2 Maggio 2020

App Immuni

di Francesca Graziani


Prima di entrare nel merito dell’app Immuni – che è la questione per cui scrivo – devo fare una parentesi personale: non sono certo una ‘smanettona’; non che io sia antitecnologica perlomeno per ciò che riguarda la musica (dai primi walkman all’Ipod). Il primo computer che mi è stato regalato negli anni Novanta l’ho usato come una meravigliosa macchina per scrivere non fidandomi di me stessa per andare oltre. Invece l’amica tedesca con cui allora vivevo, da autodidatta si è subito buttata a scoprirne le possibilità fino a interessarsi dei sistemi open source come Linux e derivati. Comunque è stata lei che mi ha parlato per prima della predazione dei dati di Google e company, discussione che finalmente è arrivata anche in Italia: il libro di Shoshana Zuboff poi mi ha illuminato sul capitalismo della sorveglianza, tema su cui io sono molto sensibile avendo vissuto per vent’anni in famiglia sotto stretto controllo. Recentemente infatti quando prendevo in mano il mio smartphone e lo stupido assistente di Google mi chiedeva: “Francesca, prova a dire qualcosa” – forse perché il mio dito inconsapevolmente era scivolato ad attivarlo; oppure trovavo pubblicità collegate al profilo che i predatori costruiscono su ognuno di noi, mi sentivo nuda e spiata: allora ho chiesto aiuto alla mia amica che ha installato sul mio nuovo smartphone –115 Euro – il sistema Sailfish OS che funziona senza Android e mi permette di schivare Google et similia e di usare motori di ricerca e messaggistica alternativa. Perché ognuno ha la libertà di usare il softwere che vuole – o no?

Non che così io mi sia sottratta del tutto alla predazione, ma almeno non hanno tutti i dati che vorrebbero.

E ora finalmente veniamo all’app Immuni.

Prima questione: l’usabilità, perché come afferma giustamente il professor Mario Rasetti, esperto di Big Data, intervistato da Martina Pennisi (Privacy e sicurezza – Come gestire i dati nell’app ‘antivirus’, Corriere del 7 aprile) l’app andrebbe pensata per tutti: e invece ne saranno escluse sia le persone che lo smartphone non ce l’hanno (o glielo regalerà lo Stato?) sia le persone anziane che in media sono le meno tecnologiche ma anche le più vulnerabili al virus. E dato che Immuni può funzionare solo su dispositivi Android, ne sarò esclusa anch’io, anche se non sono contraria a priori al tracciamento per motivi sanitari.

Dalle ultime informazioni sappiamo che l’app userà il bluetooth, escludendo la geolocalizzazione che altrimenti avrebbe tracciato anche la posizione degli utenti; e questa è una buona scelta come anche il fatto che non sarà centralizzata permettendo ai dati di restare nella memoria interna dei dispositivi coinvolti. Rimangono da chiarire altri dettagli che sono importanti per l’effettiva utilità dell’operazione, come segnala ancora Martina Pennisi: “Chi è a rischio riceverà solo indicazioni su come comportarsi dal Ministero della salute? Dovrà contattare le ASL? Avrà accesso al tampone? Ce ne saranno abbastanza?” (Così inizierà la sperimentazione, Corriere 30 aprile)

Per concludere avrei un’altra domanda: l’interfaccia di base per Immuni è stata elaborata da Google insieme ad Apple: siamo sicuri che non riusciranno a collegare i dati all’ID dei dispositivi, come ci hanno dichiarato? La solita amica tedesca mi dice che – sul sito di informatica heise.de – Fabian Scherschel pone proprio questa questione.

Visto che siamo di nuovo dipendenti da queste società private statunitensi, sarebbe ora che l’Europa facesse qualche passo decisivo a proposito di una questione così delicata come quella dei nostri dati e soprattutto di quelli sanitari: pensare a un sistema operativo europeo è così difficile?


(www.libreriadelledonne.it, 2 maggio 2020)

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