2 Luglio 2015
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ARCHITECTURE OF IMPERMANENCE: NOTES FROM PALESTINE

di Francesca Recchia

Arriviamo tardi, quando il sole sta per calare e la luce calda del tramonto si riflette sulle pietre bianche degli edifici. Ayat Alturshan ci aspetta nella piazza di Al Fawwar, un campo rifugiati a sud dei territori Occupati e non lontano da Hebron. Alturshan è una giovane attivista il cui impegno per il diritto delle donne allo spazio pubblico ha inaspettatamente cambiato il voto al campo. Avevo sentito parlare di lei dall’architetto palestinese Sandi Hilal e la sua storia mi aveva incuriosito.

Alturshan ci aspetta in un angolo della piazza insieme ad un gruppo di dodici donne sedute in circolo su delle sedie di plastica beige. Alturshan ha ventotto anni mentre le altre sono sulla quarantina e indossano veli colorati e lunghe tuniche ricamate. Mentre accolgono me e Sandi Hilal con vigorose strette di mano e molti baci per ogni guancia, appaiono più sedie, così che anche noi possiamo sederci e prendere parte alla conversazione. Appena ci sistemiamo, ci dicono di spingere le sedie un po’ indietro per rendere il cerchio più ampio e occupare più spazio nella piazza che, dietro di noi, brulica di attività con adolescenti che giocano a calcio e bambine sfrecciano sui tricicli mentre altri giocano a nascondino. L’atmosfera è allegra e festosa e il nostro angolo di piazza sembra un salotto. Le donne sorridono e conversano, mi domandano se sono sposata e scuotono la testa quando rispondo di no. Una delle signore seduta di fronte a me, mi indica e ride. Quando le domando perché, mi dice: “Sei identica alla mia vicina di casa, meno l’hijab ovviamente!”
La conversazione è scandita da un banchetto festoso di bibite e dolci. Mentre parliamo, le donne portano fuori dalle cucine di casa vassoi, ciotole, bicchieri e tazze. Ci offrono caffè al cardamomo e datteri, soda e biscotti al cioccolato,e per finire un tè dolcissimo con la menta fresca. Le donne vivono la piazza con una sorprendente padronanza. “Non è affatto scontato”, ci dicono. “ Una riunione come questa sarebbe stata impensabile anche solo un anno fa. La piazza e la determinazione di Ayat lo hanno reso possibile.”
Seduta nella piazza di Al-Fawwar, mi guardo intorno incredula e sorpresa da ciò che sto vivendo. Sono stata qui per la prima volta nel 2008 con Sandi Hilal e, quella che adesso è la piazza, era uno spazio conteso con baracche cadenti, macerie e macchine parcheggiate ovunque. Difficile pensare che questo posto pulito e ben organizzato che oggi accoglie la convivialità pubblica femminile sia lo stesso spazio di desolazione dei miei ricordi.

Al-Fawwar è un campo che ospita quasi settemila rifugiati dalla guerra del 1948. Negli anni, le famiglie si sono appropriate di ogni spazio disponibile e fino a poco tempo fa mancava un luogo dove le persone potessero incontrarsi, o riunirsi per matrimoni e funerali, o dove le donne potessero socializzare. La popolazione del campo è per lo più conservatrice e la presenza delle donne in pubblico non è vista di buon occhio.
La piazza di AL-Fawwar è un’esperienza unica nella storia dei campi rifugiati palestinesi ed è il risultato di anni di resistenza, mediazioni all’interno della comunità e negoziazioni tra gli abitanti e la United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East (UNRWA). Sandi Hilal, che fino all’anno scorso era direttore dell’UNRWA Camp Improvement Program, ha pensato e disegnato la piazza con il suo team. Dopo aver lasciato le Nazioni Unite, è rimasta in contatto con la comunità di Al Fawwar e, in collaborazione con l’architetto Alessandro Petti, la piazza è diventata uno dei nodi principali della loro ricerca sul ripensamento del ruolo che l’architettura gioca nella situazione permanentemente temporanea dei campi profughi .

Secondo una stima del 2010 dell’UNRWA, i rifugiati palestinesi registrati sono 5 milioni e di questi circa 1.3 milioni vive nei campi. Esuli da quasi tre generazioni, i rifugiati palestinesi hanno costruito una parte importante della loro identità sul loro diritto al ritorno. La loro esistenza sia fisica che politica è radicata nell’idea che prima o poi potranno tornare nei loro villaggi d’origine ed è per questo che ogni intervento esterno mirato a consolidare la loro situazione è percepita come un possibile rischio di normalizzazione. Come gesto simbolico e politico, i rifugiati conservano ancora le chiavi delle proprie case e per anni hanno scelto di non costruire completamente il tetto delle loro nuove case quasi a voler dichiarare la dedizione al diritto al ritorno e la precarietà della loro sistemazione corrente.
Nella retorica globalizzata degli aiuti umanitari, la miserabile situazione di vita dei rifugiati è utilizzata come evidenza della condizione di vittime e della loro mancanza di capacità di azione politica. I programmi di aiuto hanno spesso come obiettivo primario quello della risposta immediata: forniscono riparo e reagiscono ai bisogni immediati delle singole famiglie: una tenda, un bagno comune e delle provviste di cibo. Il campo è percepito come un microcosmo di singolarità invece che come una comunità che condivide una storia umana e politica. Questo modo di considerare la questione dei rifugiati meramente come problema umanitario è limitante ed ha generato un’emergenza lunga sessantasette anni, che ha congelato il campo in una sorta di eterno presente. Questa dimensione di eccezionalità ha di conseguenza marginalizzato il ruolo dell’architettura confinandola nella manutenzione e nella progettazione di infrastrutture (pavimentazione e fogne) limitando la possibilità di immaginare e realizzare spazi pubblici e comuni.
Per Sandi Hilal e Alessandro Petti, da architetti e urbanisti, questa interpretazione limitata è diventata la fonte del loro lavoro. Come può un architetto relazionarsi alle costruzioni dei campi senza mettere in discussione o delegittimare il diritto al ritorno? Come si può coinvolgere la comunità nel miglioramento delle condizioni di vita attraverso interventi nello spazio fisico che siano politicamente sostenibili e ideologicamente accettabili? Per Hilal e Petti la retorica consolidata che intende i rifugiati come passivi e bisognosi di aiuto è da contestare. Per Alessandro Petti “è’ proprio la condizione di temporaneità prolungata di questo luogo che ha paradossalmente posto le basi per la sua trasformazione: da spazio dell’aiuto umanitario a luogo politico attivo, è diventato l’incarnazione e l’espressione del diritto al ritorno.”
Per mettere alla prova le loro idee, Hilal e Petti hanno fondato Campus in Camps, un’università sperimentale, nel campo di Dheisheh a Betlemme, che si fonda sui principi di partecipazione, apprendimento contestuale e pedagogia critica. Il loro lavoro, fondato sul disimparare i pregiudizi e reimparare dalle evidenze sul campo è stato accettato dalle comunità locali poiché incoraggiano una mentalità diversa dall’approccio delle ONG. Hilal e Petti hanno capito che un approccio umanitaristico non garantisce risultati consolidati né favorisce credibilità ed hanno quindi scelto una relazione e un impegno di lungo periodo con la comunità fondato un comune senso di appartenenza. Lavorando con studenti di università sia locali che internazionali, Campus in Camps ha concepito un approccio che si confronta direttamente con la realtà dei campi e si radica nel dialogo con residenti e attivisti.

La piazza di Al Fawwar nasce su questo terreno concettuale ed è una delle iniziative centrali di questo percorso educativo. Hilal racconta che all’inizio l”idea della piazza era stata ricevuta con grande resistenza e scetticismo: “Quando abbiamo solo accennato alla parola piazza, le persone nel campo sono impazzite. Questa parola generava una specie di allarme rispetto alla permanenza del campo e all’abbandono del sogno del ritorno.” In un contesto conservatore come quello del campo, ci sono voluti tre anni e mezzo di discussioni e modifiche per realizzare la piazza che oggi rappresenta una grande fonte di orgoglio per tutta la comunità. La lunga negoziazione sul design del progetto è stata un’occasione di vivace dibattito all’interno della comunità, sia tra diverse generazioni che tra donne e uomini. Alla fine, la piazza ha preso la forma di una casa senza il tetto: uno spazio aperto, ma riservato che permette in particolare alle donne di stare fuori senza essere esposte allo sguardo degli estranei. La comunità alla fine si è innamorata del progetto e le resistenze iniziali sono svanite quando hanno iniziato ad arrivare delegazioni da altri campi – compresi quelli di Talbieh e Hus’n in Giordania – per visitare la piazza come possibile modello da replicare.
Dopo il tramonto, le donne tornano a casa in gruppo. Noi seguiamo Ayat Alturshan verso la parte alta del campo, andiamo nella casa dove vive con la sua famiglia, un edificio a due piani coperto dalla tradizionale pietra bianca palestinese e circondato da un giardino ben curato. Tre ulivi molto antichi, aiuole e dei grandi cespugli di salvia e menta sgretolano l’immagine degli avvilenti accampamenti di rifugiati bisognosi.
Ci sediamo sotto gli alberi, sorseggiamo sorbetto di guava fatto in casa e mangiamo frutta fresca. Ayat Alturshan è stata una delle prime studentesse di Campus in Camps e l’attivazione della piazza è stato il suo compito all’interno del programma. “Come donna che appartiene a questo campo e a questa comunità mi sono spesso sentita limitata e costretta nei movimenti e sapevo che anche altre donne si sentivano nello stesso modo. Ho pensato che si poteva riuscire ad andare oltre la tradizione e dare alle donne il diritto di stare all’aperto, incontrarsi, prendere un po’ d’aria fresca e di vitamina D. Campus in Camps mi ha dato l’opportunità di mettere in pratica quello che ho sempre desiderato fare. Sono stata fortunata che la mia famiglia mi abbia sostenuto.”
L’idea di Ayat Alturshan è tanto semplice quanto radicale: portare fuori le attività ordinarie che le donne di solito fanno nello spazio protetto della casa. Come primo evento è stata organizzata in piazza una giornata di cucina collettiva a cui le donne sono state invitate per preparare insieme il maftoul, un piatto tradizionale palestinese simile al couscous. All’inizio sia gli uomini che le donne erano scettici, pensando che un’iniziativa simile avrebbe potuto danneggiare la moralità delle donne e mettere loro strane idee nella testa. Ma Alturshan non si è lasciata intimorire, ha respinto ogni accusa e di contro ha deciso di incontrare gli anziani della comunità e le autorità religiose per invitarli a partecipare. L’evento di cucina è andato così bene che da quel giorno vedere le donne in piazza che bevono il caffè è una cosa consueta e la piazza è anche usata per varie attività compresa la ginnastica mattutina.
Umm Mahmoud, che è seduta con noi nel giardino di Ayat Alturshan, ha formato un gruppetto di donne diabetiche, e dice che rivendicare lo spazio della piazza le ha dato la possibilità di incoraggiare le donne a fare attività fisica e a prendersi cura della propria salute. “Grazie all’aiuto di Ayat adesso vogliamo organizzare in piazza un a giornata dedicata alla sensibilizzazione sul diabete. Ayat è più giovane di noi, ma a noi non dispiace darle retta visto che ci ha aiutato ad uscire di casa. La piazza è una vera benedizione e ha cambiato le nostre vite.”
Prima di andare via, chiedo ad Alturshan se senta il peso di una tale responsabilità. “Ma no” risponde. E poi, con un sorriso soddisfatto aggiunge: “Non mi ero resa conto che questo mi avrebbe trasformata in una specie di rivoluzionaria”

Francesca Recchia è una ricercatrice e scrittrice indipendente che vive a Kabul, Afghanistan. In passato ha scritto e insegnato in Kashmir, Iraq, Afghanistan, Pakistan, Palestina. Si occupa della dimensione geopolitica dei processi culturali e negli ultimi anni si è concentrata sulle pratiche creative e le trasformazioni urbane nei paesi in conflitto. Il suo lavoro si fonda su un approccio interdisciplinare che combina studi urbani, visivi e culturali. Francesca è stata Research Associate presso il Centre of South Asian Studies (SOAS, London) Postdoctoral Research Fellow presso la Bartlett School of Planning (University College of London), ha un PhD in Cultural Studies presso l’Università degli studi di Napoli L’Orientale e un Masters in Visual Cultures presso il Goldsmiths College (University of London). E’ Visiting Lecturer presso l’ Università Bocconi di Milano. Francesca è autrice dei libri: The Little Book of Kabul: (con Lorenzo Tugnoli), Picnic in a Minefield e Devices of Political Action: Collective Towns in Iraqi Kurdistan (con un photo-essay di Leo Novel). Vive a Kabul, dove è stata direttrice del quarto Afghanistan Contemporary Art Prize.
Seguitela su Twitter su @kiccovich.

Articolo in lingua originale:

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