8 Novembre 2018

Doppio sì. La maternità non è un permesso

di María-Milagros Rivera Garretas

 

In un notiziario molto seguito, diceva stamattina una sindacalista che i permessi di maternità “penalizzano sempre la stessa, la madre”; e che per questo bisogna darli della medesima durata anche al padre. Gli errori di pensiero di questo calibro, Simone Weil li ha chiamati quasi un secolo fa “errori di epistemologia”. E ha scritto: la capacità civilizzatrice di una civiltà si misura con gli errori di epistemologia in cui tale civiltà non mette la gente. Che una donna dica che i permessi di maternità bisogna darli anche – e uguali e, in caso, intrasferibili – al padre, è un errore di epistemologia. Un errore che fa spavento perché mette a nudo ancora una volta la poca capacità civilizzatrice della nostra cultura occidentale alla fine del patriarcato. Alcune donne, per paura e per alienazione, tentano di puntellare ciò che resta del patriarcato, invece di dire la propria verità, la verità delle donne.

È una penalizzazione per una madre stare con la sua bambina o il suo bambino, baciarla, allattarla, mettere via la sveglia e crescerla a suo gusto e ritmo? È la sua liberazione uscire di corsa a lavorare, lasciandola in mano a chiunque, un soldato, un padre…? È liberatorio per una madre ripetere gli errori della feroce competitività maschile nel mercato del lavoro? No. Mi dispiace. La competenza, in particolare quella femminile, è civilizzatrice perché è competenza simbolica, di senso; la competitività, no.

Nel libro L’anima del corpo. Contro l’utero in affitto (2016) Luisa Muraro ha scritto che il “permesso” di maternità è degradante per una donna. Fermati un istante prima di pensare che è pazza. È una verità come un tempio, di quelle che, come i templi, danno un taglio nel terreno e improvvisamente aprono a qualcosa di sacro, adesso a una nuova civiltà, occidentale o non che sia. Non abbiamo bisogno, né le madri né le donne, di permessi maschili, né di maternità né di niente. Abbiamo bisogno di essere in pace quello che siamo: le signore del gioco della civiltà. È il mercato del lavoro che deve adattarsi alla maternità e all’essere donna, ai nostri gusti e modi, non la maternità né la libertà femminile al mercato del lavoro. Ancor meno quando la natalità è come è, coerentemente.

Noi donne vogliamo e necessitiamo il doppio sì: sì al lavoro pagato, sì alla maternità, ciascuno dei sì tutto intero, ciascuno dei due sì un tutto. Assurdo? No, non per una donna, che ha la capacità di essere due. Risulta assurdo solo alla testa razionale di un piccolo razionalista, di un piccolo patriarca, o di una donna deportata in tale sgradevole posto. Il lavoro non è più Dio.

Le donne hanno una propria produttività. È produttività di vita e di relazioni. Fa mondo e sostiene il mondo già fatto, rinnovandolo continuamente con la nascita e riaggiustandolo seppellendo i suoi morti. Ha la propria misura di valore del tempo e della ricchezza, una misura a cui il denaro, la ripetizione e la fretta stanno stretti.

Ha il proprio eccedente e il proprio plusvalore, che è l’autorità femminile, quel “di più” generato dalle relazioni, paradigmaticamente la relazione tra madre e figlia e tra madre e figlio, relazioni diverse, ciascuna con il proprio andare e la propria trascendenza. È un delitto e una stupidità perseguitarla o considerarla una condanna.

(Traduzione dallo spagnolo di Clara Jourdan. Testo originale: El permiso de maternidad ¿es degradante para una mujer?, http://www.ub.edu/duoda/web/es/textos/1/229/, 30 ottobre 2018.)

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