29 Giugno 2019

Arrivederci Saigon, un film, una storia sconcertanti

di Laura Minguzzi


Dopo la visione del filmArrivederci Saigon, proposto da Silvana Ferrari dell’Associazione femminile Lucrezia Marinelli, mi sono interrogata sulla storia, oggi quasi surreale, che la regista Wilma Labate è riuscita a raccontare, anzi a far raccontare alle protagoniste.

Siamo nel pieno della guerra in Vietnam, autunno 1968, e la band italiana Le Stars, tutte minorenni, partono per una tournée con un contratto per l’Estremo Oriente. Atterrano invece a Saigon e apprendono lì, sul campo di battaglia, di avere firmato un contratto che le costringe a cantare e suonare per l’esercito americano che combatte i vietcong. Una manipolazione? Un tradimento? Un inganno dell’agente? Un’ingenuità? Non mi soffermo sull’assoluta stranezza del fatto in sé ma su ciò che mi ha profondamente spinta a riflettere e cioè che dopo il trauma che le giovani hanno subito si siano sentite costrette a tacere per cinquant’anni. La regista ha avuto il grande merito di averle convinte a raccontare. Non tutte. Una non ha accettato di rivangare l’accaduto. Troppo doloroso. Dopo avere rischiato la vita in mezzo ai bombardamenti, avere compreso dove si trovavano ed essere riuscite a tornare a casa non hanno potuto fare nessun accenno, nemmeno una parola su ciò che avevano vissuto. Erano delle sopravvissute ma tali sono state le pressioni del contesto in cui vivevano che hanno dovuto dimenticare. Il contesto è facile da immaginare. Siamo a Piombino, una città rossa, in cui sarebbe stata una vergogna e un disonore per le famiglie delle ragazze se fosse trapelato un fatto così grave. Il trauma si è incistato nella profondità delle viscere, per citare la filosofa María Zambrano, nell’invisibilità, ma non è stato dimenticato. Ha però condizionato per sempre le loro vite. Non sappiamo nulla per esempio della componente della band che non appare e si è rifiutata di dare voce alla sua esperienza. Resta un mistero. Non si fanno ipotesi, non si approfondisce. Io posso immaginare quello che può essere accaduto al loro ritorno essendo vissuta in un ambiente simile. In quegli anni soffiava il vento della libertà femminile e si era allentata la pressione familiare sulle vite delle giovani donne. Ma il controllo paternalistico sulle vite femminili poneva dei tabù: ideologici in primo luogo trattandosi di famiglie comuniste e in quel fatto specifico può avere pesato anche il fattore del bisogno di lavoro che ha portato con eccessiva leggerezza le famiglie ad affidare le figlie a un uomo e forse anche la vergogna di avere creduto al miraggio del successo. La regista non dà molto spazio allo scavo ma purtuttavia ha fatto emergere dal silenzio una pagina di storia italiana ed è riuscita a dare voce alle, oggi non più giovani, protagoniste della band, a fare loro raccontare una verità soggettiva che fa luce sulla loro crescita personale e relazionale, avvenuta malgrado la violenza del contesto, e sulla forza di verità che le loro parole possiedono ancora oggi dopo mezzo secolo; questo sentimento sgorga secondo me e contagia dallo sforzo che hanno fatto per capire l’esperienza vissuta, dandole finalmente un valore, in quanto nodo da sciogliere che merita un racconto al di là delle categorie classiche della storiografia… Un viaggio all’inferno che solo oggi ha trovato spazio, ascolto e credibilità in un tempo presente mutato in cui donne che disseppelliscono traumi, dolori, storie sepolte di violenza hanno cittadinanza nel discorso pubblico, nella storia della comunità in cui sono vissute.


(www.libreriadelledonne.it, 29 giugno 2019)

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