5 Dicembre 2014

AUTORITÀ


Sabato 8 novembre 2014, presso la sala conferenze del Museo Civico di Chioggia, nell’ambito del ciclo di incontri Libertà femminile per il cambiamento, promosso da Insieme Ar Te – Amare Chioggia e il suo territorio, in collaborazione con l’assessorato alle Pari Opportunità della Città di Chioggia, Alessandra De Perini dell’associazione Le Vicine di casa di Mestre e l’arcivescovo emerito di Gorizia-Aquileia, Dino De Antoni, hanno discusso di fronte a un ampio pubblico dell’ultimo libro di Luisa Muraro: Autorità.

di Alessandra De Perini

 

Prima di entrare nel merito del libro Autorità di Luisa Muraro, voglio dire alcune cose che ritengo importanti per farvi capire in che rapporto sono io con il testo di cui vi parlerò, insieme all’arcivescovo emerito di Gorizia Dino De Antoni che ringrazio perché ha accettato un compito, secondo me, molto difficile per un uomo, e in particolare per un uomo di Chiesa: confrontarsi con il pensiero radicale di una donna che è punto di riferimento del femminismo della differenza italiano e internazionale. L’autrice sarebbe contenta di essere qui oggi perché da molto tempo ormai il femminismo della differenza è andato oltre la pratica di mettersi in relazione e di parlarsi solo tra donne e ha messo in atto la scommessa di un mondo abitato dai due sessi, dove donne e uomini si parlano ognuna, ognuno a partire da sé, in fedeltà al proprio sesso. Luisa Muraro ha raccolto e messo in pratica la sfida lanciata dalla grande femminista italiana Carla Lonzi negli anni Settanta quando affermò che le donne, se volevano dare vita a una nuova civiltà, dovevano porsi su un altro piano rispetto alle logiche strumentali del potere e dei rapporti di forza, fare tabula rasa dei miti e dei pregiudizi ereditati dalla cultura patriarcale ma, al tempo stesso, essere in grado di confrontarsi con le espressioni più alte della soggettività maschile: arte, religione, filosofia, scienza, diritto.

Ritornando al mio rapporto con il libro, voglio dire che mi riconosco in gran parte dei suoi contenuti, soprattutto lì dove Luisa Muraro parla dell’autorità come una pratica politica di relazione. Sono una delle tante donne che, a partire dai primi anni Ottanta, ha accolto la parola di Muraro come una vera e propria fonte autorevole per orientare la propria vita e azione politica. Il riconoscimento di autorità nei confronti di Luisa Muraro non si è, però, fermato lì: ha comportato, a mia volta, un’assunzione di autorità e così via, altre ancora, a loro volta, mi hanno riconosciuto autorità e se la sono assunta. In questo senso si può dire che l’autorità di origine femminile non è un monumento, ma una figura dello scambio.

L’ultima premessa che ritengo importante riguarda il percorso che ha portato Luisa Muraro a dire la parola “autorità”. Lei questa parola ha potuto dirla perché è radicata, insieme a molte altre, in un movimento di trasformazione della realtà che è iniziato negli anni Settanta, ma continua ancora oggi nel pensiero e nella politica della differenza, nel femminismo radicale, per intenderci, quello dell’autocoscienza, della pratica di relazioni e del partire da sé, non il femminismo delle grandi manifestazioni di protesta e delle rivendicazioni di parità e diritti.

All’inizio del percorso di presa di coscienza, molte di noi hanno combattuto l’autorità, in particolare quella delle grandi istituzioni di origine maschile, come la Chiesa, la Legge, la Filosofia, la scienza, la medicina, che per secoli hanno preteso di dire chi è e che cosa vuole una donna e dato per scontata la superiorità maschile sul corpo femminile fecondo. C’è stato un periodo di scoperta, entusiasmo, euforia in cui eravamo tutte sullo stesso piano, senza differenze significative riconosciute, unite contro il potere patriarcale e ogni forma di autorità maschile sulle nostre vite (padre, marito, fratello, sacerdote, medico, avvocato, professore). Verso la fine degli anni Settanta, però, i conflitti laceranti, le rotture dolorose nei gruppi separati di donne hanno portato a riflettere sulle ragioni di tali conflitti e lì c’è stato un passaggio fondamentale, paragonabile al passaggio del Mar Rosso: i conflitti tra donne riportarono a galla l’antico rapporto irrisolto con la madre. I rapporti tra donne vissuti nell’ambito ristretto della famiglia o giocati solo in termini affettivi, amicali, privi di una dimensione pubblica, politica, erano di fatto rapporti senza libertà, senza trascendenza, regolati da un principio maschile di autorità che li rendeva superflui. Bisognava andare oltre la logica della semplice solidarietà tra donne, dell’essere tutte uguali e ritrovare il filo della felicità e della vera libertà nei rapporti tra donne, in particolare tra madri e figlie, ponendo fine alla vendetta internazionale delle figlie contro le madri, delle nuore contro le suocere, delle donne più giovani contro le più vecchie e sagge e via di seguito. Nel ragionare sul rapporto con la madre, si è scoperta la disparità: abbiamo avuto tutte e tutti bisogno di una donna più grande di noi per nascere, per imparare a parlare e per crescere. Le donne non sono tutte uguali, alcune sono più grandi di altre, alcune hanno più desiderio, più sapere, più capacità di lettura della realtà, più coraggio di esporsi pubblicamente, più radicalità di giudizio. Di qui la ricerca sulle grandi scrittrici, chiamate “madri simboliche” (Jane Austin, Virginia Woolf…) e, in seguito, la ricerca sulle grandi pensatrici del Novecento (Simone Weil, Hannah Arendt, Edith Stein, Maria Zambrano…) o sulle grandi mistiche che hanno parlato di Dio in lingua materna. La scoperta della dimensione simbolica nei rapporti tra donne comportò la fine del mito della sorellanza e la messa al lavoro della nozione di “disparità” che, una volta riconosciuta, veniva messa in circolo come vantaggio per tutte. Fu l’inizio di un’economia, di uno scambio valorizzante tra donne: «Non amarmi, dammi valore!» Questo il titolo di un testo che circolava all’inizio degli anni Ottanta e che fu per me una pietra miliare. L’autorizzazione di un’altra donna, innanzitutto quella della madre, è per ogni donna fondamentale per stare al mondo in fedeltà a sé, per crescere secondo i propri desideri, per non omologarsi ai valori e alle logiche di origine maschile.

Per merito dell’autorità femminile le donne oggi non si presentano più come vittime che reclamano risarcimento, non si mettono più, dice Luisa Muraro, dalla parte muta e perdente dell’umanità, non assumono l’uomo come misura di riferimento del proprio valore, perciò non rivendicano parità, ma scommettono sul valore della differenza, non sono più costrette a cancellare, rendere invisibile e indifferente, in nome del mito astratto dell’uguaglianza che cancella i corpi di donne e uomini, il proprio essere di sesso femminile. Oggi le donne parlano e pensano a partire da sé, desiderano in grande e richiamano l’uomo alla propria differenza, gli chiedono di essere se stesso, di non parlare in astratto, a nome di tutta l’umanità, ma a partire da sé, dai dati della propria esperienza.

Negli anni Novanta è così iniziata una presa di coscienza maschile che oggi sta dando i suoi frutti: nuovi padri, compagni attenti, insegnanti rispettosi della differenza, scienziati, medici, pensatori che riconoscono il valore delle donne (per esempio il famoso oncologo Umberto Veronesi, Dell’amore e del dolore delle donne). Gli uomini hanno iniziato a fare la politica della differenza.

Entro ora nel merito del libro di Luisa Muraro: piccolo, intenso, una gemma. Autorità fa parte della collana di Rosenberg & Sellier intitolata, appunto, Gemme: «messaggi ricchi e inattesi di autrici e autori che offrono parole che danno la possibilità di leggere secondo nuove prospettive il mondo e trasformarlo». Chi scrive il testo è una donna che espone una sua concezione dell’autorità e fa lo sforzo di comunicare il suo pensiero sia a donne che a uomini, senza porsi da un punto di vista neutro o rivolgersi solo alle donne.

Il libro è scritto perché altre e altri capiscano l’importanza vitale, fondamentale dell’autorità per sottrarsi, donne e uomini, alla violenza cieca dei rapporti di forza. Va perciò collegato all’altro librino intitolato Dio è violent e, rispetto a questo, fa un passo avanti.

Luisa Muraro pensa che l’autorità della tradizione sia irreversibilmente perduta, perciò le donne che sempre più oggi si fanno avanti nella scena pubblica del lavoro, nella conoscenza, nella politica, sono incluse e promosse in una cultura che ha perso il senso dell’autorità e non ha l’idea di un’autorità femminile distinta da quella materna. C’è così il rischio, per esempio, che l’impiego militare delle donne non abbia più restrizioni, così le donne potrebbero trovarsi in prima linea ad uccidere e farsi uccidere: questo è il senso obbligato, il paradosso di una politica di parità!

Nell’Occidente moderno il riconoscimento pubblico di autorità si scontra con «molta distrazione, confusione e un mare di comunicazioni che occupano lo spazio pubblico». Molto si deve lottare, afferma Luisa Muraro, affinché le persone si accorgano dell’autorità che circola e non la calpestino a caso. L’autorità materna fa eccezione, ma non può oltrepassare l’ambito del familiare. La grande impresa politica delle Madres de Plaza de Mayo consiste nell’aver oltrepassato quel confine e agito pubblicamente l’autorità materna, sfidando la dittatura militare in Argentina. Le Madres sono un esempio di autorità che agisce senza i mezzi del potere. Anche Gandhi agiva questo tipo di autorità senza potere.

Il librino di Luisa Muraro si presenta come una ricerca filosofica sul senso dell’autorità. Muraro si chiede che cosa le dia l’autorità di affrontare un problema così grave. Non certo diplomi, pubblicazioni, quantità e qualità di citazioni. Siamo noi lettrici e lettori la fonte principale del valore del suo “librino”, afferma l’autrice, scommettendo sull’autorità della lingua che parliamo. A noi lettrici e lettori viene affidato il compito di collaborare con l’immaginazione e di portare avanti la ricerca, scrivendo sulle pagine lasciate bianche alla fine del libro.

Muraro ci pone due domande:

  • Che cosa rende possibile e ci fa accettare l’autorità nelle nostre vite?
  • A quale esperienza politica, storica e quotidiana facciamo comune riferimento, quando parliamo di “autorità”?

Le risposte a queste domande, vanno cercate, secondo lei, nella direzione della condizione umana.

L’autorità, afferma Luisa Muraro, ha origine nella relazione materna: fragilità della condizione umana e forza simbolica provengono dunque dalla stessa fonte.

Il senso dell’autorità inizia con la relazione materna e tale relazione differisce da donna a uomo. La differenza sessuale da biologica si plasma in umana nel corso di quella relazione. Il privilegio di nascere donna sta nella grande vicinanza di ogni donna con il corpo materno. Questa vicinanza può essere tradotta in un “di più” della differenza femminile (alcuni psicanalisti-filosofi, Freud, Lacan, sono riusciti a captarla). Man mano che questo “di più” non ha gridato aiuto né ha reclamato riconoscimenti maschili, è cresciuta autorità femminile e si è aperto così lo spazio per il senso libero della differenza femminile, la possibilità per una donna di dire chi è e che cosa vuole a partire da sé. Oltre a questo, fuori da ogni complementarietà, si rende possibile anche l’ascolto della differenza maschile, spogliata dalle insegne della sua presunta superiorità, nell’autenticità della sua esperienza.

Per sostenere questa tesi Luisa Muraro articola il suo discorso, facendo uso di immagini, esempi, racconti, episodi biografici, ricordi, fatti e personaggi storici, citazioni e riferimenti culturali.

L’autorità c’è, afferma Luisa Muraro. Si mostra nel vivo dell’esperienza. Ci sono, per esempio, tanti e tante insegnanti che insegnano con autorità. L’azione principale dell’autorità è quella di contribuire a fare di una disparità un rapporto di scambio e trasformazione come, per esempio, la brava maestra che trasforma il senso di inferiorità dell’allieva, dell’allievo in voglia di imparare.

L’autorità si genera in presenza e circola, attivata come una fonte di energia. Bisogna riuscire a vederla, ma è difficile leggere quello che abbiamo davanti agli occhi. Assumere autorità significa accettare di essere per altre e altri figura di riferimento. L’autorità è una forza che serve a tutti e a tutte, è un grande “servizio simbolico” alla vita collettiva. Di autorità oggi ce n’è sempre meno: ci sono forze che, infatti, tendono a distruggerla. Non possiamo non ammettere, tuttavia, che ci vuole una certa dose di autorità riconosciuta ed esercitata, altrimenti – ci domanda Luisa Muraro – come si fa a educare i più giovani, a insegnare, a fare ordine nella vita associata, a realizzare un’impresa difficile?

“Autorità” è una parola di uso comune. C’è però confusione sui modi diversi di intenderla. Il problema non si risolve con il semplice uso del vocabolario. C’è diffidenza verso la parola “autorità”, così si preferisce parlare di “autorevolezza”. L’autorità fa problema perché è automaticamente associata a “politica” e “potere”. C’è il giusto timore di dare credito a persone che non la meritano, che si rivestono di una grandezza, di un prestigio che non hanno. L’avversione, l’antipatia di tante e tanti per la parola autorità è dovuta a esperienze di abuso di autorità e da qui deriva il discredito di ogni forma di autorità. Questa avversione, afferma Luisa Muraro, ci può servire come il tamiso che un tempo si usava per setacciare la farina che conteneva scorie: è un’esperienza impressa nella memoria che può aiutarci a distinguere l’autorità dal potere, ciò che è proprio del potere dall’autorità, spesso mescolata con il potere che corteggia l’autorità perché vuole rivestirsi del prestigio e della luce che essa dà.

Il tamiso è simbolo della pazienza che ci vuole nei passaggi difficili: dal rifiuto-avversione per l’autorità che oggi molte e molti provano al riconoscimento di autorità come bisogno umano profondo. L’effetto dell’autorità è l’indipendenza simbolica dal potere. Il setaccio non fa passare la retorica che trasforma l’autorità in un monumento né le confusioni e i travestimenti del potere che la rendono mostruosa.

La parola “autorità”, spiega il linguista francese Émile Benveniste, deriva dal verbo latino augere che significa “aumentare”. La radice verbale aug– di augere nell’indo-iraniano designa la “forza”, una forza di origine divina. Una parte del significato di augere, secondo Benveniste, rimane nascosta. Negli usi più antichi augeo indica non il fatto di accrescere, ma l’atto creatore che fa sorgere qualcosa da un ambiente nutritivo, privilegio degli dei. “Aumentare” è quindi per Benveniste un significato secondario e indebolito di augeo. Valori oscuri e potenti abitano dunque in questa auctoritas, dono riservato a pochi di “far sorgere”, di “produrre all’esistenza” qualcosa. È provvisto di questa qualità misteriosa solo colui che è auctor (pag. 80-81).

L’autorità per Luisa Muraro è una forza di natura simbolica in grado di contrastare il potere e la logica dei rapporti di forza. L’autorità è, al tempo stesso, fragile, umana, può sbagliare. Per questo bisogna averne cura, custodirla. Metterla fuori gioco è un errore, perché ci impoveriamo e ci indeboliamo nei confronti di chi ha più potere di noi.

L’autorità non si impone, chiede di essere riconosciuta, opera solo se c’è libero consenso, altrimenti non può agire. L’autorità non può fare a meno della nostra libertà. Nei rapporti dove c’è disparità c’è sempre il rischio di abuso di autorità. Questo è importante saperlo.

L’autorità risponde a un bisogno simbolico di parole, di gesti, di immagini, di cerimonie, di arte e monumenti. È una potenza priva di fondamento razionale, di natura inafferrabile. A volte l’autorità è fragile come la condizione umana (questo ci dicono, per esempio, secondo Luisa Muraro, le dimissioni di Benedetto XVI).

L’autorità ci aiuta a non fissarci sull’uguaglianza al ribasso e ci porta a curare in noi e nell’altra, nell’altro un grande senso di sé. L’autorità serve per tenere alte le pretese, il morale di una situazione o di un impegno collettivo.

L’autorità consente comportamenti illegali e pericolosi (durante la persecuzione nazista, per esempio, nascondere bambini ebrei), perché ha più forza interiore della legge. In una situazione conflittuale (la prevaricazione di leggi ingiuste) ci vuole forza simbolica per trasgredire gli ordini e tener e testa ai meccanismi del potere. Ci sono infatti “ordini del sovrano che non devono essere seguiti” (Sun Tzu, L’arte della guerra), nel senso che a volte bisogna ribellarsi agli ordini che nel profondo della nostra coscienza riteniamo ingiusti.

L’autorità è legata al desiderio di agire. Qui sta anche, secondo Luisa Muraro, la grande scommessa della politica oggi: rendere la condizione umana vivibile e godibile.

Luisa Muraro ci invita a capire che cos’è l’autorità e afferma che essa ha dentro di sé qualcosa che non possiamo mettere fuori gioco, che stentiamo a cogliere e a custodire. Di conseguenza, oscilliamo tra autoritarismo e perdita di ogni riferimento di autorità.

La ricerca di Luisa Muraro sul senso dell’autorità che nasce nello stato di impotenza e disparità della prima infanzia si articola, seguendo le tracce interiori dell’autorità, le esperienze vicine o tratte dal passato storico.

Nel Medioevo c’erano le auctoritates: la Bibbia e Aristotele. Nel Rinascimento iniziò il rigetto del principio di autorità. Il primo vero colpo all’autorità fu inferto dalla Riforma protestante: Lutero affermò la libertà di interpretazione della parola di Dio nel testo sacro. Il secondo colpo arrivò con la rivoluzione scientifica (Galileo Galilei, Il Saggiatore). Galilei rivoluzionò lo studio della natura, consapevole di essere in contrasto con le idee della tradizione e si presentò con l’autorità di chi sa leggere la lingua della natura. Di qui la cura dedicata alla sua prosa scientifica. La rottura del principio di autorità è irreversibile e simbolicamente attiva ancora oggi: nel ’68 ci fu la contestazione dell’autorità dei padri e dei professori.

Quando siamo di fronte a una vera autorità e quando, invece, ci troviamo di fronte alla forza costringente di un ordine sociale determinato? Questa domanda continua a porsi anche nel nostro tempo.

Si è tentato di trovare un fondamento inoppugnabile dell’autorità nella Giustizia, nella Ragione o nella Tradizione, ma senza successo, perché l’autorità non ha un fondamento, essa è un fondamento.

L’autorità non offre garanzie, ma si offre come un’opportunità, chiede di essere riconosciuta e praticata. Promette forza simbolica alternativa a ciò che ci schiaccia. Ha una capacità ordinatrice e relazionale che consente lo scambio tra chi è più forte e chi è più debole, rende dicibili esperienze altrimenti mute e non comunicanti tra loro, agisce come “luogo simbolico” dove trovano parola persone, esperienze, idee che non avrebbero la forza di imporsi.

Chi ha il senso dell’autorità non diventa mai servile e sa riconoscere il momento della trasgressione o della rivolta.

L’autorità non va offesa nella persona che la incarna e nelle relazioni che la fanno circolare. L’offesa all’autorità è di danno a tutti: questo è il punto più alto e difficile di ogni obbedienza e di ogni rivolta. L’autorità va salvaguardata per il valore trascendente che ha rispetto al potere dei potenti, valore alto, ma fragile. Combatterla in nome della libertà è una mossa sbagliata.

L’autorità, un bene immateriale pregiato e la sua indipendenza, è temuta per i grandi effetti che può avere nelle relazioni fra esseri umani. Perciò si è sempre cercato di integrarla all’ordine sociale e al potere costituito (per es. Costantino il Grande, i Patti Lateranensi).

L’autorità non può agire, se non è riconosciuta. Il potere, invece, può saltare il consenso o carpirlo con l’inganno. L’autorità, tuttavia, è potente a modo suo, perché può agire senza i mezzi del potere. La forza dell’autorità è di natura simbolica, la stessa delle parole e dei segni, ed è strettamente associata al fatto che gli esseri umani imparano a parlare dalla madre.

L’autorità è cacciata indietro dal potere, ma la forza fisica non può sconfiggerla, perché questa è di un altro ordine (episodio della madre di Luisa Muraro nella primavera del ’45 e di Gandhi a pag. 81, 82). L’autorità agisce con i segni (parole, simboli, immagini, gesti) che non sono riducibili a mezzi.

La confusione teorica e la mancanza di un’esperienza politica dell’autorità che caratterizzano il nostro tempo inducono a vivere nella sfera pubblica senza l’autorità e quindi senza la consapevolezza della trascendenza della fonte dell’autorità rispetto al potere e ai detentori di questo: significa trovarsi ad affrontare, senza più fede religiosa in un principio consacrato e senza la protezione offerta dai criteri di comportamento tradizionali, i problemi più elementari dell’umana convivenza (Arendt, Che cos’è l’autorità?). Abbiamo davanti agli occhi come la vita economica e il corpo sociale, che si sviluppano senza vincoli né riferimenti simbolici, espongano l’umanità all’arbitrio di poteri ingovernabili e all’invasione di fantasmi suscitati dalla sproporzione tra i problemi che incombono e le forze che abbiamo.

L’autorità non è un possesso, ma una dimensione che si apre quando in una relazione di scambio dispari avviene come nella relazione materna (relazione di somma disparità, di molta vicinanza fisica e di nessuna gerarchia) che “impariamo a parlare”. Si impara a parlare a tutte le età e in tante situazioni. Nel nostro parlare, la differenza sessuale incide positivamente, a condizione che l’accettiamo come dimensione costitutiva della nostra umanità e che diamo forza simbolica al nostro essere soggetti pensanti di sesso femminile che per secoli, millenni, hanno continuato a spendersi per la convivenza e la civiltà (cura delle creature piccole, trasmissione della lingua parlata, preparazione del cibo, cura degli interni domestici), senza che la cosa fosse iscritta nelle strutture politiche e tradotta in eredità culturale.

L’autorità risponde a un bisogno di tipo simbolico e al tempo stesso è bisogno di simbolico, di parole, gesti, immagini, arte, poemi, monumenti, cerimonie…

Il bisogno di autorità può appagarsi con il fanatismo, l’idolatria, la demagogia. Vanno cercate risposte e rimedi a questi mali, ma prima cerchiamo di accettare la fragilità della condizione umana, i suoi aspetti di dipendenza, il carattere congetturale delle nostre conoscenze, per non galoppare, come dice Luisa Muraro, verso la totale incompatibilità fra l’umano e il cosmo.

Correndo il rischio di sbagliare o di essere malintesa, Luisa Muraro termina il suo libro dicendo che «coltivare il senso dell’autorità è una scommessa in favore di qualcosa di meglio per l’umanità e la civiltà, una scommessa senza limiti al meglio, ma consapevolmente alternativa al culto del potere».

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