11 Gennaio 2017
The Washington Post

Come rispondere ai troll su internet?

di Jessica Contrera – The Washington Post 11 gennaio 2017

Forse un modo non c’è: bloccarli non è una soluzione, stare zitti somiglia a dargliela vinta, ragionarci è complicato, rivolgersi alle autorità o ai social network spesso non porta da nessuna parte

Quando Amanda Kleinman ha deciso di reagire erano già settimane che gli insulti e le minacce violente le comparivano sullo schermo. Kleinman allora ha scorso le centinaia di messaggi aggressivi che aveva ricevuto, cercando quello che l’aveva disturbata di più. Dall’inizio del cosiddetto “Pizzagate” – la teoria del complotto falsa diventata virale che collegava Hillary Clinton a un’inesistente rete di pedofili che usava come base una pizzeria di Washington – i suoi account online erano sommersi. Anche Kleinman era stata definita una pedofila, solo perché il suo gruppo musicale si era esibito al ristorante al centro delle accuse false. I complottisti avevano pubblicato il suo indirizzo, avevano mandato dei messaggi al suo datore di lavoro e l’avevano minacciata usando parole così vili da non poter essere riportate nemmeno con un eufemismo. Aveva chiamato la polizia, parlato con i media e si era sfogata sui social network: ora era arrivato il momento di fare la spia con le madri dei suoi molestatori.

Con un clic è arrivata sul profilo Facebook del più vile dei suoi molestatori. Un altro clic e stava guardando chi erano i suoi amici. Pochi minuti dopo ha trovato la donna che stava cercando. «Cara Lamia», le ha scritto Kleinman, «volevo sapere se per caso ha un figlio che si chiama John». Per le persone che vengono prese di mira dai troll di internet, spesso la cosa più frustrante è l’assenza di una soluzione chiara. Se contrattacchi parlando pubblicamente della tua situazione, è probabile che ti stia rendendo un bersaglio ancora più grande. Se te ne stai tranquillo nella speranza che gli stalker online passino oltre, potresti avere o dare la sensazione di aver permesso che ti mettessero a tacere. Kleinman si era stancata di essere nella situazione in cui avrebbe avuto la peggio in ogni caso. «Non ho mai conosciuto John e mi dispiace moltissimo», ha scritto alla madre del troll, «le sto raccontando tutto questo solo nel caso in cui sia suo figlio. Se è così forse dovrebbe parlargli».

Kleinman aveva l’impressione di non avere molte alternative. Generalmente i social network sono restii a punire i troll, per paura di violare la libertà di parola. Su Twitter, per esempio, gli utenti possono bloccare un troll, ma così facendo si limitano a rimuovere i suoi commenti dalla propria timeline e non dal resto di Twitter. Chi è vittima di molestie può presentare dei reclami che potrebbero portare all’espulsione del troll dal sito: ma anche se ne scompare uno, ne potrebbero saltare fuori a decine di nuovi, come in un’angosciante versione di Acchiappa la talpa. Le persone che vengono molestate su internet possono rivolgersi alla polizia, ma le forze dell’ordine faticano a identificare e perseguire i molestatori online. Negli Stati Uniti gli atti di stalking o le molestie subite online da milioni di persone tra il 2010 e il 2013 hanno portato solo a dieci cause in tribunali federali, stando a uno studio della scrittrice Danielle Citron, autrice di Hate Crimes in Cyberspace. Quasi sempre queste situazioni coinvolgono più di un molestatore, decine o addirittura migliaia di persone che minacciano o diffondono una voce falsa sul conto della loro vittima. «Ogni persona che promuove quella voce è parte del problema, ma nessuna di loro è penalmente responsabile», ha detto Mary Anne Franks, direttrice per le politiche legislative della Cyber Civil Rights Initiative, che sostiene l’adozione di leggi per tutelare le vittime di molestie online. Non esiste un approccio universale per occuparsi dei troll, ha detto Franks, secondo cui provare a ragionare con queste persone non è una buona idea. «Non c’è niente che si possa dire a queste persone senza dar loro altro materiale», ha detto.

L’autore di video satirici Vic Berger l’ha imparato sulla sua pelle poco dopo l’inizio del “Pizzagate”. Negli Stati Uniti Berger è diventato famoso su internet creando dei video bizzarri sulla campagna elettorale per le presidenziali americane per il network Super Deluxe, che produce video online. Aveva iniziato a litigare su internet con Mike Cernovich, famoso sui social network per aver diffuso voci false sul conto di Hillary Clinton e dei suoi sostenitori durante le elezioni, oltre a teorie false sul Comet Ping Pong, la pizzeria di Washington al centro del “Pizzagate”. Quando Berger ha iniziato a prenderlo in giro su Twitter, sono intervenuti anche i suoi fan, mandando a Cernovich alcune immagini offensive, sostiene lui. Per tutta risposta, Cernovich ha ripetutamente accusato Berger di essere coinvolto in una rete di pedofili.

Berger ha provato a segnalare Cernovich a Twitter, che però non ha chiuso il suo account. Berger ha anche accusato Cernovich di aver incitato minacce di morte nei suoi confronti. Gli attacchi sono diventati più accesi. «Queste persone sanno piuttosto bene come manipolare il sistema e aggirare le regole senza violarle. Per questo è molto difficile», ha scritto Berger in un’email, «dopo un po’ ci si stufa di guardare questo tipo di contenuti disgustosi/carichi d’odio/negativi, e in qualche modo si deve andare oltre, per la propria salute mentale». Dopo che lo scorso mese un uomo armato con un fucile d’assalto è entrato al Comet Ping Pong per “investigare” sulle voci intorno al “Pizzagate“, Berger si è reso conto che esisteva la possibilità che le minacce nei suoi confronti si concretizzassero. Dopo aver contattato i suoi avvocati e la polizia, quindi, ha abbandonato Twitter, almeno temporaneamente finché la questione degli attacchi di Cernovich non verrà in qualche modo risolta. «Dover “darla vinta” a un tipo del genere è fastidioso», ha detto.

“Darla vinta” potrà anche essere una soluzione efficace, ma è di sicuro insoddisfacente. Da qui, il desiderio di addentrarsi nell’abisso di internet e restituire – metaforicamente – lo schiaffo ai troll. Dopo che su Twitter un troll si era spacciato per il suo defunto padre, la scrittrice e attivista Lindy West scrisse un formidabile saggio in cui sosteneva che internet tratti le donne come «spazzatura subumana». Il giorno dopo, un uomo che sosteneva di essere la persona che aveva creato il falso account le ha scritto una lettera scusandosi sentitamente e ha donato 50 dollari all’ospedale dei tumori dove era stato in cura il padre di West. Brianna Wu, una sviluppatrice di videogiochi che aveva parlato del sessismo nel suo settore durante il cosiddetto “Gamergate”, una controversia nata nel 2014, ha provato a parlare su Skype con una delle migliaia di persone che avevano minacciato di ucciderla. Il troll, una donna, voleva scusarsi, mentre Wu voleva capire perché si fosse comportata in quel modo. Parlarono a lungo, ma Wu ebbe l’impressione che la conversazione fosse servita più alla sua molestatrice che a lei. Ora non risponde più ai troll. «Una parte di te ne esce così danneggiata che quando qualcuno dice che violenterà il tuo cadavere non provi niente», ha raccontato Wu.

Kleinman, nel frattempo, spera ancora di poter fare qualcosa per reagire. Per i troll lei è un’appariscente musicista che quando suona nel suo gruppo di rock elettronico, gli Heavy Breathing, indossa un passamontagna rosso e una parrucca bionda. Di giorno, però, Kleinman è una psicologa universitaria, e ha sempre il desiderio di stabilire un dialogo col prossimo. «Se riuscissi ad avere un colloquio individuale con queste persone per una settimana, o anche una volta al giorno per un mese, il 70 per cento di loro smetterebbe di comportarsi in quel modo», ha detto. Quello che fa, invece, è salvare gli screenshot di tutte le minacce che riceve in una cartella che tiene come documentazione, come le ha consigliato la polizia. Fa in modo che le mazze da baseball in alluminio che ha comprato di recente siano sempre a portata di mano a casa sua. Continua ad andare alle prove del suo gruppo, che questo mese ha in programma un concerto al Comet Ping Pong. Il gruppo ha pensato di cancellarlo, ma non vogliono che i troll pensino di averla vinta. Kleinman sta aspettando che la madre del peggiore dei suoi troll le risponda. Per quanto ne sa, la donna non ha nemmeno letto il messaggio che le ha mandato. Provare a fare qualcosa, però, l’ha fatta star meglio. «A volte», ha detto Kleinman, «è solo una questione simbolica».

(Il Post, 11 gennaio 2017)

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