24 Maggio 2014
Alias

Commoventi déjà vu tessuti nei ricordi di Alice Munro

di Marisa Caramella

 

Davanti all’ultima rac­colta di rac­conti di Alice Munro la let­trice affe­zio­nata ha l’impressione di far visita a una vec­chia amica, o a un’amica invec­chiata: «ultima» que­sta rac­colta lo è non solo in ordine cro­no­lo­gico, ma nel senso di defi­ni­tiva. Più volte nel corso della sua lunga car­riera Munro ha dichia­rato di voler abban­do­nare la scrit­tura, e ogni volta – a sor­presa ma non pro­prio – arri­vava una nuova serie di rac­conti, sem­pre più emo­zio­nanti, sem­pre più audaci, nel tono e nella riso­lu­zione. Que­sta volta però aveva dav­vero deciso di met­tere fine alla sua car­riera, quindi non ha rite­nuto neces­sa­rio annunciarlo.

Fedele al suo stile e alla sua fama di riser­va­tezza, Alice Munro affida il con­gedo dalla scrit­tura uni­ca­mente alla scrit­tura stessa, e la con­se­gna ai let­tori abi­tuali, non a quelli dell’ultima ora, che com­pre­ranno il libro appena pub­bli­cato da Einaudi con il titolo Uscirne vivi (pp 302, euro 19,50) pronti all’ammirazione incon­di­zio­nata che sem­pre suscita uno scrit­tore pre­miato con il Nobel. Ma davanti a que­ste nuove sto­rie lucide, aggres­sive, scarne, qual­che volta crip­ti­che, i let­tori reste­ranno perplessi.

In una inter­vi­sta radio­fo­nica nel 1987, Alice Munro ha dichia­rato: «Scrivo di dove sono nella vita», senza spe­ci­fi­care se quel «dove» si rife­risse al tempo o al luogo, e se «vita» signi­fi­casse la sua, di vita, o la vita in gene­rale. Ora si può dire che quel dove si rife­riva al tempo, e quella vita era la sua. L’ormai anziana scrit­trice affida ai suoi ultimi rac­conti que­gli sprazzi di memo­ria così comuni nell’età tarda: ricordi lon­tani nel tempo, che ritor­nano con una chia­rezza e una viva­cità impos­si­bili da otte­nere prima, nell’età matura, quando la quo­ti­dia­nità e le neces­sità del vivere impe­di­scono di ana­liz­zare troppo a fondo gli eventi del pas­sato, quelli trau­ma­tici, ma anche quelli appa­ren­te­mente innocui.

È pro­ba­bile che chi legge Munro per la prima volta sor­voli, per esem­pio, sul colore di un vestito, verde, o addi­rit­tura «verde char­treuse»; men­tre chi cono­sce bene i suoi rac­conti si trova a far visita a un’altra «vec­chia» amica, la tra­dut­trice sto­rica di Munro, Susanna Basso, che in un sag­gio dal titolo «Il vestito del verde sba­gliato», avava spie­gato come mai il verde «lime» del testo ori­gi­nale fosse diven­tato «char­treuse». La ragione di que­sta scelta ha a che fare con un ricordo della tra­dut­trice stessa, legato a sua madre, e lo stesso vale – pro­ba­bil­mente – per la pre­fe­renza che Munro dà al verde quando vuole vestire una donna di un colore simbolico.

Il let­tore non tanto fami­liare con i rac­conti di Alice Munro potrebbe anche non far caso al col­lo­quio di una bam­bina con il padre sui gra­dini di casa all’alba; o rite­nere impro­ba­bile l’esito tor­rido di un incon­tro in treno tra una gio­vane moglie e madre delusa e uno stu­dente; o mera­vi­gliarsi dell’insistenza dell’autrice nel descri­vere quello che sem­bra sem­pre lo stesso pae­sag­gio ante­guerra, fami­liare, cir­co­scritto all’Ontario, o addi­rit­tura ai campi e alle strade intorno a casa, o le muta­zioni inter­ve­nute dopo la guerra nello stesso pae­sag­gio; o sce­gliere di ambien­tare parec­chi rac­conti sullo sfondo di un con­flitto mon­diale vis­suto più o meno all’età di dieci anni, con una pre­di­le­zione per le vicende di qual­che drif­ter com­ple­ta­mente spiaz­zato al ritorno dal fronte.

Ma que­ste e altre imma­gini, cir­co­stanze, descri­zioni di luo­ghi – per non dire dello spun­tare di una tap­pez­ze­ria qua, di un prato fio­rito là, del legno di una porta graf­fiato dalle unghie di un cane ansioso di uscire, di un certo paio di scarpe in un rac­conto o di un col­letto di pizzo vero in un altro – sono par­ti­co­lari che ricor­rono in altri rac­conti, a volte anche vec­chis­simi, dando luogo a una serie di déjà vu che com­muo­vono, emo­zio­nano e ras­si­cu­rano il let­tore abi­tuale. Quello nuovo, pro­verà invece scon­certo, stu­pore, incre­du­lità, davanti a certe svolte improv­vise nei rac­conti, ai risvolti dram­ma­tici di qual­che sto­ria fino a quel momento più simile a una divagazione.

Con­clu­sioni impre­ve­di­bili, lampi di chia­rezza improv­visa, andi­ri­vieni tem­po­rali ingan­na­tori, fili con­dut­tori illu­sori sono la carat­te­ri­stica prin­ci­pale della strut­tura dei rac­conti di Alice Munro, fin dall’inizio. Ma que­sta volta gli indizi dis­se­mi­nati dall’autrice per por­tare chi legge al finale, che a ben guar­dare non è poi così sor­pren­dente, sono scarsi, scarni, crip­tici, e soprat­tutto con­ce­piti come se il «tesoro» del finale venisse riser­vato a cac­cia­tori esperti, dif­fi­cili da ingan­nare. Una spe­cie di lascito ai let­tori e ai cri­tici fedeli, una deci­sione di chi alla fine della car­riera, o della vita, pensa di potersi final­mente pren­dere la libertà di dire tutto quello che vuole, e soprat­tutto di dirlo in un certo modo, in un lin­guag­gio il più espli­cito pos­si­bile, anche se privo di intenti provocatori.

Ancora una volta, come già in una rac­colta pre­ce­dente, La vista da Castle Rock, Alice Munro avverte chi legge che «I quat­tro pezzi finali di que­sto libro non sono pro­prio sto­rie. For­mano un capi­tolo a sé, auto­bio­gra­fico nel sen­tire seb­bene non, tal­volta, inte­ra­mente nei fatti. Credo che siano le prime e le ultime cose – e le più pri­vate – che ho da dire sulla mia vita.» Come se le altre sto­rie della rac­colta fos­sero invece sto­rie inven­tate, e se l’autrice volesse final­mente met­tere fine all’annosa discus­sione su quanto dei suoi scritti sia o meno autobiografico.

È vero, per esem­pio, che in uno di que­sti quat­tro pezzi, «L’occhio», Munro rac­conta di come la madre l’accompagnasse alla veglia fune­bre di un’adorata baby­sit­ter costrin­gen­dola a vederne il cada­vere. Ma al tempo stesso trova modo di insi­nuare il sospetto di una gelo­sia materna nei con­fronti della sfor­tu­nata ragazza vit­tima di un inci­dente, e anche di un sol­lievo materno nel non doverne più temere l’influenza nega­tiva sulla figlia. Insi­nua­zioni leg­gere come piume, in netto con­tra­sto con la durezza del «real­mente acca­duto», dell’incidente mor­tale e della visita al cadavere.</CW>

Di certo auto­bio­gra­fico, nella sua durezza di par­ti­co­lari, è il pezzo che dà il titolo alla rac­colta, «Uscirne vivi»: in poche pagine Munro scio­glie il senso di colpa che la tor­menta da una vita, per aver scelto la scrit­tura a sca­pito della cura, materna, ma soprat­tutto filiale. La madre le rac­conta una sto­ria che Alice non può ricor­dare: men­tre dor­miva all’aperto nella car­roz­zina, in un bel­lis­simo pome­rig­gio autun­nale, nel via­letto di casa appare la figura minac­ciosa di Mrs Net­ter­field, una vicina «svi­tata» già col­pe­vole di un assalto con l’accetta a un reduce del paese; la madre rac­conta di come l’abbia avvi­stata gra­zie a una spe­cie di sesto senso, e di come abbia sal­vato la pic­cola dalla furia della donna nascon­den­dosi in casa, e lo fa con una dovi­zia di par­ti­co­lari degni di un thril­ler. È la stessa madre che nello stesso pezzo, arrab­biata per l’atteggiamento ribelle e indi­spo­nente della pic­cola Alice, va a cer­care il padre nel fie­nile per­ché impar­ti­sca una lezione con la cin­ghia alla bam­bina. In que­sto suo ultimo rac­conto Alice sem­bra final­mente con­ci­liare le due figure materne così come le ricorda, quella gelosa e ven­di­ca­tiva, e quella eroica pronta a sal­varla da una pazza con l’accetta. E con­clude: «la per­sona con cui al tempo avrei voluto par­lare era mia madre, ormai non più rag­giun­gi­bile», per­ché morta lon­tano, e sepolta senza la pre­senza di una figlia troppo occu­pata da bam­bini e lavoro e da un marito «sde­gnoso delle for­ma­lità». «Ma per­ché sca­ri­care la colpa su di lui? La pen­savo anch’io così. Di certe cose diciamo che non si pos­sono per­do­nare, o che non ce le per­do­ne­ranno mai. E invece poi lo fac­ciamo, lo fac­ciamo di continuo.»

 

(Alias, 24 maggio 2014)

Print Friendly, PDF & Email