8 Febbraio 2020
#VD3

Ascoltiamo

di Gigliola Mendes

Nel XIX secolo, nel Triangolo Minerario del Brasile, la mia trisavola fu catturata al lazo da un “pioniere” proveniente dalle zone più occidentali del paese, nel corso di un esperimento tardivo di esplorazione del territorio, in una nazione costruita con azioni violente di invasione e genocidio. Esplorare l’interno del paese, in quel momento, aveva l’obiettivo di colonizzare il territorio espropriando i popoli originari, principalmente a fini di sfruttamento minerario o per catturare la popolazione stessa e gli schiavi africani fuggiaschi e ridurli nuovamente in schiavitù, oppure di espellerli, e nella maggior parte dei casi per sterminare quelli che facevano resistenza all’assimilazione culturale, alla schiavizzazione e all’invasione dei loro territori ancestrali. 

Affinando lo sguardo e pensando da una prospettiva femminile, le azioni di esplorazione del territorio significavano anche ripetute aggressioni sessuali, sequestri, stupri, matrimoni forzati e/o prostituzione e, in ciascuno di questi casi, le donne venivano spogliate delle loro vite, storie e comunità. Esse venivano sottratte a una vita comunitaria in cui possedevano poteri e saperi indiscussi, concretizzati in relazioni di grande prossimità e intimità con la natura e con il territorio. 

L’affermazione che sto facendo non è un tentativo ingenuo e reazionario di identificare un presunto stato di natura o un passato idilliaco del territorio brasiliano prima che venisse invaso e quindi trasformato in repubblica federale attraverso un golpe militare. Viene invece dall’eredità della mia trisnonna che, nonostante le sue radici fossero state violentemente recise (lo sterminio fisico delle tribù del Brasile centrale è verificabile da molti dati e documenti storici), non le dimenticò mai e le trasmise attraverso innumerevoli gesti quotidiani, e modi di essere e di vivere, alle donne che generò e che le succedettero, come la mia bisnonna. Mia nonna e le mie prozie prima, mia madre e mia zia ancora oggi, hanno applicato e condiviso con molta naturalezza saperi e pratiche di relazione con la terra e di rispetto della natura che rivelano un’intimità con l’agricoltura, con i cicli delle stagioni, con la medicina delle erbe, con una cucina e un’alimentazione basate sulle specie tipiche dell’ecosistema locale. Oltre a ciò, avevano un’autonomia e un’autorità femminile poco consone al ruolo destinato alle donne delle loro successive epoche, o meglio alle donne bianche, borghesi o di classe media. Perché le mie antenate, per quanto non smettessero (o non smettano) di svolgere i ruoli socialmente accettati, lo facevano con ampi margini di sovversività, distanti com’erano dalla “bianchitudine” e dalla classe economica dominante. Nell’opera Le peregrinazioni di una paria (a cura di Graziella Martina, Pavia, Ibis, 2003), la pensatrice franco-peruviana Flora Tristan racconta come, mentre si trovava in Perù per rivendicare l’eredità del suo nobile padre peruviano, osservò la libertà con cui le donne andine si esprimevano e occupavano spazi inconcepibili per le donne con cui lei conviveva in Europa, sottoposte alla morale vittoriana dell’epoca. Il che significava la pratica di un’altra etica sessuale e un ruolo sociale che era impossibile non notare, nonostante tutto il controllo giudaico-cristiano esercitato sui loro corpi. 

Le donne brasiliane che vivono in campagna, sui fiumi, nella foresta, e anche molte di quelle che oggi vivono in città, manifestano ancora quella libertà e autonomia delle mie antenate e praticano saperi degli amerindi e dei quilombo [popolazioni discendenti dagli schiavi africani, NdT]. E abbiamo molto da imparare dalla forza delle donne che resistono allo sfruttamento minerario imposto dal capitalismo internazionale e alle pratiche cruente di colonizzazione che mette in atto da più di cinque secoli.

Questa capacità di resistenza si traduce in saperi con cui affrontano le successive crisi e le conseguenti derive autoritarie che sono così ricorrenti nel capitalismo e i molti danni sociali e ambientali che ne derivano. Un detto popolare delle donne del nord dell’Amazzonia brasiliana sintetizza questa capacità di costruire e preservare storicamente la conoscenza, ai margini dei valori egemoni della civiltà, grazie alle loro grandi capacità di organizzazione, lotta e resistenza: «Le donne sono come i fiumi, crescono quando si incontrano tra loro».

Un incontro con una potenza non solo in senso letterale, di condivisione politica dei corpi in presenza, ma anche in senso simbolico e politico transgenerazionale. Nella divisione sessuale del lavoro presso le società tradizionali, sono state le donne le guardiane di altri immaginari o di modi di vita, alternativi al capitalismo estrattivo dominante che ci ha condotte all’attuale crisi sociale, ambientale e climatica. Questo perché loro sono responsabili della conservazione e della riproduzione delle cosiddette ‘sementi creole’, cioè sementi biologiche che richiedono una conoscenza approfondita dell’ecologia, per evitare che le specie coltivabili esistenti nei loro territori si estinguano a causa delle avvenute trasformazioni delle condizioni ambientali e dell’avvelenamento del suolo. 

Sono le donne le responsabili della trasmissione ereditaria dei semi, il che simbolicamente significa trasmettere la possibilità di esistenza futura. E per questo padroneggiano saperi e pratiche tradizionali e sviluppano tecnologie biologiche capaci sia di preservare la biodiversità della flora (e di conseguenza anche della fauna), sia di permettere che la natura rinnovi il suo ciclo vitale. Esse sono dunque le depositarie di un sapere e di una funzione sociale cruciale per la cura della vita: il potere concreto di far germogliare tutto ciò che è vivo e coltivabile grazie a metodi ancestrali di lavorazione e di rispetto dei tempi e dei cicli naturali, reagendo al controllo e alla dipendenza imposti dalle multinazionali produttrici dei veleni funzionali all’agricoltura capitalistica.   

Ma queste conoscenze tradizionali sarebbero capaci di oltrepassare i confini dei propri territori per indicare strade globali da seguire per il superamento dell’attuale crisi di sistema? E perché dovrebbe avere qualche valore ispirarsi a modi di vivere considerati prescientifici? Non è forse una mera utopia pensare alla possibilità di costruire una società su basi altre, ispirate ai saperi tradizionali di cui sopra? Sono molte le domande da porsi sulla necessità urgente di trovare strade che permettano la sopravvivenza del pianeta e di tutte le sue specie. Abbiamo protestato, creato icone, cercato altre forme di organizzazione sociale, altri tipi di relazioni, altre abitudini quotidiane e altri valori. Abbiamo messo in discussione i principi su cui si fonda la “democrazia” capitalista – la sua necropolitica e i danni che fa alla natura – e approfondiamo la riflessione per tentare di andare verso una democrazia, ancora utopica, socialmente giusta nei confronti di tutti i modi di vivere. 

Tuttavia, cercando possibili soluzioni per i tanti problemi che il nostro modo di vita devastante ci ha lasciato in eredità, ci mettiamo ancora in una postura di presa di distanza, di astrazione e di oggettivazione della natura, come se dovessimo inventare o reinventare tutto d’autorità per “salvare” il pianeta. E quindi creare delle risposte, nuove e “scientifiche”, possibilmente da imporre come verità, ignorando le molte alternative che già esistono, che resistono e continuano a essere erose o a restare inascoltate a causa della sordità che la modernità e lo scientismo capitalista ci ha instillato.

Forse è per questo che noi cittadine e cittadini della società capitalista, in quanto soggetti storici di questa crisi, ricopriamo o il ruolo di riprodurre il pessimismo, lo scetticismo e la certezza che non ci siano alternative a questo modello di sviluppo, oppure quello di attori di una trasformazione sociale autoritaria, portatori pretenziosi di teorie sull’unica storia possibile e di pretese soluzioni salvifiche. Invece forse quello di cui c’è bisogno è uno sforzo nuovo, individuale e collettivo, per guardare e ascoltare ciò che sembra essere nascosto: i tanti saperi e le tante relazioni che già esistono in varie parti del mondo, derivate da una grande prossimità e da una conoscenza ancestrale dell’immenso e variegato territorio che abitiamo. E diventare così capaci di superare l’idea che le strategie e le alternative debbano essere reinventate da zero, ignorando gli innumerevoli modi di vivere che per secoli hanno rappresentato un altro modo di relazionarsi tra umanità e natura. 

Ci sono persone «capaci di resistere, a modo loro, a un colonialismo che dura da più di cinquecento anni, e di immaginare un futuro diverso che potrebbe contribuire molto ai grandi dibattiti mondiali» (Acosta, 2015, pag. 20). Ascoltiamo le voci dei popoli delle foreste, delle rive dei fiumi e dei mari, dei campi. Ascoltiamo la relazione millenaria delle donne indigene con la natura, la relazione tra il femminismo e l’ecologia. Ascoltiamo le donne indigene, le donne contadine, le donne quilombo e tutte quelle che si richiamano alla prospettiva del Buen Vivir. Non possiamo più permettere che ci tolgano la nostra capacità di immaginare. Ascoltiamo!

Possiamo, fin da ora, stimolare riflessioni più approfondite e proporre vie d’uscita concrete, attraverso la prassi femminile e femminista, per i cambiamenti climatici che minacciano il nostro futuro. Questo significa smettere di ignorare l’eccellenza, la sapienza e la simbologia retaggio di tante donne – come la mia trisavola e le sue discendenti -, che sono corpo, desiderio, lotta e capacità di trasformazione. Sono state e sono capaci di preservare la vita, la cultura, le civiltà. Sono resistenza e alternativa per costruire e vivere altri mondi, una volta che il loro protagonismo, legato o meno al femminismo, affronta gli effetti nefasti dei cambiamenti climatici il cui fondamento è l’ideologia dello sviluppo a tutti i costi, opprimente mito moderno del progresso.



Bibliografia


ACOSTA, Alberto, Buen Vivir – Sumak Kawsay – Una oportunidad para imaginar otro mundo, ed. Icaria, Barcelona 2013; trad. port.: O bem viver: uma oportunidade para imaginar outros mundos, Ed. Elefante, São Paulo 2011.

MANO, Marcel, Índios e negros nos sertões das minas: contatos e identidades, ed. Varia História, Belo Horizonte, vol. 31, n. 56, pag. 511-546, maggio/agosto 2015.

TRISTAN, Flora, Le peregrinazioni di una paria, a cura di Graziella Martina, IBIS, Pavia 2003; originale: Pérégrinations d’une paria, ed. Actes Sud 2004; trad. port. Peregrinações de uma pária, ed. Edunisc, Santa Cruz do Sul, 2000.

(traduzione di Silvia Baratella)

(www.libreriadelledonne.it, #VD3, 8 febbraio 2020)



ORIGINALE: 



No século XIX, na região do Triângulo Mineiro, minha tataravó foi capturada ao laço (laçada) por um homem “desbravador” advindo de regiões mais a oeste do Brasil, já em iniciativas tardias de desbravamento para exploração do território, em uma nação que foi constituída por ações violentas de invasão, exploração e genocídio. Desbravar o interior do país, nesse momento, tinha como objetivos ou se apropriar do território de povos originários, principalmente para fins de mineração, ou capturar esses mesmos povos e também os africanos escravizados, que haviam escapado do cativeiro, para serem (re) escravizados, ou ainda expulsar, e na maioria das vezes também assassinar, aqueles que resistiam à assimilação cultural, à escravização e à invasão de seus territórios ancestrais. 

Refinando o olhar e pensando por uma perspectiva das mulheres, as ações de exploração dos territórios também significavam reiterados assédios sexuais, sequestros, estupros, casamentos forçados e/ou prostituição e, em todas as alternativas, despojá-las de suas vidas, histórias, comunidades. Elas eram retiradas de uma vida comunitária onde possuíam poderes e saberes  inquestionáveis, concretizados em relações de muita proximidade e intimidade com a natureza e com o território. 

Minha afirmação não provem de uma tentativa ingênua e reacionária de identificação de um estado de natureza ou de um passado idílico no território brasileiro, antes de ser invadido e, em seguida, ter se tornado, via golpe militar, uma república federativa. Mas se infere do legado de minha tataravó que, apesar de ter sido violentamente separada de suas raízes ameríndias (o extermínio físico das tribos do interior brasileiro é um dado verificável por muitos dados e registros históricos), nunca as esqueceu e as transmitiu, por inúmeros gestos cotidianos e modos de ser e viver, para as mulheres que gerou e a sucederam, como minha bisavó. Minhas avó e tias avós antes e minha mãe e minha tia ainda hoje realizam e compartilham, com muita desenvoltura, saberes e práticas de relação com a terra e de respeito à natureza, que revelam uma intimidade com a agricultura; com os ciclos; com a medicina das ervas; com a culinária e a nutrição provenientes de espécies típicas do bioma local. Além de possuírem uma autonomia e uma autoridade femininas pouco condizentes com o papel destinado às mulheres de suas épocas, ou melhor, às mulheres brancas, burguesas ou de classe média. Porque minhas ancestrais, embora não deixassem (ou não deixem) de representar os papéis socialmente aceitos, os faziam com grandes espações de subversão – distantes que eram da branquitude e da classe economicamente dominante.  Na obra “Peregrinações de uma pária”, a pensadora franco-peruana Flora Tristán (2000), quando esteve no Peru, para reivindicar a herança de seu pai nobre peruano, observou a liberdade com que as mulheres andinas se expressavam e ocupavam espaços inconcebíveis para as mulheres com as quais convivia na Europa, subordinadas à moral vitoriana da época; o que significava a prática de um outra ética sexual e a ocupação de outro lugar social que, apesar de todo o controle judaico-cristão aos seus corpos, era impossível de não ser notada. 

As mulheres brasileiras do campo, dos rios, das florestas e também muitas das que hoje estão nas cidades, ainda revelam essa liberdade e autonomia das minhas ancestrais e praticam saberes ameríndios e quilombolas. E nos ensinam a força das mulheres que vivem e resistem ao modo extrativista imposto pelo capitalismo internacional e às suas sangrentas práticas colonizadoras, em atividade há mais de 5 séculos. 

Essa capacidade de resistência se traduz em saberes através dos quais elas vem enfrentando as diferentes crises (e seus ataques autoritários) tão comuns ao modo de vida capitalista e os muitos danos socioambientais dele decorrentes. Um ditado popular das mulheres da Região Norte do Brasil, onde está a Amazônia, sintetiza esse conhecimento historicamente construído e preservado, ‘às margens dos valores civilizatórios hegemônicos, por meio de uma grande capacidade de organização, luta e resistência: “as mulheres são como as águas, crescem quando se encontram”. 

Um encontro com uma potência não apenas literal, da partilha política dos corpos em presença, mas também com um sentido simbólico e político transgeracional. Na divisão sexual do trabalho nas sociedades tradicionais, têm sido as mulheres as guardiãs de outros imaginários ou de formas de vida alternativas ao extrativismo hegemônico, que nos inseriu na crise socioambiental e climática atual. Isso porque elas são as responsáveis por preservar e multiplicar as chamadas sementes crioulas, as sementes biológicas, que exigem um conhecimento ecológico profundo, para não deixar morrer as espécies existentes e cultiváveis nos territórios que habitam, mesmo diante de todas as mudança das condições ambientais e o envenenamento dos solos. 

Elas são responsáveis pelo legado das sementes, que simbolicamente significa a possibilidade de continuar existindo futuro. E, para isso, dominam saberes e práticas tradicionais e desenvolvem tecnologias biológicas capazes tanto de evitar a extinção da biodiversidade da flora (e consequentemente igualmente as da fauna) como de permitir que a natureza continue seu movimento vivo, por meio do qual as espécies seguem florescendo e se fortalecendo. Elas são assim detentoras de um saber e de uma função social crucial para a manutenção da vida: um poder concreto de permitir que tudo que é vivo e cultivável siga germinando com autonomia, por meio de saberes ancestrais de manejo e respeito aos tempos da natureza; que resistem à dependência e ao controle das multinacionais produtoras dos venenos para a produção da agricultura capitalista. 

Mas teriam esses saberes tradicionais a capacidade de ultrapassar seus próprios territórios indicando caminhos globais para a superação da crise sistêmica atual? E por que seria válido se inspirar em formas de viver consideradas pré-científicas? Não seria uma mera utopia pensar na possibilidade de construir uma sociedade a partir de outras bases, inspiradas nos saberes tradicionais supracitados? São muitas as perguntas que nos rodam para a urgente necessidade de encontrar caminhos para que o Planeta e todas as espécies sobrevivam. Temos feito protestos, criado ícones, buscado outras formas de organização social, outros tipos de relações, outros hábitos cotidianos e outros valores. Temos questionado os princípios que fundamentam a “democracia” capitalista – sua necropolítica e seus danos à natureza – e aprofundamos a reflexão para tentar ir ao encontro da ainda utópica democracia socialmente justa para todas as formas de vida.

No entanto, aos buscar possíveis soluções para tantas questões e problemas que esse modo de vida nos legou, o nosso modo de vida devastador, ainda apresentamos uma postura de distanciamento, de abstração e de objetificação da natureza, como se tivéssemos que autoritariamente inventar ou reinventar tudo, para “salvar” o Planeta. E assim criar as respostas, respostas novas e “científicas”, que possivelmente seriam impostas como verdades, ignorando as muitas alternativas que já existem, que resistem e que seguem sendo massacradas ou não ouvidas, pela surdez com que a modernidade e o cientificismo capitalistas colonizaram nossas mentes e nossos corpos. 

Por isso, como sujeitos históricos dessa crise, talvez não nos caiba mais os papéis nem de reprodutores do pessimismo, da descrença ou da crença na falta de alternativas para o modelo que está posto nem de agentes autoritários da transformação social – pretensiosos portadores das histórias únicas e das soluções “salvadoras”. Talvez o necessário seja um esforço novo, individual e coletivo, de ver e ouvir o que está aparentemente velado: os tantos saberes e relações já presentes em vários lugares do Planeta e advindas de uma grande intimidade e de um conhecimento ancestral do imenso e diverso território que habitamos. E, dessa forma, nos tornarmos capazes de ultrapassar a perspectiva de que as estratégias e alternativas tenham que ser inventadas do zero, ignorando os inúmeros modos de vida que há séculos representam outras relações entre humanos e natureza. 

Há pessoas sendo “capazes de resistir, a seu modo, a um colonialismo que dura mais de quinhentos anos, imaginando um futuro distinto que muito poderia contribuir com os grandes debates globais.” (Acosta, 2015, p. 20). Ouçamos as vozes dos povos das floresta, das águas, dos mares, dos rios, dos campos. Ouçamos a relação milenar entre as mulheres e a natureza, entre os feminismos e a ecologia. Ouçamos as mulheres indígenas, as mulheres camponesas, as mulheres quilombolas e todas aquelas que se ligam à perspectiva do Bem Viver. Não podemos mais permitir que tolham nossa capacidade de imaginar. Ouçamos!

Podemos, a partir de agora, fomentar reflexões mais profundas e fornecer saídas concretas, via práxis feminina e feminista, para as mudanças climáticas e sua ameaça de minar o futuro. Isso corresponde a não mais ignorar a excelência, a sabedoria e a simbologia dos legados de tantas mulheres – como aquele de minha tataravó  e sua linhagem –, que são corpo, são desejo, são luta e são capacidade de transformação. Elas vem sendo capazes de manter a vida, a cultura, as civilizações. São resistência e alternativa para construir e vivenciar outros mundos, uma vez que seu protagonismo, ligado ou não aos feminismos, enfrenta os efeitos nefastos das mudanças climáticas e de seu fundamento desenvolvimentista, calcado mito moderno do progresso. 


Bibliografia


ACOSTA, Alberto. O bem viver: uma oportunidade para imaginar outros mundos. São Paulo: Editora Elefante, 2011.

MANO, Marcel. Índios e negros nos sertões das minas: contatos e identidades. Varia História, Belo Horizonte, vol. 31, n. 56, p. 511-546, mai/ago 2015 

TRISTAN, Flora. Peregrinações de uma pária. Santa Cruz do Sul: Edunisc, 2000.

(Via Dogana 3, 8 febbraio 2020)

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