29 Ottobre 2015
Avvenire

Agacinski: «Il mio no da sinistra agli uteri in affitto»

di Daniele Zappalà

 

Sylviane Agacinski è una delle femministe più celebri di Francia. Saggista di spicco, ha fondato il Collegio internazionale di filosofia con Jacques Derrida, insegnando poi a lungo all’Ecole des hautes études en sciences sociales. Si dice «donna di sinistra», ma pure allergica, «come filosofa», ai rigidi steccati ideologici a cui tanti vorrebbero ricondurla, anche in quanto moglie dell’ex premier socialista e candidato all’Eliseo Lionel Jospin. Da anni, spende il suo impegno civile nella battaglia contro l’orrore della maternità surrogata: ha scritto il saggio Corps en miettes («Corpi sbriciolati», Flammarion), dà voce all’associazione Corp (Collettivo per il rispetto della persona), promuove petizioni francesi e internazionali (www.stopsurrogacynow.com). In esclusiva, rivela che il Parlamento francese ospiterà il 2 febbraio un convegno per l’abolizione universale dell’”utero in affitto”.

La questione della gravidanza surrogata è diventata il centro di un dibattito approfondito e aperto in Francia?
È un dibattito ricorrente e grave. Molti media si sono smarriti volendo vedere in questa pratica sociale un presunto progresso. Hanno parlato molto della felicità delle coppie che vogliono un bambino a ogni costo, al punto che si è radicata l’idea che esista un diritto al figlio, indipendentemente dai mezzi per farlo nascere. Nonostante questa propaganda, si comincia a comprendere, grazie a numerosi documentari, la violenza che rappresenta, per le donne, l’ingresso della maternità su questo mercato. Le cose si sono mosse in Francia negli ultimi anni, soprattutto a sinistra. Il Partito socialista ha condannato questa pratica a partire dal 2010. Il presidente della Repubblica François Hollande e il premier Manuel Valls hanno escluso qualsiasi legalizzazione della maternità surrogata in Francia.

Secondo lei, quali sono i principali rischi legati a questa pratica?
Non abbiamo a che fare con gesti individuali motivati dall’altruismo, ma con un mercato procreativo globalizzato nel quale i ventri sono affittati. È stupefacente, e contrario ai diritti della persona e al rispetto del suo corpo, il fatto che si osi trattare una donna come un mezzo di produzione di bambini. Per di più, l’uso delle donne come madri surrogate poggia su relazioni economiche sempre diseguali: i clienti, che appartengono alle classi sociali più agiate e ai Paesi più ricchi, comprano i servizi delle popolazioni più povere su un mercato neo-colonialista. Inoltre, ordinare un bambino e saldarne il prezzo alla nascita significa trattarlo come un prodotto fabbricato e non come una persona umana. Ma si tratta giuridicamente di una persona e non di una cosa.

Numerosi osservatori considerano che un’eventuale liberalizzazione rappresenterebbe un salto indietro in termini di civiltà. Cosa ne pensa?
La fecondazione in vitro e il trasferimento di embrioni rappresentano progressi tecnici. Ma fare della maternità un servizio remunerato è una maniera di comprare il corpo di donne disoccupate che presenta molte analogie con la prostituzione. È socialmente e giuridicamente retrogrado, certo.

La prospettiva di perseguire questa pratica a livello internazionale è concepibile?
La Francia e la maggioranza dei Paesi europei si confrontano con lo sviluppo del turismo procreativo e la domanda d’iscrizione allo stato civile dei bambini nati da madri surrogate in California, in Russia, eccetera. La Corte europea dei diritti dell’uomo tenta di forzare la Francia a trascrivere lo stato civile accertato all’estero in nome di un presunto interesse del bambino. Ma se gli Stati europei cedessero su questo punto incoraggerebbero cinicamente i propri cittadini a viaggiare per far uso di donne all’estero. Legittimerebbero la pratica, e in tal modo la loro legislazione nazionale non resisterebbe a lungo. Sì, occorre punire. Innanzitutto i professionisti che creano il mercato: avvocati, medici, agenti e intermediari. Poi, i clienti.

Ha intenzione d’impegnarsi ancora in questo dibattito?
Sì, assieme ad altri. Stiamo organizzando all’Assemblea nazionale il prossimo 2 febbraio le Assise per l’Abolizione universale della maternità surrogata («Assises pour l’Abolition universelle de la Gpa»). Vi parteciperanno ricercatori, parlamentari francesi ed europei e associazioni femministe. Occorre avere la volontà e il coraggio di difendere i valori fondamentali e i princìpi sui quali poggiano le nostre rispettive legislazioni. Se indietreggiamo davanti alla potenza dei mercati e cediamo alle pressioni in vista di una regolamentazione abbandoneremo le donne alla legge della domanda e dell’offerta e precipiteremo in società di mercato che riconosceranno solo i valori mercantili e nient’altro. Una prospettiva terribile.

Come interpreta le divergenze che la questione suscita fra personalità che si dicono femministe?
Certe femministe, di fatto molto minoritarie, difendono una presunta libertà delle donne di vendersi. In realtà, ciò equivale a sostenere la libertà di comprare le donne. Per quanto ci riguarda, vogliamo che la legge protegga tutte le donne dicendo che la loro carne non è una mercanzia.

Nei media si possono ascoltare solo molto raramente le parole delle donne che hanno accettato di procreare come madri surrogate. Come le immagina?
Penso che accettino un mercato crudelissimo, spinte dal bisogno, oppure dal marito, come avviene in India. Devono così sacrificare la loro intimità e la loro libertà. Non dimentichiamo che la vita personale di una madre surrogata è strettamente regolata e controllata: la sua vita sessuale, il suo regime dietetico, le sue attività… Durante nove mesi, vivono al servizio di altri, giorno e notte. Queste donne sono vittime di sistemi che non hanno contribuito a creare. Se il mercato della procreazione non fosse costruito da tutti quelli che vi traggono un lucro enorme, ovvero le cliniche, i medici, gli avvocati e le agenzie di reclutamento, a nessuna donna verrebbe mai in mente di guadagnarsi da vivere facendo bambini. Non sono le donne che occorre biasimare, sono gli Stati che non mettono nessun limite ai mercati.


(Avvenire, 29 ottobre 2015)

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