16 Maggio 2020

L’emergenza umanitaria dello stupro a pagamento

di Silvia Baratella


Ho letto su il manifesto del 12 maggio 2020 un articolo che mi sarei aspettata di trovare su un quotidiano ultraliberista, di quelli disposti a tutto pur di fare Pil, di quelli che travestono precariato e caporalato da “libera iniziativa imprenditoriale” e considerano dannoso “statalismo” la previdenza sociale e il servizio sanitario universale.

L’articolo, a firma Shendi Veli, si intitola «L’emergenza umanitaria del lavoro sessuale». Con cinismo travestito da sollecitudine, propone come soluzione ai problemi di sussistenza che la pandemia causa alle donne prostituite la legalizzazione dell’accesso sessuale maschile ai corpi delle donne e del relativo “indotto” (leggi: “sfruttamento”, reato in Italia grazie alla legge Merlin), del cui “giro d’affari” (leggi: traffico) presenta le cifre miliardarie stimate dal Codacons, che forse considera come “consumatori” bisognosi di tutela anche i prostitutori, quelli cioè che il linguaggio comune fa passare per innocui “clienti” ma senza i quali la prostituzione non esisterebbe.

La legalizzazione, dice l’articolo, libererebbe le donne prostituite dallo stigma. Davvero? Nei paesi in cui la prostituzione è legalizzata, le donne che la esercitano usano spesso pseudonimi per non farsi identificare e i “clienti” intervistati nell’ambito di inchieste, perlopiù, affermano che non accetterebbero mai come loro compagna una donna che la esercitassei. Insomma, lo stigma sulle donne prostituite permane, ma prostitutori e sfruttatori sono riabilitati. Lo stigma infatti è parte dello stesso disprezzo che spinge gli uomini a imporre a una donna per mezzo dei soldi un rapporto sessuale da lei non cercato, in cui il suo piacere non ha spazio, e che risulta quasi sistematicamente violento e volutamente umiliante. È parte integrante e inscindibile del “pacchetto”, legalizzando la prostituzione lo stigma si legittima.

Ma, dice l’articolo, con la legalizzazione almeno offriremmo a chi esercita la prostituzione gli ammortizzatori sociali, che ci vorrebbero adesso nella pandemia. Come dire che agli schiavi sono stati negati i mezzi di sussistenza abolendo la schiavitù, e che va ripristinata, ma con “tutele legali”.

Nell’articolo troviamo le parole di Claudia, trans argentina cinquantenne (i grassetti sono miei): «Sono arrivata in Italia nel 2003 sognando una vita normale, ma non sono riuscita a evitare la strada sulla quale sono stata per più di trent’anni. Adesso mi sento vecchia, la malattia è arrivata [l’Hiv, Ndr] ma sto bene e sono in cura allo Spallanzani. Quando hai fame e arriva il cliente che ti offre il doppio per non usare il preservativo non riesci a pensare a te e alla tua salute, pensi solo alle cose che potresti fare con quei soldi. È difficile essere assunta per una donna trans e senza documenti. Mi piacerebbe fare i lavori per cui ho studiato. Sono sarta e parrucchiera. Ogni tanto chi mi conosce in zona mi chiede di fargli un orlo, o sistemare una cerniera. In questi giorni sto facendo anche mascherine, ma quelle le regalo».

Lei aspira a documenti in regola, a togliersi dalla strada, a lavorare come sarta. La risposta dell’articolo è proporre di legalizzare la sua situazione attuale, sancire che resti in balia di chi specula sul suo bisogno per pagarsi il “diritto” di infettarla a piacimento con l’Hiv. O crediamo davvero che dove la prostituzione è regolamentata questo non accada? Non c’è modo di controllare e imporre che il prostitutore usi il preservativo, a meno di non mettere un poliziotto in camera o schedare preventivamente l’aspirante “cliente”. Cosa che nessuno fa, nei paesi legalizzati, perché ovviamente il prostitutore non l’accetterebbe e il “mercato” crollerebbe.

L’articolo ha anche il torto di dare un’idea falsata della legge Merlin: «Formalmente non è illegale scambiare servizi sessuali per denaro, ma costituiscono reato tutte le attività collegate a questo. […] Questo quadro legislativo di fatto ci costringe a muoverci sempre nell’economia informale, con tutti i rischi annessi. Per questo il nostro obiettivo a livello mondiale è la decriminalizzazione», dice un’attivista del Collettivo Ombre Rosse (grassetto mio).

Così facendo, si contrappone la “decriminalizzazione” alla legge Merlin, dando l’impressione errata che questa criminalizzi le donne prostituite. È stata invece questa legge (n. 75 del 4/3/1958) a depenalizzare l’atto delle donne di prostituirsi. Era reato prima, se al di fuori della “regolamentazione” (cioè delle famigerate “case chiuse”), e le donne rinchiuse nelle case subivano gravissime restrizioni dei diritti civili e politici. La “decriminalizzazione” che si propone oggi, quindi, è in realtà quella dello sfruttamento della prostituzione, che la legge (il cui titolo è «Abolizione della regolamentazione della prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui») ha giustamente codificato come reato penale.

Ma – dice sempre l’attivista del Collettivo Ombre Rosse – la legge Merlin «lascia però indefinita la regolamentazione del lavoro sessuale». Certo che sì, perché la prostituzione non è né sesso né lavoro, è un abuso maschile contro le donne, che si basa implicitamente su un’idea di normalità dell’assoggettamento delle donne agli uomini, la riproduce e la tramanda. Un’idea da sconfiggere, anche abolendo la prostituzione come si è abolita la schiavitù.

Le difficili condizioni economiche delle donne prostituite in questi tempi di pandemia, in cui i contatti fisici sono impossibili, devono diventare l’occasione per costruire un’alternativa alla prostituzione per tutte coloro che lo desiderano: oltre al sostegno economico immediato, si tratta di far sì che tutte le Claudie che si trovano nel nostro paese possano sottrarsi a chi si sente in diritto di usarle, accedere ai documenti se straniere, e alla possibilità di lavorare da sarta o da qualsiasi cosa abbiano studiato, in libertà.


i Vd. a tal proposito le parti dedicate all’Olanda de «Il mito Pretty Woman. Come la lobby dell’industria del sesso ci spaccia la prostituzione» di Julie Bindel (VandA.epublishing, 2018), recensito anche da il manifesto l’anno scorso.


(www.libreriadelledonne.it, 16 maggio 2020)

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