22 Dicembre 2017

Dal populismo alla censura, nuova mossa di Trump

di Chiara Calori

Non posso evitare di parlare suonando preoccupata, allarmata e drammatica oltre ogni ragionevole misura, di fronte alla vicenda che ha coinvolto l’autorità sanitaria statunitense Center for disease control and prevention (CDC), la quale si è trovata assurdamente limitata dall’amministrazione Trump nella sua libertà di espressione, nella forma di un elenco preciso di termini da non utilizzare nelle richieste di finanziamenti per il 2019, le quali verranno rispedite al mittente “per correzioni” se contenenti le parole incriminate, evidentemente non gradite da esecutivo e Congresso. Un’operazione sottile, quasi raffinata, come dev’essere quando si vogliano introdurre limitazioni in una società democratica. Vediamo dunque le parole (già trattandosi dell’amministrazione Trump un’idea ce la si può fare, ma, anche qui, si è andati oltre ogni “ragionevole” aspettativa): diversità, diritto, vulnerabilità, transgender, feto, basato sulla scienza e basato sull’evidenza. Già l’insieme delle parole rivela una precisa scelta politica, diretta a colpire gli ambiti che vivono di quei termini e le relative politiche, quella delle donne in primis, e si potrebbe scrivere un articolo a parte per ciascuna di quelle espressioni. Invece di fare quello però, mi porrei piuttosto qualche domanda. Che cosa ha in mente un’amministrazione che vieta (o che sconsiglia caldamente, è uguale) l’utilizzo di un certo tipo di linguaggio? Perché poi farlo in sordina, quando ha ormai ben dimostrato di non voler fare un tipo di politica discreto e dialogante, bensì esplicito, fatto di slogan populisti e di eliminazione delle riforme democratiche dei suoi predecessori? Mi vengono in mente due risposte: o sperava che il tutto passasse inosservato, senza polveroni, o si è accorta che i diritti civili (tra cui il diritto alla salute per tutti) sono uno scoglio troppo saldo per pensare di travolgerlo con aperte riforme. Meglio lavorarlo alle fondamenta, di nascosto possibilmente.

Ogni tentativo di razionalizzare l’evento suona però falso e non riesce a cancellare l’impressione di fondo, che rievoca immagini, conosciute – almeno per le generazioni occidentali più recenti – solo leggendo libri, di stati totalitari che si ingeriscono nella vita e nella mente delle persone al punto di ridefinirne il vocabolario e la memoria. In 1984 si parla di “neolingua”, un inglese manipolato per servire gli scopi ideologici del regime, e di una storia collettiva che viene riscritta ogni giorno per renderla coerente con la narrazione statale o meglio, per costruirla. Perché è così: ciò che è raccontato esiste, e ciò cui viene negata la possibilità di essere detto viene privato della possibilità di esistere. Parafrasando Carla Lonzi, “quello che lui non dice non esiste”. Il linguaggio non è solo comunicazione. Il femminismo ne è ben consapevole, dal momento che proprio quello strumento ha reso possibile un riscatto delle donne, l’affermazione della loro pretesa di esistere (a modo loro) in questo mondo che è uno, la costruzione di una rete di riferimenti simbolici che funge da mappa per definirsi come identità uniche nel rispetto della propria singolarità (radicata nel genere). Qualsiasi attacco al linguaggio è un attacco all’essere umano e alla sua possibilità di esistere. Teniamo gli occhi e le orecchie aperti. Chissà quali potrebbero essere le prossime parole vietate…

(www.libreriadelledonne.it, 22 dicembre 2017)

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