienza. Nessuna di loro è scienziata, ma tutte possiedono un sapere: il semplice fatto di essere corpo – che si muove, osserva, respira, si ammala… –   ha a che fare con la scienza. Abituate a chiedere conto prima di tutto alle donne, si rivolgono a donne che conoscono competenti in qualche disciplina scientifica, per interrogarle e interrogarsi. Le scienziate parlano della loro passione della ricerca e della fatica che costa in quei luoghi il tagliar fuori l’essere una donna: smorza le pretese e fa tacere domande che dalla propria esperienza di donne hanno origine e che potrebbero se portate alla luce far più grande la scienza che circola.

Da questo incontro inusuale nasce la comunità scientifica femminile Ipazia. Il nome viene da una scienziata – astronoma, matematica, filosofa – vissuta ad Alessandria nel IV secolo dopo Cristo.
Una comunità scientifica non è un gruppo, è innanzitutto un luogo simbolico. Permette di porre questioni che altrove non avrebbero legittimità, autorizza a scegliere come indirizzare la ricerca, stabilisce a quali vincoli ci si deve attenere, giudica che cos’è buona scienza: in una parola costituisce autorità.. Quello della neutralità del soggetto è un vincolo inutile, un pregiudizio radicato nel modo in cui la scienza si è costruita. Sarà da questo momento in poi il fare riferimento ad altre donne, in Ipazia o nel mondo, a dare legittimazione alla ricerca di ciascuna, forti dell’autorità che la comunità produce. Autorità scientifica autorità femminile si chiama il nostro primo libro.


Considerando l’appartenenza al genere femminile fondante per la conoscenza e rompendo la soggezione verso uno specialismo che pietrifica e non orienta, nel libro si racconta il vantaggio che donne che vogliono fare scienza traggono reciprocamente nel costituire le une verso le altre metro di misura e giudizio, Ad esempio Marina Pasquali: aveva sperimentato nel suo lavoro di biologa alla Divisione di Immunoematologia quanto fosse ambiguo rispondere con percentuali sulle probabilità di trasmissione del virus HIV alle donne sieropositive a rischio di maternità e quanto questa impostazione non le fosse d’aiuto nel cercare la risposta giusta con la donna che le era di
fronte. Del suo problema ha investito per prima le donne di Ipazia, ricevendo da loro il coraggio di nominare nel contesto del suo lavoro una differente cultura della maternità e della sessualità, e di sostenere nel caso la rinuncia a una maternità a rischio.Si mette in moto un laboratorio di ricerca. Alcune chiedono di entrare, alcune se ne vanno, qualcuna bastandole di aver capito come spostarsi dalla diffidenza che genera paura avendo fiducia in qualche donna che pratica la scienza, qualcun’altra delusa che il lavoro non si indirizzi tutto verso la critica alla scienza. La comunità non è cieca nei confronti dei malanni e dei rischi del progresso scientifico e tecnologico, ma sceglie di
intervenire laddove si aprono spiragli, dove si manifesta una contraddizione. L’indagine ha inizio quando una di noi solleva una questione che le sta a cuore, nata nel suo contesto di lavoro, da una circostanza che si trova a vivere, da qualcosa che la tocca e la appassiona, e che sollecita le altre. Convinte che i dati abbiano un senso, cerchiamo un ordine che ci soddisfi: partiamo dalla nostra esperienza, leggiamo, interroghiamo esperte, e talvolta esperti, di cui ci interessa il punto di vista originale e libero. Ma soprattutto discutiamo, diamo ascolto a ciò che sembra non adattarsi all’ipotesi e quindi spinge a interrogarsi ancora, senza fretta di arrivare a una conclusione. E’ la comunità – quella o quelle che si scelgono nel momento per fare comunità – a dare la misura, a dire che c’è materia sufficiente per presentare la questione al mondo, per verificarla chiamando altre e altri a discuterne. Da qualche anno stiamo indagando le scienze che studiano gli esseri viventi,
attirate da una contraddizione che le attraversa.  Ogni vivente è unico, irripetibile, si evolve nel tempo e non è mai uguale a se stesso, si modifica nelle relazioni e negli scambi. D’altra parte la scienza è nata per il bisogno di generalizzare, di trovare un ordine, una regolarità nei fenomeni che studia, di cercare le qualità comuni, intercambiabili, stabili, di ciò che osserva. Come tener ferma questa esigenza senza cancellare l’unicità, la variabilità e la mutevolezza che caratteristica gli esseri viventi, la soggettività di ciascuna e di ciascuno che domanda ascolto?

Questa contraddizione – come tante altre che riguardano il nostro vivere di donne nel mondo – non ci interessa affrontarla da un punto di vista astratto, ma perché nella ricerca siamo implicate a partire dalla nostra esperienza. Pensiamo che sia ineliminabile, ma che sia possibile articolarla, farla giocare, usarla come strumento di conoscenza. Abbiamo chiamato questa questione “la misura del vivente” e  per ora costituisce il filo della nostra ricerca. Il  nostro primo laboratorio, per un desiderio di una di noi che era insegnante, è stata la valutazione a scuola e nell’università. Noi riteniamo che l’insegnamento sia una ricerca, infatti ogni insegnante si trova davanti sempre nuovi  soggetti, e deve continuamente adattare il sapere alle loro domande e alle loro necessità. Per portare nella scuola ciò che ritiene veramente significativo, rispetto alla grande massa di conoscenze oggi disponibile e rispetto al senso che intende dare al suo insegnamento, e per valutare quanto questa operazione sia efficace,  ha bisogno di una comunità scientifica, di costituire luoghi di scambio con altre e altri in cui portare i propri dubbi e ricevere autorizzazione e giudizio. L’insegnamento è una relazione tra soggetti che all’interno di essa si modificano; ciò che si misura, valutando, sono gli spostamenti e quindi è la qualità di questa relazione. Abbiamo esaminato questa nostra ipotesi all’interno di un convegno intitolato “La misura del vivente” (di cui abbiamo pubblicato gli atti) con insegnanti, docenti universitari, ricercatrici e ricercatori. Il progetto di autoriforma della scuola è iniziato da quel convegno. Il secondo passo è stato indagare che cosa voglia dire una medicina scientifica,  e come questo giochi con il dolore, la speranza e l’attesa di chi si trova a vivere la malattia sulla propria pelle. Il sapere medico accumulato in studi e ricerche sempre più sofisticate  deve trovare la risposta efficace per la singola o il singolo malato. Il Quaderno “Due per sapere, due per guarire” dà conto di quel che abbiamo saputo interrogandoci e facendo parlare mediche, ammalate, infermiere, ricercatrici. Noi sosteniamo che solo mettendo al centro la relazione tra chi cura e chi ammala e ciò che all’interno di essa di unico si produce è possibile fondare la medicina come scienza. In un rapporto dispari, tra chi ha dalla sua l’autorità del sapere medico e chi d’altra parte è ben competente del proprio corpo, se c’è incontro e disponibilità ad ascoltare, si dà non solo la possibilità di una guarigione ma anche l’avanzamento della ricerca medica. Siamo uscite dallo specialismo: ci conforta il fatto di aver ricevuto ascolto e attenzione.

 

 

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