11 Marzo 2013
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Agatha Christie e le altre

di Chiara Prezzavento

Gli anni d’oro della produzione giallistica femminile

Tra il 1890 e il 1904, l’Inghilterra conobbe uno specifico genere di fertilità: in quella decade e mezza nacquero ben sei future gialliste: le quattro Queens of Crime e due, chiamiamole così, gentildonne soprannumerarie alla corte del giallo inglese classico. È bizzarro immaginarsele piccole, una mezza dozzina di bimbe in pinafores postvittoriani o uniformi scolastiche con la paglietta, nate da famiglie di varia middle class, sparse per le isole britanniche, con un’eccezione nei pur britannicissimi antipodi della Nuova Zelanda, tutte destinate a scrivere di crimini e delitti, cominciando tra gli anni venti e i trenta.

 

Agatha ChristiePerché in genere si dice “giallo classico” e si pensa alla decana del sestetto, Dame Agatha Christie, l’autrice più venduta di tutti i tempi. Si pensa alla sua Inghilterra di pandi- zenzero, fatta di grandi magioni, alberghi londinesi, viaggi in treno e villaggi di campagna, con la minaccia in agguato tra carte da bridge e siepi di biancospino. E si pensa ai suoi solutori di enigmi: l’investigatore privato belga Poirot, tanto buffo quanto formidabile, e la vispa, sferruzzante, impiccioncella Miss Marple, l’outsider (che capisce l’Inghilterra) e l’inglesissima.

 

Ma l’abbiamo detto: Dame Agatha non è l’unica della sua specie, e Poirot e Miss Marple sono due membri di un ideale club di investigatori di carta, gente acuta che per professione, profitto, caso, hobby o amor di verità dipana trame omicide troppo intricate per il poliziotto medio. Sono tutti fini osservatori, i membri del club. La loro forza risiede nella conoscenza dell’animo umano e dei meccanismi sociali che l’animo umano viola nel delitto; e questa conoscenza la possiedono per una commistione d’ingegno e opportunità privilegiata. In altre parole, se si eccettuano le creature di Christie, questo è un club per gentiluomini britannici, diviso tra aristocratici eccentrici e poliziotti di buona famiglia.

 

Nella prima categoria ricade a pieno titolo il Lord Peter Wimsey di Dorothy L. Sayers, forse la più letteraria del gruppo, accademica oxfordiana, amica degli Inklings e traduttrice di Dante. Il suo Lord Peter è figlio cadetto e pecora nera di famiglia ducale. Fascinoso e ciarliero, nasconde una mente aguzza dietro un’apparenza leggermente fatua, come una sorta di Primula rossa investigativa. Coinvolto per caso nel furto di una collana di smeraldi, si scopre gusto e talento per l’indagine, hobby che avrà modo di coltivare in quattordici romanzi e numerosi racconti, assistito dal fedele valletto/sergente Bunter, dall’ispettore Parker di Scotland Yard e dalla giallista Harriet Vane.

 

Se Lord Peter ha un difetto, è forse un eccesso di perfezione, tanto che Margery Allingham, rampolla di una famiglia di giornalisti londinesi, partì con l’intento di parodiarlo quando creò il suo Albert Campion. Anche Campion vanta sangue blu, tanto blu da comportare parentele a Buckingham Palace e richiedere uno pseudonimo per il lavoro investigativo. Anche Campion è distinto, biondiccio e ottuso solo in apparenza; anche Campion ha un valletto improbabile, nientemeno che uno scassinatore (quasi) redento; anche Campion è stato incoraggiato sulla via della perdizione sociale da un’aristocraticissima nonna; anche Campion lavora con un uomo di Scotland Yard, anzi due uomini di Scotland Yard traboccanti di ammirazione. Dopodiché, però, le storie di Allingham abbandonano il campo del mystery propriamente detto per sconfinare nell’avventura, con Campion (verrebbe da dire nomen omen, se non fosse che questo significativo nomen se l’è scelto lui…) che prende sotto la sua ala protettrice l’innocente di turno. La ricerca degli indizi passa in secondo piano, oscurata dall’audacia e dai lampi di intuizione preternaturale del segugio.

 

Ngaio MarshTutt’altra faccenda, invece, quando il protagonista/investigatore diventa un ufficiale di Scotland Yard, come il Roderick Alleyn della neozelandese Ngaio Marsh. Coloniale trapiantata e teatrante di professione, Marsh costruisce i suoi gialli come altrettanti drammi – spesso e volentieri ambientati a teatro, sfondo del resto tutt’altro che inconsueto anche tra le sue colleghe – e in genere bilancia il gusto del colpo di scena con meccanismi logici non del tutto irrisolvibili. Le luci della ribalta spettano sempre all’ispettore capo Alleyn, figlio minore di un baronetto, fratello del governatore delle Fiji, educato a Oxford e con un passato da militare e diplomatico. Il fatto di essere colto e raffinato e a suo agio in tutte le sfere sociali rende Alleyn un ammirabile enigma per i suoi sottoposti e una consolazione per i suoi superiori, ma nulla toglie alla sua energia e capacità deduttiva. E sì, nei primi romanzi in particolare, tutta questa levigata onnicompetenza può riuscire irritante, finché non ci ricordiamo di avere davanti l’incarnazione di un cliché di genere, quello del gentleman detective che tutto affronta e di nulla si scompone. Poi, con il passare delle indagini, personaggio e autrice maturano insieme, e Alleyn acquisisce una personalità meno convenzionale e più attraente.

 

Ma d’altra parte, se di cliché dobbiamo parlare, si sa che l’eroe onnicompetente è un’eredità che la narrativa di genere ha raccolto da Omero e dai poemi cavallereschi, e il fatto di essere un gentiluomo viene in dotazione standard con questo genere di caratterizzazione. E quindi, anche nell’uscire dal ristretto circolo delle regine per accostarci alla minor royalty del giallo, ritroviamo gli stessi tratti nell’ispettore Alan Grant, creato dalla scozzese Josephine Tey. Tey era un’insegnante di ginnastica, un’autrice teatrale, una biografa di pittoreschi generali seicenteschi. E poi scriveva gialli, e c’è da chiedersi perché sia considerata minore. Le sue storie sono ben scritte, divertenti, psicologicamente acute e spesso originali. In particolare il bellissimo The Daughter of Time (La figlia del tempo), capostipite dell’armchair detection, o indagine da poltrona, dovrebbe bastare a meritarle una corona. E poi il distinto e intelligente Grant è una specie poster boy programmatico della categoria: il continuo stupore dei personaggi che “non l’avrebbero mai creduto un poliziotto” è una cospicua e ricorrente strizzatina d’occhio al lettore.

 

Georgette HeyerParagonato a Grant, il sovrintendente Hannasyde di Georgette Heyer è un po’ palliduccio. Certo, anche lui cita Shakespeare, è di buona famiglia, e il suo superiore lo chiama per nome perché hanno studiato nella stessa scuola. Anche lui è un gentiluomo, solo che è un gentiluomo scontato e un po’ bidimensionale, inserito in un mondo di personaggi scontati e un po’ bidimensionali, all’interno di storie scontate e un po’ convenzionali. Il giardiniere, nella dispensa, con la mazza da cricket… Va detto, però, che i gialli non erano il mestiere di Heyer, prolifica autrice di regencies, che in Italia escono come romanzi rosa, ma in realtà sono documentatissime comedies of manners in costume. I gialli avevano fini commerciali, e può darsi che non le interessassero granché; eppure si riscattano con l’osservazione, aguzza ai limiti della causticità, di vita, maniere e pregiudizi nei villaggi della campagna inglese. Ci sono il tè delle cinque, i tennis parties, i colonnelli in pensione in giacca di tweed…

 

 

Ma, d’altra parte, è anche per questo che leggiamo le gialliste della Golden Age. Per l’enigma, ma anche per l’illusione di questa Inghilterra in parte immaginaria, verde, rituale e un po’ snob, con il brivido dell’assassino nascosto sotto la placida superficie. Dove poi, però, rassicurante e affidabile, arriva sempre il Gentiluomo Dalla Mente Aperta che, come uno spirito della buona vecchia Inghilterra, capisce tutto, agisce e ristabilisce l’ordine nel più rassicurante e britannico dei modi.

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