Un filo di felicità – Sottosopra oro – Gennaio 1989

Dai suoi inizi la politica delle donne ha mantenuto un vivo legame con il suo fondamento soggettivo. Questo legame ha preso forme diverse, come la pratica dell’autocoscienza o il criterio della verifica soggettiva (per cui una non sostiene per le altre ciò che non giudica valido per sé) o, ancora, la regola del fare politica a partire da sé. Dagli inizi, inoltre, abbiamo sperimentato che la fedeltà alla verità soggettiva ci faceva avanzare in ogni senso, anche nel senso di una maggiore forza nei rapporti sociali. Non però automaticamente. Più volte ci siamo trovate nel dilemma fra l’avere forza sociale e l’essere fedeli al nostro essere donne. Più volte l’oggettività sociale ci si è presentata in alternativa escludente con la significazione della differenza femminile. Era un’alternativa di non esistenza: nel tentativo di avere forza nel confronto sociale, si finiva per tradire l’identità femminile, ma, d’altra parte, per restare fedeli a sé si rischiava di finire in una marginalità a sua volta negatrice di esistenza.

l’avvenimento della libertà femminile
Ebbene, a presente questo dilemma non si pone più, ne siamo definitivamente uscite. A presente, la fedeltà alla verità soggettiva non si contrappone più all’oggettività sociale. Dal dilemma dell’inesistenza siamo uscite nel momento in cui il riferimento alle donne è diventato primario rispetto agli altri riferimenti sociali. Così, per fare un esempio, ci sono donne indifferenti alla politica delle quote e delle pari opportunità, perché a loro va bene restare nella maggioranza delle donne che non fanno carriera, che non occupano posti dirigenti. Una simile posizione, oggi, non la leggiamo più come pochezza ma come scelta. È infatti una possibile scelta di libertà femminile, tanto che le stesse sostenitrici della politica paritaria presentano i loro obiettivi di quote garantite o di azioni positive come obiettivi limitati, non significativi della volontà femminile nella sua interezza, dandoci cosi una prova indiretta che l’essenziale, per una donna, non dipende dal riconoscimento di questo o quel diritto. L’orizzonte della libertà femminile si è aperto oltrepassando tutti i possibili obiettivi: la donna che sceglie di restare nella maggioranza femminile che non fa carriera, sta semplicemente aprendosi una sua strada in questo orizzonte più grande. Una prova diretta di quello che stiamo dicendo, la troviamo nel fatto che i luoghi sociali occupati di preferenza da donne, come l’industria tessile per quel che riguarda la produzione, o le facoltà di Magistero per quel che riguarda la cultura universitaria, fino a ieri noi stesse li guardavamo come sacche di marginalità, come ghetti, e invece ora vediamo che sono luoghi favorevoli alla forza sociale delle donne. (Non sarà un caso, in effetti, che la comunità filosofica Diotima sia nata proprio in un Magistero.) È importante che prendiamo coscienza di ciò. La nuova strada che si apre a noi, infatti, è una strada di consapevolezza. Anzi, è la strada della vera consapevolezza di sé che ti permette di dire io senza con ciò escludere niente e nessuno, che alla forza stessa del tuo dire io farà corrispondere la presenza di quello che tu non sei: è la strada delle nozze fra il tuo io e la realtà di ogni cosa che è. Non si può percorrerla senza saperla. Tutte, in un modo o nell’altro, abbiamo sperimentato la negatività escludente del dire io da parte di una donna. E forse molte continuano a immaginare di essere ancora esposte a questo dilemma di dover negarsi per fare spazio alla realtà. Ma in questa alternativa non siamo più costrette. Non c’è più la contraddizione fra la fedeltà soggettiva e l’oggettività sociale, fra il partire da sé e l’andare in giro per il mondo. La libertà femminile è venuta al mondo, è avvenuta. Può esserci, e veramente c’è una distanza enorme fra il mio desiderio e la realtà data, ma se voglio colmarla, so che questo non mi separerà più da me stessa ne dalle mie simili, com’è accaduto in passato. Ci sono scelte da fare e alcune sono fra loro incompatibili per cui torneremo a dividerci e forse a scontrarci, ma senza che ciò rimetta in questione la nostra esistenza.

il negativo delle nostre vite
Alcune, tuttavia, non riescono a vedere l’avvenimento della libertà femminile. Sono messe in difficoltà dal fatto che il negativo permane nelle nostre vite e nei nostri rapporti. Allora pensano: non ci siamo ancora. L’impedimento a riconoscere il nuovo è quasi più forte in quelle che più hanno lottato per far venire il nuovo. È paradossale ma è così, forse perché queste più delle altre si sono immaginate il risultato e il risultato reale, vero, è diverso da quello che esse avevano immaginato. Il risultato della libertà femminile non è di eliminare il negativo delle nostre vite, ma di metterci in condizione di conoscerlo e di combatterlo. C’è un negativo di origine femminile che ci viene in maggior evidenza ora che abbiamo acquisito qualche mezzo per contenere l’invadenza del negativo maschile. Il male di origine femminile per millenni è stato demonizzato, cioè trattato come un male intrattabile e, quindi, come un potente pretesto sociale per negare alle donne la libera espressione di sé. Noi stiamo imparando a farci i conti e gli daremo, per così dire, diritto di città fra le cose negative, forse insormontabili, di questo mondo. C’è, anzi resta nelle nostre vite un negativo di ergine storica: sfruttamento sessuale, sessismo sul mercato del lavoro, disprezzo sociale per ciò che ha origine femminile. Il fatto nuovo di cui stiamo parlando non è che queste cose amare sarebbero sparite dalla condizione umana femminile. Il fatto nuovo è che ora possiamo combatterle con idee e mezzi autonomi. Questo vuoi dire, almeno, che il male che ci viene fatto non arriverà più fino a ferire quella profonda intimità da cui una donna dice: io sono una donna.

Frutto di una storia comune
La fine della contraddizione fra l’io sono una donna e la realtà oggettiva, è stata guadagnata da molte, in gran parte femministe, che non hanno sempre proceduto d’accordo e che anzi si sono a volte contrapposte fra loro e non senza ragione. Ma il risultato è pur sempre il frutto di una storia comune, quella del nostro attaccamento politico alla soggettività femminile. L’attaccamento al proprio io, come tale, non è libertà. Il nostro stare vicine alla soggettività femminile si riduceva spesso, nostro malgrado, a uno sterile girare intorno, come fa un cane legato a un albero. Ma in questo modo, in questa situazione abbiamo finito per vedere chiaramente la necessità di una mediazione femminile. Per mancanza di questa, a una donna risulta(va) impossibile dire io senza negare l’altro da sé e qualsiasi sua scelta particolare portava in sé una specie di assolutismo escludente, mutilato, senza alternativa altra che una somma faticosa di compiti disparati: la famiglia, il lavoro, la politica… (Non è difficile mostrare come lo sfruttamento del lavoro femminile in ogni sua forma, dalla fabbrica al suocero invalido alla raccolta delle olive al lavoro intellettuale anonimo, faccia leva su questa altalena di negare/essere negata che non consente di progettare liberamente la propria vita.) La fedeltà alla verità soggettiva ci ha fatto scoprire che all’esistenza sociale libera di una donna mancava, in primo luogo, l’articolazione mediatrice fra sé e la realtà. È questa la vera mancanza etica del nostro sistema sociale, a monte della mancanza (denunciata con forza da Luce Irigaray) di un diritto mediatore fra i due sessi. Non esistevano modi per la mediazione sessuata femminile. Li ha pensati la politica delle donne. Più precisamente, in ciò consiste il pensiero femminile, per l’essenziale: dar vita a strutture mediatrici per l’esistenza sociale libera delle donne. La prima struttura mediatrice, come sappiamo, è stato il gruppo di sole donne. Altre sono poi venute al posto o in aggiunta, come le relazioni preferenziali fra singole, e altre ancora verranno, com’è naturale poiché i modi secondo cui il soggetto femminile entra in circolo vitale con la realtà altra da sé, questi modi fanno ormai parte della vita sociale e sono quindi destinati a rinnovarsi insieme a questa. Non tutte le aggregazioni femminili, va detto, hanno la potenza di mettere una donna in rapporto libero con la realtà. C’erano e ancora ci sono aggregazioni complementari all’ordine sociale pensato e voluto da uomini. Anche queste, però, cominciano ad essere contagiate dal primato che nella nostra società va prendendo per le donne il riferimento a sé e alle proprie simili. Un segno di autonomia, oltre che un requisito per l’efficacia mediatrice – secondo noi il segno e il requisito più sicuri nei rapporti fra donne- è la pratica della disparità. Questa, infatti, ci insegna ad ammirare le qualità e le azioni di altre donne, dandoci la libera disponibilità di quelle energie inferiori altrimenti bloccate dall’invidia e quindi messe al servizio degli uomini. Su questo punto, più che negli altri, noi enunciamo un’esperienza provata fino in fondo. Non c’è armatura più forte e semplice, nel confronto sociale, per una donna, della sua ammirazione per la grandezza femminile con cui entra in contatto.

La felicità dell’indipendenza
La nostra società ora sa l’esistenza di due sessi e di questo sapere noi vediamo già le manifestazioni, che sono ovviamente le più varie: c’è chi reagisce ostilmente, chi strumentalizza; altri, altre sono accoglienti e si arricchiscono. Stiamo parlando di un avvenimento di natura simbolica, non di un fatto sociologico o psicologico. Non vuoi dire però che si tratti di un avvenimento solo mentale. La sua consistenza è anche materiale: la sua incidenza è sensibile, le sue conseguenze, almeno in parte, sono osservabili. Fra le conseguenze sensibili e osservabili dobbiamo mettere anche la vena di felicità che corre fra le donne. Non è riducibile ai progressi materiali ma non li esclude, non è interpretabile come qualcosa di puramente spirituale ma gli somiglia. La felicità ci viene dal senso che hanno preso le nostre vite per sé stesse, senza più imprigionamento in sé stesse. È un senso praticabile, anzi necessariamente pratico ma con un sentimento meraviglioso di libertà anche in mezzo agli impedimenti e alle smentite che ogni pratica della vita comporta. A questo non saremmo mai arrivate con la politica delle rivendicazioni. La politica delle rivendicazioni ci rappresenta(va) come oppresse dall’altro sesso, mentre la radice della sofferenza femminile era l’impotenza del significarsi da sé, per sé, e di entrare nel mondo con questo segno originale, che non c’era. Bisognava capire questo. Lo abbiamo capito quando, parlando fra noi al riparo dalla scienza maschile del mondo, abbiamo avuto la certezza che le donne non vogliono rappresentare, nell’ordine simbolico, la sua mancanza strutturale ne si soddisfano di essere la sua muta matrice materna – ridotte, dalla scienza maschile del mondo, a funzionare da significanti dell’alfabeto primordiale degli uomini, fatto di vuoto-pieno. L’alfabeto primordiale vero è quello della differenza sessuale e la nostra felicità viene, in sostanza, dall’uso di questo alfabeto vero. Che mi consente, per esempio, di fare scuola bene, meglio, restando nella fedeltà alla mia umanità e alla mia condizione di donna. O di ragionare sul diritto non più come quella che deve sempre imparare, sempre adeguarsi, ma come quella che può, deve fare giustizia. O di entrare nella politica con la competenza della mia propria esperienza e con l’intransigenza di desideri, di bisogni non più subordinati. In questo consiste concretamente la libertà, poter fare di una condizione umana imposta un’occasione di esistenza più grande, con i margini per decidere se accettarla o cambiarla e come. Siamo felici, alcune di noi sono sensibilmente felici, perché le nostre vite e il mondo in cui ci troviamo a viverle hanno preso un senso indipendente: un senso che non possiamo più perdere perché non può cambiare senza di noi. Torna su

La lingua-ragione
Questo senso indipendente, assoluto, che proponiamo di chiamare ragione femminile, lo vediamo operare praticamente nei rapporti fra noi e con il mondo, anche se in maniera non appariscente – ma il nuovo nel suo principio non è appariscente, somiglia piuttosto a un germe che spunta nella terra. Servirà fare un esempio. Nel femminismo si è sempre sostenuto che la politica di emancipazione e di liberazione si escludono fra loro. Era e resta giusto in quanto emancipazione e libertà obbediscono a logiche fra loro contrarie: l’emancipazione è ricevuta ed è relativa, mentre la libertà si genera da sé ed è assoluta – sarebbe più giusto dire che è “assolvente”, nel senso che assolve, che scioglie dai vincoli di dipendenza. Ma la loro contrapposizione viene meno nel momento in cui una donna si rende conto che l’emancipazione più valida la otterrà grazie alla solidarietà e alle alleanze con altre donne, senza più passare per la mediazione maschile. Un’emancipazione cercata per quella via introduce alla libertà femminile. Ci troviamo davanti ad una traducibilità di cose che erano fra loro distanti fino ad escludersi. Com’è possibile questo? Una pensa subito alla lingua e al modo in cui funziona una lingua. Quando parlo, io dò alle mie parole tutto il significato di cui hanno bisogno per andare nel mondo, ma nell’atto di parlare so che le mie parole sono destinate a ricevere nuovo significato da chi le ascolterà, e lo stesso faccio con le parole che ascolto: dò loro significato, pur sapendo che avevano già un loro significato. Le parole sono così: capaci di prendere e dare significato, e così esse traducono il mio mondo in altri ed altri nel mio, con uno scambio il cui cerchio si allarga potenzialmente all’infinito. Se ora consideriamo la società con i suoi molti sistemi di scambio, vediamo che l’orizzonte della libertà femminile si allarga grazie alla mediazione dei rapporti fra donne e che questi operano come i segni di una lingua. La lingua delle donne articola in sapere la materia, prima opaca, che era l’esperienza femminile del mondo. Lingua o ragione. Ragione femminile che nasce come lingua e ne porta in sé alcuni tratti tra i quali, oltre alla disponibilità di prendere o cedere significato, c’è la capacità di farmi passare dal mio 10 esistenziale alla realtà oggettiva, e viceversa. 11 movimento politico delle donne si distingue per la sua costante attenzione verso la parola. La fedeltà al fondamento soggettivo che dicevamo all’inizio, si è esercitata principalmente come primato della parola. Fra noi la parola è un fine, non un mezzo. La parola rappresenta la fonte di umanità delle nostre esistenze. Alla parola ci siamo rivolte per trovare il senso vero e libero della differenza di essere donne. Le altre cose che circolano o che cerchiamo di far circolare fra noi, come soldi, agio, libertà di movimento, posti di lavoro, salute, potere, anche queste cose sottostanno per noi al primato della parola. Ma non una parola sulla quale potremmo agire come ci pare, al contrario. Il suo primato le viene dall’essere il senso della realtà che cambia: quello che le cose vogliono dire. A questa condizione la parola viene prima e può disegnare il mio rapporto libero con le altre donne, con gli uomini, conil mondo, con me stessa. Torna su

Allontanarsi per desiderio
Nel “Sottosopra” del giugno 1987 abbiamo pubblicato un testo sull’Arte di polemizzare tra donne di Angela Putino. Pubblichiamo qui la Lettera di Franca Gianoni alla Libreria delle donne di Firenze, che ci sembra un esempio alto di quell’arte per le cose che dice e per come le dice. N.d.R.) Ritengo molto positivo che alcune donne in Libreria abbiano forti e precisi desideri: tenere aperto al pubblico un luogo significativo, farne un centro moltiplicatore di studi e di cultura femminile. Li hanno realizzati e li realizzano perché hanno tra loro rapporti ben determinati, non generici, materialmente consistenti. Senza di essi la Libreria non avrebbe una storia di otto anni. Sostengo che la forza di tali desideri e l’impegno profuso per realizzarli rende queste donne libere di non collaborare alla realizzazione di desideri che non condividono. Ho detto in riunione e qui ripeto che chi ha altri desideri deve prendersi la responsabilità di realizzarli dove ci sono donne che li condividono. Difendo la libertà delle mie simili perché senza la loro non esiste la mia. Quanti più desideri si affermano, quante più identità femminili prendono forma, tanto più il nostro sesso esiste per sé, e ognuna che voglia ne trae vantaggio. Su queste premesse riconosco valore alla Libreria e alla ricchezza che produce. Il riconoscimento dato, il prendere sul serio l’impresa, mi fanno sentire la responsabilità di esprimere anche per iscritto le mie critiche e le conseguenze che ne ricavo per me. Ciò che critico di più è la non assunzione delle modalità di rapporto operanti in Libreria. È come se ci fosse una paura dell’autorevolezza maturata con tante fatiche, della potenza effettivamente raggiunta. Una paura anche di ogni discorso che nomini tale potenza. Anziché interrogare questo turbamento così profondamente femminile si preferisce il silenzio, o l’affermazione che tutte le modalità – come tutte le donne – sono ugualmente importanti perché differenti, e ogni differenza vale l’altra. Pur di non constatare che l’esperienza mette in crisi spesso questo modello, ci si astiene dal valutarla e dal cavarne conseguenze e modificazioni. Così la ricchezza conquistata viene in gran parte dissipata, l’autorevolezza raggiunta viene poco agita. Se ne vedono le conseguenze in alcune precise situazioni:- la mancata valorizzazione, quindi la scarsa visibilità sociale (che comporta scarsa trasmissibilità) dell’esemplare rapporto con le docenti di tedesco;- il non prendere sul serio le riflessioni che alcune donne producono sulle loro pratiche in Libreria (v. relazione di P. Codognotto a Napoli e le domande negli appunti scritti da A. Biffoli a proposito di quella relazione, rimaste senza risposta, del tutto ininfluenti quindi). Il non aver ricavato indicazioni strategiche dalle pratiche materiali dei rapporti attraverso cui si sono realizzati dei risultati positivi o anche negativi, ha portato, da una parte, ad opporsi senza controproposte a chi proposte strategiche ne ha date; dall’altra ha lasciato senza strumenti quelle che collaboravano con altri gruppi o altre donne della città, causando dolorose confusioni, equivoci, disistima reciproca (vedi iniziativa con Gemma Martino, serata di poesia con I. M., il Viaggio, recenti preoccupazioni espresse pubblicamente nelle riunioni per gli incontri con gli altri gruppi nel futuro Centro Donna). Un anno e mezzo fa ho chiesto di entrare nella cooperativa per realizzare due desideri: 1) collaborare a tenere aperto al pubblico un luogo dove circolasse la parola femminile; 2) fare in esso e con esso, in questa città, politica di donne: cioè rendere visibili, trasmissibili i rapporti materiali esistenti tra alcune di noi; elaborarli, aiutandoci con ciò che altre avevano già elaborato in proposito e sviluppandolo. Mi pareva infatti – e mi pare ancora – indispensabile che le nostre pratiche entrino nel discorso, siano socialmente visibili e applicabili dovunque, anche fuori dai collettivi, dalle Librerie, nei luoghi in cui passiamo il maggior numero d’ore della nostra vita. In questi luoghi i rapporti tra donne anche quando esistono, non contano socialmente: ciò che conta, che plasma le modalità di rapporto è il discorso maschile, se/dicente universale. Per affermare il mio sesso e vivere meglio lì, non mi basta la mia iniziativa personale, la mia energia: devo saper instaurare rapporti concreti con qualche altra donna che lì c’è. Non bastano i rapporti d’affetto, di simpatia: occorrono rapporti politici volti a modificare quei luoghi in modo che contengano due sessi invece di uno. Una strategia dei rapporti, elaborata su pratiche già sperimentate, mi rende più capace, più forte in questa impegnativa pretesa. Nella cooperativa il mio primo desiderio viene ancora soddisfatto. Ma è il secondo che gli da senso. Per esso non ci sono le condizioni di attuabilità: le donne che reggono la Libreria realizzano giustamente i loro desideri; la tradizione che si è consolidata intorno a queste realizzazioni ha selezionato l’attuale gruppo tra quelle che si riconoscono in quei desideri, o comunque non ne sostengono altri con la decisione necessaria per renderli operanti. Ci ho messo più di un anno a capirlo per le mie resistenze all’ascolto, e anche perché il ritegno ad usare la potenza raggiunta ha impedito alle più autorevoli di dire un NO chiaro così convincentemente motivato. Dopo esser stata in silenzio per vari mesi, per poter ascoltare di più, e dopo la riunione del 18 gennaio in particolare, l’ho capito. Per questo, fatto un bilancio delle mie energie non illimitate, delle situazioni in cui debbo o voglio impiegarle, dei tempi concreti a disposizione, ritengo di dovermi responsabilmente ritirare dalla cooperativa. Non interrompo affatto i rapporti con essa – come dimostrano del resto l’energia, l’attenzione e il tempo che ho impiegato a scrivere questa lettera. (1) Ma la mia presenza interna costa a tutte una dispersione di energie troppo grande rispetto ai risultati che conseguiamo. Un’eventuale collaborazione esterna su precisi progetti potrà forse produrre- io spero – effetti più corrispondenti agli investimenti.

Franca Gianoni

(1) Attribuisco grande importanza alle parole scritte da donne per donne, anche se non sono “ben scritte”: rendono più duratura la comunicazione; lasciano tracce visibili del nostro operare; mostrano un prendersi sul serio; confermano che i nostri rapporti, oltre che personali, sono già sociali. Sesto Fiorentino, febbraio 1988 Torna su

La prima dimensione
La conoscenza scientifica esige il sacrificio iniziale della soggettività a vantaggio dell’oggettività. Definire la parte di soggettività a cui si rinuncia rientra nella ricerca stessa della scienza ed è esercizio di libertà, perché si rinuncia per scelta in obbedienza alla ragione. La conoscenza scientifica esige la non cancellazione del soggetto. Bisogna essere io per rinunciare a io. Scartare, come residuo ininfluente a priori per la conoscenza razionale del mondo, il fatto che ovunque entri io il locale mi da la dimensione di lei (Lispector), è la cancellazione non scientifica del soggetto che ha ostacolato la mia scelta di oggettività. La reintegrazione dell’osservatore nelle proprie descrizioni, cercata in molti modi da scienziati e filosofi, va affrontata alla luce di questa verità, che diventa vincolo. La mia ragione, che la matematica ha istruito e le donne di Ipazia attivato, non accetta che una rappresentazione, perché oggettiva, richieda a me un impossibile supplemento di sacrificio di cui non resterebbe traccia per la futura restituzione: il diverso sesso della mia soggettività. La mia ragione assume come necessaria la posizione di un criterio scientifico sessuato per produrre descrizioni che mi includano. Indagare le implicazioni radicali dell’assunto è l’appassionante urgenza delle donne di Ipazia. Condividerlo con le simili, farlo esistere socialmente, dargli la difesa di un’ autorità scientifica femminile, è la strada per costruire assieme il soggetto che non si cancella con la soggettività. Questa urgenza non si soddisfa con il solo lavoro del pensiero, esige una pratica che si dà regole, strumenti, mediazioni atte a verificare le condizioni di in-differenza del soggetto.

P.S. Essermi arresa ai tempi della pratica non mi ha tolta dall’impazienza di esplorare intuizioni. Sto salendo per le due strade così diverse eppure legate perché dell’avanzamento nell’una ho bisogno per avanzare nell’altra.

Angela Alioli di Ipazia

Lavoro di fabbrica lavoro del pensiero
Siamo tutte donne iscritte alla C.G.I.L. che a Brescia è il sindacato prevalente. Alcune di noi sono funzionarie, altre delegate. Il percorso individuale di ciascuna di noi è segnato dall’esperienza del lavoro di fabbrica e dalla militanza sindacale. Questa, per noi, è un’appartenenza molto forte e un forte legame. Con questo legame da qualche anno si è intrecciato quello che abbiamo stabilito fra noi dando vita al Gruppo del martedì. Da quando è nato, settembre ’87, noi ci riuniamo sempre il martedì, alla Camera del Lavoro, e questo è diventato il nostro nome collettivo. Abbiamo una pratica che non segue gli schemi propri dell’organizzazione, per esempio non ci riconosciamo nella divisione delle donne secondo le categorie (quando diciamo l’organizzazione, intendiamo il sindacato e per noi il sindacato è la C.G.I.L.). Non solo, siamo anche contrarie ad esprimere una forma organizzativa che si possa ritenere definitiva o possa apparire come modello generalizzabile. Noi siamo consapevoli che siamo insieme perché ci siamo scelte; la nostra scelta è basata su un’esperienza comune dentro al sindacato e sul desiderio di fare un lavoro politico fra donne. All’origine del gruppo ci sono due circostanze che hanno per noi un diverso valore:- la nascita dell’Università delle Donne a Brescia, alla quale noi stesse abbiamo contribuito; – la richiesta fatta dall’organizzazione, nel luglio ’87, di ricostituire il Coordinamento Donne come una struttura fissa con una sua responsabile. In quest’ultima occasione ci siamo scoperte contrarie a quella richiesta e a quello che significava, paradossalmente ci siamo messe insieme proprio perché contrarie. Sentivamo perplessità ed estraneità ad un percorso e a politiche sindacali decise in altri luoghi. La proposta dei coordinamenti, decisa dal Direttivo Nazionale della C.G.I.L., è stata da noi sentita come un passo indietro rispetto alla stessa elaborazione dei vecchi coordinamenti dove non era stata formalizzata la composizione: erano infatti aperti a tutte le donne, lavoratrici, delegate e funzionarie – non avevano peso le diverse componenti politiche e di sigla sindacale – era stata rifiutata la figura della responsabile sia organizzativa che politica. Avvertivamo la riproposizione di questa forma organizzativa come una scelta che ignorava quanto le donne avevano già prodotto nella loro esperienza. La sentivamo più come un’esigenza/necessità della C.G.I.L. che non un’esigenza/necessità di donne nel sindacato. Non avevamo più nessuna voglia di ricominciare a discutere per far passare le nostre esigenze più avanzate. Abbiamo preso tempo. I nostri primi incontri resero evidente che potevamo continuare a svolgere un ruolo non marginale nel sindacato senza dover necessariamente corrispondere alle aspettative e che potevamo restare a pieno titolo dentro questa organizzazione senza che questo significasse, sempre e di necessità, seguire le direttive o le indicazioni circa le forme entro le quali definire la nostra presenza lì dentro. Questa cosa, che per molte di noi non era una scoperta nuova – in altri momenti delle lotte sindacali l’avevamo sperimentata – si presentò in quella precisa circostanza come un’esperienza nuova, con un significato non conosciuto prima. Ricordiamo che generò sentimenti contrastanti: insieme ad un indefinito timore, quella decisione di prenderci tempo e spazio per noi, lì, produsse un sentimento di liberazione. Si presentò come un gesto di libertà; così ci sembra di poter chiamare quel sentimento di cominciare ad esistere veramente, per noi stesse, che provammo allora. A quel punto abbiamo deciso di convocare noi, le donne. Abbiamo dato vita ad un’assemblea nostra per riaprire la discussione sulla presenza organizzata delle donne nel sindacato. Noi stesse, che eravamo certe che il Coordinamento non ci andava bene, non sapevamo se ci saremmo date, se volevamo darci, un’altra forma organizzativa. Per finire, abbiamo deciso che no. A Brescia non c’è il Coordinamento Donne e non c’è una struttura alternativa. Ci siamo noi in carne ed ossa che ci riuniamo il martedì alla Camera del Lavoro. Il sindacato conosce bene che esistiamo e per questo non riesce a capire perchè non facciamo le rappresentanti e la politica per le donne. Le nostre prese di posizione si esprimono spesso in forma negativa, perché quello che vogliamo, spesso, si chiarisce a noi stesse quando ci rendiamo conto che questa o quella cosa non va bene per una politica di donne (e poi, perché capita spesso, che dobbiamo opporci ai tentativi di ricondurci nei ruoli prestabiliti). Andiamo avanti facendo un passo alla volta, così abbiamo la forza sufficiente per quello che c’è da fare di volta in volta. Ma il nostro discorso nella sua sostanza è positivo, è un discorso di forza femminile e della necessità di cominciare ad esistere non come prima, perché una ha un ruolo, una funzione, una categoria, ma perché c’è in prima persona e, con l’appoggio delle altre, pensa e fa cose in cui lei per prima si riconosce e così si rende conto che per essere rappresentata deve rappresentarsi lei stessa. Restiamo comunque imprevedibili, facciamo veramente ingombro. La forza per cominciare ci è venuta dall’aver rotto la regola del sindacato, che presume la necessità per le donne di organizzarsi dentro l’organizzazione. Nella proposta dei coordinamenti c’è una strumentalità burocratica e noi a Brescia l’abbiamo sconfitta stabilendo così un rapporto di forza. Noi siamo dentro la C.G.I.L., ma ci stiamo con la possibilità di darci regole nostre. Questo ha cambiato il senso della nostra militanza sindacale. L’ha resa più vera e più efficace. Ci è difficile far capire il nostro progetto a quelle che non vengono il martedì, ma riusciamo a comunicare loro la nostra nuova forza. Anche nella nostra esperienza ci siamo incontrate con una pratica ormai diffusa che è quella di utilizzare le candidature femminili per risolvere problemi politici esterni, non tanto alle singole donne, ma alle donne collettivamente. A noi è bastato smascherare l’intenzione che si nascondeva dietro un presunto interessamento per la causa femminile. Ci va benissimo che ci siano donne nei posti dirigenti, ma che non sia per rappresentare tutte le donne, la ragione deve essere veramente il loro desiderio e la loro capacità di essere dirigenti. Nelle scadenze politiche del sindacato non abbiamo mai parlato per conto di tutte le donne, non abbiamo mai scritto Tesi; nel proporre nomi di donne negli organismi non abbiamo ragionato sulle percentuali: abbiamo invece proposto chi era interessata a fare politica sindacale insieme alle donne. La nostra scelta ha aperto un conflitto tra la nostra pratica politica e quella del sindacato, soprattutto perché il tentativo è quello di farci funzionare secondo una logica di rappresentanza generale. Sappiamo che su questo terreno si gioca il valore della presenza femminile. Troviamo difficile analizzare come nasca effettivamente la nostra forza. La sua fonte è femminile, questo è sicuro, come è sicuro che la sua base sono le relazioni fra donne. Ma è generico, oltre che ormai risaputo. Andando più a fondo, vediamo che c’è il fatto che ci siamo scelte e che alla base di questa scelta c’è un progetto forte, ricco anche del sapere che noi abbiamo accumulato rispetto a questo luogo. Noi non abbiamo rivendicazioni o richieste da avanzare nei confronti del sindacato. Noi vogliamo essere il sindacato di donne e uomini, il sindacato che tiene presente la differenza sessuale a tutti i suoi livelli. In un certo senso noi siamo già questo sindacato, perché le riunioni del martedì hanno rotto la finta uniformità di prima. Sappiamo che ciascuna di noi può contare sull’altra anche per ciò che riguarda il nostro modo di stare dentro le singole categorie, per esempio nei momenti di contrattazione. Questi scambi ci rafforzano, rafforzano l’identità femminile e ci aiutano a costruire misure nostre di cui sentiamo un grande bisogno. Per riuscire a essere noi in prima persona questo sindacato che ha presente l’esistenza di uomini e donne, ci aiutiamo, oltre che con le relazio- ni interne ad esso, anche con relazioni esterne, specialmente con l’Università delle Donne di Brescia. Fra noi e le donne dell’Università c’è uno scambio. Metterci in rapporto con loro e con altre che vengono all’Università, come le filosofe di Verona, ci ha dato una distanza interiore dal sindacato. Rispetto a questo siamo dentro-fuori: non nel senso che saremmo metà dentro e metà fuori, ma nel senso di aver guadagnato distanza interiore da un ordine vissuto come dato immutabile. In questo siamo state aiutate dal rapporto con le donne dell’Università. La creazione di questo luogo e il legame con loro ha contribuito a rendere più politico il legame fra noi. All’Università noi portiamo il nostro pensiero con i suoi contenuti e le sue caratteristiche originali, per esempio, il nostro pensiero è sempre una ricerca collettiva. Un’occasione per approfondire le nostre idee, è venuta con la discussione sulle quote garantite. In un primo momento non abbiamo trovato una posizione che ci legasse con la forza della convinzione. Adesso comincia ad esserci, anche perché ci siamo misurate su questa questione con la nostra pratica politica. Siamo contrarie alle quote per molti motivi, alcuni dipendono dalla situazione, altri sono più di fondo. Intanto abbiamo l’impressione che con questo discorso delle quote si voglia chiudere sbrigativamente il problema della presenza o assenza delle donne nel sindacato. Ci offrono questo 25% con l’aria di dire: vi abbiamo risposto avete avuto quello che volevate. Se si accetta di ridurre la differenza sessuale ad un semplice calcolo matematico, ad un riequilibrio di presenza, si indebolisce la possibilità di mantenere aperto un conflitto che è politico. Per questo sentiamo le quote una svalutazione del sesso femminile. Un soggetto – maschile – conserva una rappresentanza universale, noi accettiamo il confino, ci facciamo ridurre a gruppo politico, il conflitto viene così mantenuto nel 25% , non esce! Le quote portano in sé questo significato di rimedio di una debolezza, questo ha conseguenze negative in ogni caso, ma specialmente nel mondo del lavoro dove la cosa determinante sono i rapporti di forza. Noi abbiamo bisogno di tutta la forza e di tutta l’autorità che servono nella lotta sindacale, a vantaggio delle donne ma anche degli uomini. Il meccanismo delle quote proposto come un tentativo di rafforzare la presenza delle donne si rivela in realtà come un depotenziamento. Quella che fa sindacato da donna, ma con uomini e donne, come facciamo noi, si troverà con una base di legittimazione ridotta. Tutte le presenze femminili saranno messe nel conto del 25%, comprese quelle che avranno ricevuto la delega anche dei lavoratori maschi, e ciò ridurrà di fatto il valore del mandato. Inoltre in caso di posizioni fra noi conflittuali siamo vincolate dal 25%, c’è il rischio reale di comportarci come una componente – questo fa perdere valore agli occhi propri e altrui. Per finire le quote garantite non producono autonomia femminile, perché non producono consapevolezza della realtà, di come funziona, dei rapporti di forza. Le donne che si appoggiano alle quote per avere spazio nella società, sono più strumentalizzabili di quelle che costruiscono la presenza femminile con mezzi indipendenti. La maggiore difficoltà, forse, che ci troviamo davanti è che le nostre vite, prima ancora che una pensi da sé che cosa farne, sono già invase da una somma di occupazioni che non lasciano scelta. In questa situazione la politica sindacale, quando si tratta delle donne, si riduce, nel migliore dei casi e quasi per forza, a trovare aggiustamenti perché una donna possa assolvere questa somma di compiti senza esserne schiacciata. Ma questa non è libertà, è sopravvivenza. È proprio vero che non c’è scelta? Come far nascere, come far parlare la libertà femminile nel mondo del lavoro? Stiamo riflettendo partendo da noi per trovare la strada che altre, in caso, riconosceranno valida anche per sé. Non possiamo dire molto di più perché siamo solo agli inizi della nostra riflessione su questo tema fondamentale di far parlare gli interessi femminili per sé stessi e non più in funzione dei figli, dei mariti, della produzione, o dei progetti politici di altri.
Camera del lavoro di Brescia – Gruppo del martedì Donatella Alberti (funzionaria FIOM) Luisa Bonometti (funzionaria FIOM) Oriella Savoldi (funzionaria FILTEA) Vincenza Baiguera (delegata FILTEA) Michela Spera (delegata FILPT) Laura Tonoli (delegata FIOM) Flavia Reboldi (delegata FIOM) Nadia Clerici (iscritta FP) Silvia Spera (iscritta FP) Amalia Viero (iscritta FP) Maria Zanotti (iscritta FP) Wilma Poli (funzionaria FIOM) Valentina Paderni (iscritta FIOM) Adriana Tavelli (iscritta FIOM)

Fuori dalle geografie maschili
II pensiero della differenza sessuale è un pensiero intrinsecamente politico, nasce in un mondo in evoluzione e trasforma questa stessa evoluzione per iscrivervi la libertà femminile. Non è un’operazione indolore, implica la trasformazione di un ordine ed il ribaltamento degli attuali rapporti di forza uomo-donna. Se il pensiero della differenza è già politica, che cosa comporta per quelle donne, come me, che sono inserite nella politica neutra dei partiti e dei sindacati? Fra le donne dei partiti e dei sindacati cresce l’attenzione per le tematiche della differenza sessuale. Ma questa viene assunta da alcune in una maniera che io giudico sbagliata, in quanto si vorrebbe aggiungerla o integrarla alla politica dei soggetti o gruppi sociali, come gli anziani, i giovani, gli immigrati, i disoccupati, ecc., servendosi di teorie o pratiche preesistenti, come il marxismo e l’emancipazione, o di nuove ideologie, come quella del valore delle differenze in quanto tali. In questa maniera noi resteremmo interpretate da significati di un ordine senza pensiero della differenza sessuale e non troveremmo la nostra libertà. La sessuazione del soggetto esce dai limiti di una data e conclusa società. Le donne non sono un soggetto o un gruppo sociale, ma un genere umano che sta costituendo le sue mediazioni per passare dall’immanenza naturale alla trascendenza della sua esistenza sociale libera. La metafora irigariana del “divenire divine” non ha nessuna curvatura di carattere ascetico o teologico. Sta a significare la traiettoria ascendente dell’essere donna dal dato biologico all’umanità, una umanità distinta in due generi non più riducibili ad un comune genere umano. Il determinarsi del soggetto secondo la sua differenza di essere donna/uomo determina quello che è la società, e non viceversa. Quando è viceversa, noi sappiamo fin troppo bene che non c’è libertà femminile. Contraddizione e confusioni si moltiplicano soprattutto quando si tratta del lavoro femminile nella produzione e si vuole conciliare questo obiettivo, caro all’emancipazionismo, con il pensiero della differenza sessuale. Non per questo dobbiamo rinunciare a significare la differenza di essere donne nel mondo del lavoro, anzi. Sessuare l’economia è difficile, non impossibile, a condizione di evitare la falsa scorciatoia delle pari opportunità, il vicolo cieco del binomio produzione-riproduzione, le angustie delle attuali settorializzazioni del mercato del lavoro. Circa le pari opportunità e le quote garantite, dobbiamo renderci conto che in sé si tratta di politiche di giustizia sociale neutra, sul cui valore per quel che riguarda i nostri interessi giudicheremo di volta in volta. Sessuare il mercato significa soprattutto affermare la libertà femminile nel lavoro. Non vanno sicuramente in questa direzione gli sforzi di modellare il lavoro delle donne così da accordarlo con il ruolo domestico, promuovendo di fatto un’esistenza femminile subordinata e dimidiata fra la necessità della procreazione e quella della produzione. Tutte sappiamo che il lavoro femminile si divide fra lavoro domestico per la vita e lavoro extradomestico per la sopravvivenza nella produzione. Ma non ci rendiamo conto abbastanza di un altro fatto e cioè che nel lavoro produttivo noi donne non affermiamo niente di essenziale per la nostra identità e quindi non vi sopportiamo neanche l’alienazione della nostra soggettività, come avviene per l’operaio. Dall’alienazione di sé nella produzione l’operaio può risalire a sé in quanto soggetto. Ma la donna non ritrova se stessa, il suo pensiero, partendo dalla materialità alienante del suo lavoro. Quello che lei vi ritrova è un già pensato, il “già pensato del lavoro e il già pensato del ruolo domestico” che insieme disegnano la differenza femmini- le già pensata dall’uomo e a lui funzionale (A. Cavarero in “Reti” n.2, 1988). Partire dalle sole condizioni materiali, nel caso delle donne, significa restare strette dentro a due necessità appartenenti entrambe ad un ordine simbo- lico e sociale di uomini. Questi separano al produzione dal ruolo domestico e sostengono questa operazione assimilando la donna per una parte all’uomo lavoratore e per una parte alla natura con le sue risorse di vita. Per ciò l’obiettivo della doppia presenza, nella famiglia e nella produzione, non corrisponde alla significazione della differenza sessuale nel lavoro, come pretendono alcune che confondono la femminilizzazione del mercato del lavoro con la sua sessuazione. La doppia presenza, in effetti, non fa che assecondare passivamente una tendenza attuale alla femminilizzazione del mercato, aumentando la mera presenza quantitativa di donne. La sessazione è invece opera di quelle donne che nel mondo del lavoro portano un sapere ed una progettualità originali, ricavati dall’esperienza femminile. Ed è politica della differenza sessuale valorizzare questo apporto qualitativo. La nostra politica è politica della parola e delle cose insieme, modificatrice della realtà data e creatrice del senso della realtà stessa, in un nesso circolare da cui soltanto può aver luogo la libertà femminile, in un senso che è insieme materiale e simbolico. Così, per esempio, la differenza sessuale può significarsi nel mercato del lavoro attraversando non tanto il nodo produzione-riproduzione, ma semmai quello formazione-lavoro, che ci presenta un intreccio più vivo fra una parola di donne e l’organizzazione del lavoro. Un’altra tomba per la politica femminile del lavoro è la settorializzazione del mercato. Le corporazioni del mercato del lavoro, infatti, disegnano, bene o male, una presenza di uomini nella produzione e lo stato dei loro rapporti in essa. Le donne sono fuori dai rapporti di dominio servo-padrone, anche quando entrano nel mercato del lavoro. Nel mercato del lavoro le donne sono entrate in posizione aggiuntiva, in sostituzione di “servi” che andavano in guerra o in momenti di accentuata espansione della sfera produttiva, come un esercito di riserva, per la carenza di forza lavoro maschile da sfruttare. Il mercato del lavoro è un territorio in cui l’uomo si è giocato a tutto campo la sua forza ed il suo dominio sull’altro uomo. Non è una sfera di appartenenza delle donne e noi sbaglieremmo a rivendicarla pari pari come nostra, anche se le apparteniamo in parte. Il sindacato rispecchia questa situazione. Il sindacato non prevede le donne come forza contrattuale. Certo, le ammette, ma non le prevede, non le mette in conto, e ciò si riscontra nel fatto che le donne difficilmente entrano nella direzione complessiva. Anche in paesi di più avanzata emancipazione femminile, il sindacato è rimasto un affare di uomini. Il Coordinamento donne C.G.I.L., che ha sostituito l’Ufficio lavoratrici – una mera forma burocratica di tutela delle donne – pur avendo superato la logica restrittiva dell’organizzazione di cui ha preso il posto, non è riuscito a correggere una situazione che possiamo considerare strutturale, e cioè la non prevedibilità delle donne sul mercato del lavoro. Inoltre, parcellizzandosi in coordinamenti di categoria (braccianti, funzione pubblica, scuola, ecc.), il Coordinamento ha finito per lavorare più su quello che divide le donne che su quello che le aiuterebbe a rafforzare la propria identità. Il fatto di essere contadine, insegnanti, operaie, sono de terminazioni non essenziali alla ricerca di un’identità femminile e di una visibilità sociale delle donne. Non fa meraviglia, quindi, che molto spesso, anche contro la volontà delle singole, le commissioni e i coordinamenti femminili risultino essere più uno strumento di consenso che un luogo di vero protagonismo delle donne. D’altra parte, una competenza femminile sui problemi del lavoro e la forza di decidere in maniera veramente favorevole alle donne, vediamo che cominciano a formarsi grazie a quelle sindacaliste e sindacate che non tengono conto di categorie e settori, confini per noi poco o niente significativi, e riescono a coniugare insieme la significazione dell’essere donna con la sessuazione dell’economia. Le due cose insieme. L’identità di genere non è un’empirica identità psicologica variante da individua a individua. Come ha sostenuto Luce Irigaray in una recente confe renza a Roma, l’identità di genere è la forma oggettiva con cui si esprime la sessuazione del soggetto ai vari livelli della realtà sociale. Nel lavoro, è il significarsi del soggetto donna/uomo, impegnato a produrre i mezzi della sua e altrui sopravvivenza. Il nostro sforzo è di creare le forme oggettive dell’identità di genere nel lavoro, così che nel lavoro le donne trovino una modalità di espressione del proprio desiderio, di affermazione di sé, di potenziamento della propria presenza sociale. Dal movimento politico delle donne abbiamo imparato che la base per avere identità e visibilità, sono i rapporti fra donne, rapporti differenziati se condo l’arco di tutta la socialità umana. Questa è una ragione, la più importante, per cui la politica sindacale femminile si piega sempre meno alle geografie del sindacalismo. ,, Lo stesso discorso di superamento di confini per noi insignificanti, va fatto anche per il nesso produzione-formazione. Qui si tratta di coniugare insieme la sessuazione del soggetto e la trasformazione dei contenuti educativi, culturali e professionali, operando un ribaltamento nella sequenza che fi nora tendevamo a subire passivamente. Finora c’è stata la tendenza a favorire nella formazione quelle professioni che si adeguano al mercato del lavoro dato. Viceversa, possiamo comincia re a pensare professionalità capaci di operare sulla composizione del mercato del lavoro, e lo saranno nella misura in cui saranno espressioni, insieme, di bisogni sociali e di desideri femminili liberamente, rigorosamente coltivati nel corso della formazione. Avremo così un mercato del lavoro con ruoli, funzioni, mansioni in cui una donna, le donne potranno entrare senza esserne mutilate, depotenziate. Naturalmente, ruoli, funzioni, mansioni, profili professionali, non sono le sole coordinate del mondo del lavoro. Il prodotto del lavoro in gran parte è determinato dai contenuti della tecnica, della scienza, della cultura. L’identità di genere nel lavoro si affermerà man mano che avanzerà “la rivoluzione scientifica oggi in corso” (L. Muraro sul Sottosopra blu) nella quale sta emergendo il soggetto epistemico femminile. Di nuovo, vediamo le ragioni profonde che inducono le donne a non restare confinate nelle geografie sociali maschili, ma a collegarsi fra loro da un campo all’altro per dar vita a nuove pratiche sociali, a nuove forme di pensiero.
Giovanna Borrello

Fonte e principi di un nuovo diritto
L’essere delle donne dentro e fuori dal diritto – oggetto di norme ma nominate con il nome del padre e del marito – ha disorientato per anni la nostra passione giuridica. Il lavoro legislativo emancipazionista (tante leggi di parità con gli uomini, contraddette peraltro da tante leggi di tutela della specificità femminile) non ci impegnava intellettualmente poiché tutto l’apparato teorico era già definito dal pensiero progressista maschile. Non ci restava quindi che difendere bene, come avvocate, le donne che volevano separarsi dal marito e le pochissime lavoratrici che utilizzavano le leggi di parità. Il gran numero di cause matrimoniali nelle quali si verifica un enorme scarto fra le responsabilità sociali che le donne si assumono verso i figli, da una parte, e le loro esitanti e modeste domande al giudice, dall’altra, e il pochissimo uso che esse fanno delle leggi di parità, tutto questo ci ha spinte ad interrogarci sul conflitto fra i sessi nel diritto. È evidente, infatti, che le donne vivono e si muovono in una società regolata dal diritto e non in una realtà in cui esse starebbero da una parte e la società dall’altra, così come è evidente che sono le relazioni sociali tra uomini e donne, con la forza e la parola normativa dei primi rispetto alle seconde, che rendono le donne impotenti ad agire. In altre parole, la relazione uomo-donna è già iscritta nel diritto e vi è iscritta in maniera che schiaccia la donna. L’interrogarci è stato produttivo poiché è partito dalla nostra stessa estraneità e ostilità ad ogni intervento legislativo in favore delle donne, così come ad un impegno teorico nel quadro giuridico dato. Siamo arrivate alla conclusione che il problema per tutte, alla radice, è il medesimo: siamo inserite a pezzi nell’ordinamento giuridico. E possiamo essere tutelate dalla legge e usarla solo per quella parte che vede i nostri interessi coincidenti con quelli degli uomini. Dove, invece, si apre un conflitto fra uomo e donna, ad esempio nella famiglia o nel lavoro, percepiamo immediatamente che di tutela si trattava e per di più inadeguata, nonostante i vari aggiustamenti. La ragione è semplice: l’ordinamento giuridico esistente non prevede il conflitto fra i sessi e, quindi, non lo regola. Per questo, come giuriste, siamo impedite all’innovazione teorica se non osiamo affrontare i principi fondamentali del diritto esistente. La legislazione emancipazionista, che non li mette in discussione, deve nascondere il fatto della grande incertezza femminile ad avvalersi della legislazione anche quando questa andrebbe a nostro vantaggio. Ci siamo interrogate, dunque, sulla nostra impotenza ed abbiamo cercato di lottare contro la legislazione emancipazionista non tanto per gli obiettivi che proponeva, sostanzialmente ragionevoli, ma perché colmava i vuoti dell’ordinamento riguardo alle donne, togliendo smalto e significato a quel non esserci per intero che per noi era la cosa più viva, e perché estendeva la regola data del diritto senza porre la necessità di un diritto originale delle donne.

attualità del diritto femminile
II gruppo delle giuriste di Milano, di cui facciamo parte, ha scelto il processo come luogo più concreto e rigoroso per capire che cosa vogliamo dalla legge e per disvelare l’apparentemente paradossale posizione femminile che avverte la conquista dei diritti di cittadinanza e parità come negazione della propria differenza sessuale e, quindi, non considera questi diritti come agibili in concreto. La nostra intelligenza teorica si è svegliata solo quando abbiamo individuato la fonte del diritto femminile: i rapporti di scambio fra donne (per noi, nei processi, la relazione fra avvocata e cliente, e quella fra avvocate che si associano nella causa, e quella fra una giudice ed una avvocata, ecc.), il sapere e il desiderio che li sostiene e la misura della modificazione che la lotta delle donne ha operato nei rapporti di forza fra i due sessi. Rappor ti e relazioni nei quali si vanno precisando gli interessi femminili, la forza e il sapere che abbiamo guadagnato, i conflitti fra le donne e delle donne con gli uomini che la consapevolezza produce, e la necessità delle mediazioni. Da qui prendono esistenza le norme di un ordinamento sessuato di origine femminile, che riflettono i valori costitutivi dei rapporti che le donne allacciano fra loro. A partire da queste norme sarà possibile iscrivere nel diritto i principi della mediazione fra i differenti valori dei due sessi, principi che oggi mancano nell’orizzonte monosessuato maschile. A noi sembra che tre siano le acquisizioni da cui dovrebbe procedere la riflessione femminile sul diritto: il disvelamento operato dalla presa di coscienza femminista del do minio di sesso in tutti i linguaggi, compreso quello giuridico; la vacuità della moltiplicazione di leggi e diritti che non hanno concreto inveramento (L. Muraro); il principio dell’inviolabilità del corpo femminile. Affermare questo principio significa non solo che lo stupro è un reato – lo riconosce tale già la vigente legge penale – ma che le donne non vanno riportate alla misura maschile (stupro simbolico). L’iscrizione nel diritto delll’inviolabilità, a nostro parere, non è questione di legge penale bensì di costituzione dell’ordinamento giuridico. Alcune, soprattutto le politiche di professione, spesso ci chiedono che cosa intendiamo con “differenza sessuale”. Bene, per noi la differenza si sostanzia nella libertà femminile e nella inviolabilità del corpo delle donne. L’iscrizione di tali principi è diventata attuale, pochè molte donne si rappresentano inviolabili: hanno acquistato autonomia di giudizio, forza, sapere e una socialità altra rispetto a quella ritagliata per loro dal patriarcato. Inviolabili, quindi, anche nel caso di una eventuale violenza carnale, poiché inizia a farsi strada una giustizia femminile. I sessi sono due e questa dualità si da esistenza con l’iscrizione simbolica della differenza femminile. I sessi restano due anche dopo l’avvento del diritto femminile, che produrrà, come è tipico del diritto, regole e mediazioni universali, cioè che valgono per donne e uomini. Infatti, quello femminile è un diritto sessuato che nasce dalla constatazione che i sessi sono due: la sua universalità è una forma storicamente e logicamente nuova, che domanda riflessione anche filosofica. A questo proposito forse serve osservare che la donna può diventare madre di una figlia come di un figlio e che, privilegiando la genealogia femminile in quanto le da forza e nome, non mancherà di avere cura dell’esistenza del figlio e del suo rapporto con lui. Per concludere, diciamo che il diritto femminile si pone come tertium nel conflitto fra i sessi. Esso assolve questa funzione per la ragione appena detta, che nasce dalla constatazione che i sessi sono due e si sviluppa mantenendola.

la madre fonte del diritto sessuato
Le norme del diritto che ci sono state presentate come universali sono, in realtà, un insieme di regole che strutturano una società ove le donne non sono contemplate come soggetti. Tali norme lasciano le donne prive di diritti soggettivi (L. Irigaray). Il diritto che conosciamo, perciò, è segnato dall’impossibilità intrinseca di essere veramente valido per tutti i soggetti. La pretesa che esso sia universale, è una finzione che ha potuto reggersi solo grazie alla mancanza (o all’estrema debolezza) dei rapporti sociali fra donne. Concretamente, ci siamo chieste come possiamo iniziare ad operare. Abbiamo allora preso in considerazione il diritto scritto che conosciamo, il diritto del genere maschile, e abbiamo facilmente constatato che esso non costituisce un tutto monolitico. La norma giuridica scritta nella costituzione, nei codici, nelle leggi, se ci si spinge oltre l’apparenza è, in realtà, frammentata: si enuncia come regola generale astratta, mentre rappresenta la soluzione mediatrice di un conflitto d’interessi contrastanti che si esprimono nell’orizzonte monosessuato maschile. A seconda dei mutevoli rapporti di forza fra gli interessi mediati, la medesima regola della mediazione (norma giuridica) si modifica al punto da esprimere contenuti diversi, talora perfino contrapposti. La nostra pratica ci ha insegnato che questo fenomeno si verifica non solo negli ordinamenti giuridici di tipo anglosassone (Common Law) ai quali è connaturata la formazione processuale della regola, ma anche, nonostante l’apparenza di una codificazione normativa rigida, negli ordinamenti giuridici di tipo latino. Anche in questi la regola del diritto scritto è suscettibile di interpretazioni tanto difformi – in relazione ai casi della vita sottoposti a giudizio, quindi in relazione agli interessi mediati – da modificare, fino a capovolgerli, i contenuti della mediazione. Se nel processo si modifica la regola giuridica che media gli interessi in conflitto, si può, come abbiamo già sottolineato, usare il processo come strumento di produzione di nuove regole di diritto. Inoltre, ed è la cosa politicamente in questione, noi pensiamo che questa pratica sociale sia la modalità più valida per produrre diritto femminile. È il processo, infatti, un momento istituzionale in cui le donne (avvocate, utenti, magistrale) sono soggetti della mediazione che si compie. Se esse si collegano in una relazione privilegiata, finalizzata ad un progetto che ha una misura sociale e palesa i valori che esse vogliono affermati come loro propri nella società che le include, questi valori si contrappongono come un polo altro rispetto a quelli che hanno corso nel contesto sociale maschile. Il processo registra il conflitto e il livello dello scontro, svela nell’urgenza della contrapposizione l’inesistenza di regole di mediazione fra i valori differenti di cui i due sessi sono portatori e, nel suo compiersi, esprime la mediazione possibile fra gli interessi sessuati confliggenti. Vengono così ad esistenza regole di fonte femminile, l’ordine monosessuato maschile è scalfito e comincia a crearsi un ordine dei due sessi. Nel processo si vede in concreto come la libertà maschile limiti quella femminile, e viceversa. Naturalmente bisogna sapere che cosa è in gioco, poiché il prius da cui partire, per noi la libertà femminile, è fondamentale per la lettura del diritto. Come giuriste abbiamo individuato alcune regole che ci paiono fondamentali e che qui offriamo alla discussione per arrivare a costituire alcuni principi fondanti del diritto femminile. Il valore fondamentale è costituito dalla fedeltà alla propria identità sessuale, dall’affermazione di un’identità umana femminile, resa possibile dalla valorizzazione della genealogia femminile (L. Irigaray). I diritti soggettivi delle donne, quindi, possono venire all’esistenza solo se sono strettamente correlati ai loro corpo-mente sessuati, solo se danno riconoscimento e valore alla differenza sessuale. I principi cardine del diritto di origine femminile possono ipotizzarsi o conflittuali o convergenti o autonomi con i principi del diritto maschile. La libertà, la inviolabilità del corpo e la forma dei diritti politici sono esempi di principi concettualmente autonomi. Esempio di diritto convergente può essere la normativa per la repressione della violenza sessuale. Il diritto maschile interviene con una normativa repressiva del reato a tutela dell’ordinato svolgimento del rapporto fra cittadini. Il diritto femminile, autonomamente ( ma in modo almeno parzialmente convergente quanto agli esiti del consorzio sociale) garantisce la inviolabilità del corpo delle donne attraverso la valorizzazione della genealogia femminile, la responsabilità della donna madre verso il proprio sesso, quindi verso il sesso della donna stuprata, la sottrazione di solidarietà al figlio stupratore come espressione di autorità materna esercitata nel nome del proprio sesso. Esempio di normativa conflittuale dei due generi, è nel diritto della coppia e della famiglia. Il diritto femminile in questo caso è conflittuale con quello maschile in quanto la libertà di un genere limita quella dell’altro. L’ordinamento giuridico attuale non contempla il diritto della coppia, come per prima ha fatto vedere Luce Irigaray. Nella famiglia vige formalmente l’indifferenziato, per cui ogni membro adulto è responsabile della famiglia, mentre in realtà agisce la forte disparità fra il potere del padre e quello della madre. Anche nei doveri-diritti di fratelli e sorelle si notano spesso gravi disparità. Manca, in generale, una mediazione fra i due sessi, quindi una regola, un diritto differenziato, misurato sul valore e sui bisogni rispettivi dei due generi. Qui, il principio fondante della libertà femminile, può calarsi, ad esempio, nel diritto della donna a decidere quanto al proprio corpo fecondo deciden do il numero delle maternità, quanto alla iscrizione dei figli come suoi propri discendenti nei registri dello stato civile e quanto ai diritti-doveri reciproci fra madre e figli (cfr. L. Irigaray in “II diritto delle donne” n. 1, Bologna 1988).

Principi fondanti del diritto femminile
Siamo dunque già in grado di nominare alcuni principi cardine di un ordinamento giuridico sessuato. Essi sono: – la libertà femminile – l’inviolabilità del corpo femminile – nuove forme politiche capaci di registrare l’efficacia del desiderio e la progettualità dei, delle singole, efficacia e progettualità che non trovano finalizzazione al bene comune in una società come la nostra, formalmente governata secondo il principio maggioritario e il sistema della rappresentanza. I principi cardine dell’ordine sessuato sono destinati a cambiare profondamente la Costituzione italiana (A. Cavarero). Quando la Costituzione è stata stesa ed approvata, le donne erano mute quanto alla libertà femminile (forse identificandola con quella maschile) e all’inviolabilità del corpo. Si può quindi affermare che il patto costituzionale non è stato sottoscritto dalle donne. Vero è che queste hanno successivamente compiuto degli atti, come partecipare alle elezioni e accedere ai pubblici uffici, che possono apparire come una forma di adesione. Questa però era condizionata, nel senso che si esprimeva nelle forme e negli ambiti determinati dal diritto e dalla politica maschile, come se esse dicessero: accettiamo di esprimerci con le parole che ci avete dato, ma solo nei limiti delle parole che ci avete dato. Tant’è vero che hanno (abbiamo) decisamente rifiutato la rappresentanza di sesso non votando di preferenza per le donne. In questo modo si rifiuta lo strumento principale offerto dalla democrazia borghese per difendere i propri diritti. Tale rifiuto risponde ad una ragione profonda e cioè che la differenza sessuale è un fatto qualitativo, non riducibile ai numeri, come le quote di rappresentanti in parlamento e in altri organismi, enti o istituzioni. Le femministe non si sono contate per fare le loro scelte, per prendere decisioni, per conquistare nuovi ambiti di esistenza sociale. Si sono mosse e si sono regolate secondo il proprio desiderio e progetto spesso individuale o quasi, ascoltando in questo desiderio quella che il più delle volte si è rivelata una ragione profonda, condivisa da molte ma ancora inascoltata. Così esse hanno evitato di sottostare allo schiacciamento della maggioranza, seguendo piuttosto l’andamento dei rapporti d’amore, d’amicizia e familiare, dove non si vota e dove le cose vanno bene se vince la libertà. Non sappiamo assolutamente ne vogliamo suggerire la forma che potrà avere la costituente delle donne perché abbiamo orrore della fissazione delle forme politiche. Abbiamo perfino esitato ad usare la parola “costituente” nel timore che le politiche di professione se ne impadroniscano come slogan senza una pratica adeguata. Siamo però in grado di affermare che la Costituzione italiana è messa in questione e che dovrà aprirsi ai principi fondamentali del diritto femminile. Il pensiero politico e giuridico maschile si è incagliato sul rapporto uguaglianza-differenze, sul funzionamento della democrazia numerica, sull’estensione dei diritti senza la capacità di pensare gli strumenti e gli istituti per attuarla, cosicché le proclamazioni del diritto non hanno alcun inveramento. La discussione, quindi, è più che aperta e l’elaborazione giuridica delle donne sarà preziosa per gli uomini come per le donne. Mariagrazia Campari e Lia Cigarini

Su questi temi abbiamo fatto riferimento a: – Luce Irigaray, Sexes et parentés, Minuti, Parigi 1987 (in preparazione la traduzione italiana: Sessi e genealogie, La Tartaruga, Milano 1989) – Libreria delle donne di Milano, Non credere di avere dei diritti, Rosenberg & Sellier, Torino 1987, secondo capitolo – Adriana Cavarero, L’emancipazione diffidente. Considerazioni teoriche sulle pari opportunità, in “Reti” n. 2 (1988) – Luisa Muraro, Tra forza e diritto, in “L’Unità” 17 nov. 1988 – Convegno del gruppo giuriste di Milano sul tema: Inadempienza dei padri e spazio di libertà per le donne, Palazzo delle Stelline

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