23 Marzo 2020

Donne e uomini nella comunicazione pubblica sulla lotta al coronavirus

di Massimo Lizzi


Se donne e uomini sono in prima linea nella lotta al coronavirus, possiamo immaginare che, negli ospedali, il peso più grande nel soccorso e nella cura dei contagiati sia retto dalle donne. Mediche e infermiere. Le immagini simbolo di questo sacrificio sono infatti raffigurate da donne. Come la foto di Elena Pagliarini, l’infermiera stremata che si addormenta per cinque minuti sulla tastiera del computer con addosso cuffia, mascherina e guanti di lattice. O il disegno dell’infermiera che prende in braccio l’Italia, divulgato dall’associazione dei carabinieri di Chiaravalle.

Benché siano ancora prevalenti gli uomini nella comunicazione pubblica, abbiamo visto affermarsi molto bene come esperte alcune donne spesso consultate dai media. Ilaria Capua, virologa ed ex deputata italiana, nota per i suoi studi sui virus influenzali, in particolare, sull’influenza aviaria. Maria Rita Gismondo direttrice del reparto microbiologia e virologia all’Ospedale Luigi Sacco di Milano. Roberta Villa, giornalista scientifica, a lungo collaboratrice del Corriere della Sera.

La prevalenza maschile nella comunicazione pubblica ha i suoi soliti e noti motivi. Il retaggio patriarcale. Le posizioni di potere occupate soprattutto dagli uomini. Il superiore narcisismo dei maschi.

Detto ciò, credo ci sia una ragione particolare che giustifica il prevalere della parola pubblica degli uomini. Una parola allarmata, aggressiva e impositiva. La parola maschile sembra più adatta alla situazione di emergenza. In effetti, le donne intervenute nel dibattito pubblico, si sono affermate come punto di riferimento proprio nei giorni in cui sembrava importante contenere il panico. Il loro messaggio era rassicurante, riflessivo, persuasivo. A rischio però di favorire la sottovalutazione.

Comunicare sul coronavirus è complicato. Per evitare il panico, occorre dire che possiamo preoccuparci poco come singoli individui. Giovani, adulti, sani, anche se infettati, rimangono quasi sempre asintomatici o con sintomi lievi. Sono l’80 per cento dei contagiati. E potenziali vettori di contagio. Per evitare la sottovalutazione, occorre dire che dobbiamo preoccuparci molto come società. Perché, la minoranza percentuale dei contagiati, per lo più anziani o già affetti da altre patologie, forma in cifra assoluta un numero sempre più grande. Che diventa superiore ai posti disponibili in terapia intensiva negli ospedali. Superato questo limite, i medici dovranno decidere chi salvare. È vero che il servizio sanitario nazionale è stato colpevolmente indebolito dalle politiche neoliberiste di austerità e privatizzazione, tuttavia, se anche i posti in rianimazione fossero di più, persino infiniti, sarebbe impensabile lasciarli occupare a oltranza.

Questo doppio messaggio, preoccuparsi poco per sé e molto per la collettività, è assai difficile da far passare in una società individualista. Tra una popolazione con un debole senso civico, poco disposta all’osservanza delle regole, alle rinunce e ai sacrifici. Refrattaria a fare o non fare qualcosa per il bene pubblico, senza sentirsi motivata dal timore di un danno personale immediato. A volte, neppure questo è sufficiente. Basti pensare al comportamento autodistruttivo individuale dei fumatori, degli alcolisti, dei tossici, degli obesi. O degli automobilisti che non rispettano il codice della strada. Più o meno consapevoli dei rischi individuali, ma individualmente affidati alla speranza di farla franca. Anche questi, in genere, più uomini che donne.

La gestione di una situazione d’emergenza, che è pure una lotta contro il tempo, richiede un messaggio d’autorità molto forte. Se la politica e la scienza medica sono in crisi d’autorità, devono fare lo stesso la cosa giusta e necessaria, anche assumendosi la responsabilità dell’autoritarismo. Questa parte, ad oggi, è meglio interpretata dagli uomini.

Va detto, a disonore degli uomini, che i più riluttanti nel reagire all’emergenza sanitaria sono stati proprio i leader maschi più autoritari e conservatori in Occidente. E che sono spesso maschi quelli che fanno opposizione contro le necessarie misure di emergenza. O per il riflesso di un ideologismo demenziale, che vede in ogni emergenza un’invenzione del potere per giustificare i suoi dispositivi autoritari. O per far prevalere le ragioni dell’economia. Sono uomini i tanti imprenditori che costringono ancora centinaia di migliaia di lavoratrici e lavoratori ad andare al lavoro per svolgere mansioni e servizi non essenziali. Così, come sono uomini i responsabili di un modello di sviluppo globalizzato che ha creato le condizioni ideali per l’espansione di una pandemia virale, mai così rapida e travolgente.

Che le donne sembrino meno adeguate a comandare nell’emergenza, non vuol dire che non siano efficaci con il loro stile. Molto efficace, per esempio, è stata la dottoressa Barbara Balanzoni. Ex tenente medica dell’esercito italiano in Kosovo, accusata di disobbedienza continuata e aggravata, ma poi assolta, per aver salvato una gatta che stava morendo di parto. Anestesista, medica forense plurititolata, con base nel veronese, è laureata anche in Giurisprudenza Il 4 marzo, prima dei decreti del governo, si è ripresa in video, con un contegno severo, per lanciare un appello diretto e accorato, condiviso migliaia di volte e ripreso dai principali giornali. Ha detto: Vedo troppa gente in giro. C’è un grave pericolo di contagio. I respiratori stanno per finire e di anestesisti non ce ne saranno più. Perciò dovete stare a casa.


(www.libreriadelledonne.it, 23 marzo 2020)

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