1 Dicembre 2012

Andrea-la-virile

Silvia Baratella

Ho appreso da entusiastici comunicati di associazioni di donne rimbalzati sul mio computer che la corte di cassazione, con la sentenza n. 20385 del 20 novembre 2012, ha cassato una precedente sentenza della corte d’appello di Firenze, che imponeva alla bambina di una coppia di Pistoia di anteporre il nome “Giulia” a quello scelto per lei dai genitori, “Andrea”.

La sentenza della corte d’appello si basava su una norma di legge che vieta di imporre a bambine e bambini nomi “ridicoli o vergognosi” e che impone la corrispondenza del nome al sesso1, «al fine di escludere che un profilo di indubbio rilievo della propria identità come il genere possa essere posto in dubbio o ingenerare ambiguità incidenti sul rispetto della dignità personale».

La cassazione rimprovera alla corte d’appello di non aver tenuto conto delle recenti disposizioni che permettono di estendere i nomi da attribuire a bambine e bambini ai nomi stranieri, purché scritti in alfabeto latino. “Andrea” in effetti esiste come nome femminile in diverse lingue, perciò il risultato a cui è giunta la sentenza di per sé sarebbe comprensibile.

Meno comprensibile è la logica delle motivazioni.

«L’art. 34, secondo comma [del d.p.r. 396/2000, N.d.R.], consente la scelta di nomi stranieri mutuati da vocabolari onomastici del tutto estranei alla nostra tradizione che presentano una formulazione letterale tale da non consentire un’agevole collocazione nel genere maschile o femminile o da avere un carattere sessualmente neutro [grassetto mio]», recita la sentenza, per poi affermare che «Il nome Andrea è usato al femminile in molti stati membri dell’Unione (Slovacchia, Inghilterra, Spagna, Germania, Olanda, Danimarca e Ungheria)» e, più oltre, che «in virtù della valenza assunta in molti paesi europei, dovrebbe essere ritenuto sessualmente neutro, secondo la lingua italiana [grassetto ancora mio], e conseguentemente attribuibile anche ad una persona di sesso femminile». Infine, le giudici autrici della sentenza scrivono: «Il nome Andrea in numerosi contesti nazionali stranieri europei (Slovacchia, Inghilterra, Spagna, Germania, Olanda, Danimarca ed Ungheria)ed extraeuropei (in particolare gli Stati Uniti) ha una valenza biunivoca, potendo essere indifferentemente utilizzato per soggetti femminili e maschili [grassetto mio]».

Ora, per prima cosa, mi sembra impossibile definire “neutro” un nome destinato a esseri umani che per forza di cose sono o donne o uomini. “Neutro” deriva da una parola latina che vuole dire “né l’uno né l’altro”. Peraltro, i sostantivi latini di genere neutro avevano desinenze diverse sia dal femminile, sia dal maschile, non erano parole uguali al femminile e al maschile. E anche nelle lingue vive che hanno gli stessi tre generi (il tedesco, per esempio), il neutro ha caratteristiche che lo contraddistinguono dagli altri due generi (come gli articoli determinativi tedeschi der, maschile, die, femminile e das, neutro). Nelle lingue in cui esistono formulazioni in cui non è identificabile il sesso del soggetto di cui si parla, il genere si definisce “indeterminato”, non “neutro”.
Un nome che può invece essere usato sia al maschile che al femminile, si definisce “ambigenere”, ovvero “che vale per tutti e due i generi”.

Trovo quindi inadeguata e surreale la pretesa di definire “neutro” il nome Andrea.
Definiamolo ambigenere, allora. Se davvero può “essere indifferentemente utilizzato per soggetti femminili e maschili”, come per esempio il nome francese Dominique, è certamente ambigenere. Ma è poi vero?

Ho fatto una piccola ricerca, limitata alle lingue dei sette stati membri dell’Unione citati dalla sentenza. In tutte esiste effettivamente il nome femminile “Andrea”. Al maschile invece in nessun caso è prevista la forma “Andrea”. Ecco i risultati che ho trovato sul fronte maschile nelle sette diverse lingue: in slovacco, Andrej e Ondrej; in inglese, Andrew; in spagnolo, Andrés; in tedesco, Andreas; in olandese, Andries o Andreas; in danese, sempre Andreas ma anche Anders; in ungherese, ben tre varianti, András, Andor, ed Endri, ma di Andrea nessuna traccia.
“Andrea” è dunque un nome o solo maschile, o solo femminile, a seconda della lingua. Peraltro, in italiano ha anche una forma femminile: Andreina. In nessuna lingua ha “valenza biunivoca”.

I genitori della bambina ci tenevano a darle un nome straniero, d’accordo. Perché no? Ce ne sono alcuni la cui forma italiana è ostica ma di cui esistono versioni straniere più affascinanti. Spesso vengono scelti nomi stranieri per bambine italiane, come gli spagnoli Carmen e Dolores, i francesi Chantal, Désirée o Denise (gli ultimi due spesso massacrati da ortografie improbabili), ma il sesso di chi li porta è inequivocabile.
Mi fa specie l’idea di ricorrere in giudizio fino all’ultimo grado per dare alla propria figlia un nome che le procurerà un sacco di equivoci spiacevoli e problemi amministrativi di ogni tipo, per non parlare degli scherzi più o meno pesanti. Per fortuna che non c’è più la leva obbligatoria, altrimenti la nostra piccola Andrea avrebbe potuto ricevere la cartolina di precetto, come in passato ad altre malcapitate portatrici di nomi tradizionalmente maschili o poco diffusi ed equivocabili.

Ma mi fa ancora più specie l’entusiasmo di gruppi di donne che hanno festosamente ripreso e diffuso la notizia presentandola come una conquista. “Andrea” è un nome di origine greca, deriva dalla parola aner, genitivo andrós, che “indica l’uomo con riferimento alla sua mascolinità”.
Perché mai dovremmo aspirare tanto al “diritto” di chiamare nostra figlia “maschio” o “virile”?

1. d.p.r. 396/2000, artt. 34 e 35

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