28 Novembre 2014

Barbara

di Sandra Divina Laupper

 

La competenza simbolica è quell’insieme di competenze che servono per riuscire di situazione in situazione ad indovinare il codice – oppure il linguaggio, oppure il discorso – giusto per nominare la nostra esperienza. Allo stesso tempo la competenza simbolica ci permette anche di indovinare il codice giusto per ascoltare le parole di chi ha da dirci qualcosa. E ovviamente il massimo della competenza simbolica è saper andare oltre i codici già codificati per trovare un nuovo linguaggio per nominare nello scambio con le altre e gli altri ciò che finora era innominabile.

Barbara K. è il nome di una mia alunna di diciotto anni che si è tolta la vita in autunno del 2014. Elena K., una sua compagna di classe, è rimasta sconvolta e insieme incredula di fronte a questo gesto estremo, che per lei come per tutti noi che conoscevamo Barbara a scuola è stato più che inaspettato, giacché conoscevamo Barbara come una ragazza tranquilla, gentile, sempre disponibile nei confronti degli altri e che apparentemente non aveva alcun problema serio nella vita. Certo, Elena, chiedendo qualche settimana fa alla sua compagna come stava, aveva avuto da Barbara la risposta che era stanca, che non aveva più voglia di andare a scuola, che non aveva più voglia di fare niente. Ma a chi non capitano dei periodi del genere? Quando comunque Barbara poi aggiunse anche: «In questo periodo poi non ho nessuno che mi ascolti quando ne ho bisogno», Elena le rispose: «Ma sai che mi puoi sempre chiamare, quando ne hai bisogno!»

Che cosa significa saper esprimere un proprio disagio, giudicato magari come inconfessabile, e che cosa significa saperlo ascoltare, questo inconfessabile disagio, quando qualcuno avrebbe bisogno di comunicarcelo?

Quando dopo il funerale ci trovammo persi tra le tombe del cimitero di Bolzano, circondati da cipressi e piante il cui fogliame aveva ormai assunto i colori accesi dell’autunno, io stavo in un gruppetto con gli altri insegnanti della classe di Barbara e con le sue compagne di classe. L’insegnante di religione, Guido P., un versato teologo, si rivolse a me che in questa classe insegno filosofia ed a Helga F., l’insegnante di francese, per raccontarci che stranamente rispetto al suicidio aveva trovato di grande aiuto le parole di un filosofo francese, esistenzialista, ateo – non si ricordava più se Sartre oppure Camus – che aveva detto che il suicidio era un lacerante urlo: «Io voglio vivere!»

Luna M. invece, un’alunna della classe di Barbara che è composta quasi esclusivamente da femmine, sotto il sole splendente di quella tristissima giornata di fine ottobre, espresse il suo sconcerto per il fatto che proprio Barbara, che proveniva da una situazione familiare tranquilla e non aveva alcun problema a scuola, era arrivata a un gesto tanto estremo, pur essendo confrontata nella sua classe con situazioni che erano – o per motivi familiari o per motivi di salute – molto problematiche e pesanti. Queste situazioni riguardavano diverse compagne, fra le quali anche la stessa Luna. «Perché?» era la domanda di Luna, e non solo di lei.

Più tardi però, quando dopo un pranzo consumato insieme in una pizzeria in zona ci sentivamo tutti un po’ rasserenati e gli scambi fra professori e alunne si erano fatti più fitti, io venni a sapere qualcosa di nuovo. Infatti tra di noi sorse la questione di come mai per tante persone è così difficile parlare delle proprie sofferenze, e di come mai è così difficile parlare di depressione, seppure questa malattia sia così diffusa e per di più curabile. Io proposi l’idea che forse per Barbara – sempre così gentile e disponibile nei confronti di altri che magari avevano bisogno di un aiuto – era stato troppo difficile cambiare ruolo e mettersi dalla parte di chi aveva bisogno dell’aiuto altrui. Questa idea venne subito accolta da Tamara A. e Sofia G. e, anzi, Tamara precisò che forse per Barbara era così difficile chiedere aiuto a una delle sue compagne di classe a causa di ciò che era successo in classe due anni prima, quando Sofia era stata così male da essere infine costretta a lasciare la scuola per curarsi. In quell’occasione Barbara, insieme alle altre compagne di classe, aveva sofferto della sensazione di completa impotenza di fronte ai problemi della loro amica. Sofia chiedeva aiuto, ma nessuno sapeva come fare per aiutarla, e alcune non volevano neanche più parlare con lei.

Sofia annuì al racconto di Tamara, e aggiunse: «Infatti parlare della mia sofferenza era estremamente penoso, non mi era immediatamente d’aiuto, perché mi confrontava continuamente con l’incomprensione della gente e avevo l’impressione di essere etichettata ormai come l’eterna vittima, per cui nessuno mi prendeva più sul serio. Ma comunque sono convinta che è meglio parlarne, quando hai qualcosa che ti fa star male. Perché altrimenti questa cosa ti distrugge da dentro, ti mangia, non ti fa più vivere! E inoltre si consumano tantissime energie per mantenere la facciata della ragazza serena e tranquilla.»

Forse Sofia e Tamara, come Luna ed Elena e come tanta altre, hanno trovato – nonostante tutto – un modo diverso per dire: «Io voglio vivere!» Nessuna di noi comunque – io credo – riesce a trovare il modo di dire e di ascoltare questa frase senza l’aiuto di altre.

 

Sandra Divina Laupper

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