12 Gennaio 2018

Noi non performiamo, noi siamo

di Sara Gandini

 

“Gender (R)evolution” (ed.Mursia) è il titolo dell’ultimo libro di Monica Romano, attivista, scrittrice ed esponente trans del movimento LGBT italiano. L’autrice racconta i suoi vent’anni di esperienza di attivista e insieme le storie di chi negli ultimi cinquant’anni ha lottato in Italia e all’estero per il riconoscimento e i diritti delle persone T (trans). Le narrazioni si intersecano anche a letture che hanno rivoluzionato la sua visione delle cose, permettendo una presa di coscienza sul proprio desiderio e sulle lotte politiche conseguenti.

“Sarai una donna per il mondo tra poco, per cui ci sono cose che devi imparare e fare tue. Ad esempio gestire gli uomini con scaltrezza…”, le diceva la madre mentre Romano intraprendeva a 19 anni il percorso di transizione per divenire una donna trans (MtF, in gergo, male to female, da uomo a donna). Il sostegno della madre non le manca e questo è fondamentale per Monica Romano, che a tratti le sembra che il mondo stia cambiando, che si stia cominciato a capire, che la discriminazione sia a un passo dall’essere finita, ma di fronte alle violenze subite da alcune trans il dolore ha la meglio e riemerge la paura che si tratti solo di una illusione. E ci pone una domanda: perché c’è così tanto odio nei loro confronti?

Monica Romano sa bene di cosa parla perché le donne trans sono anche più esposte alle violenze rispetto agli uomini trans (FtM). Questi ultimi si mimetizzano, mentre le donne trans diventano dei bersagli. D’altra parte per il senso comune “una donna che diventa uomo” è molto più tollerata, perché sale nella scala sociale mentre “un uomo che diventa donna”, abdicando al privilegio di appartenere al genere dominante e al potere che ne consegue, è sovversivo rispetto all’ordine patriarcale, quindi imperdonabile.

L’autrice racconta infatti delle violenze subite da alcune “sorelle”, come le chiama lei, vittime del maschilismo e costrette a lavorare nell’industria del sesso. Per molte trans la prostituzione coatta è l’unica via possibile perché il mondo del lavoro è accecato dai pregiudizi.

E così le domande di senso si susseguono lungo il libro: Perché la società non è pronta per noi? Che cosa significa essere transessuali o transgender? Perché siamo quello che siamo? Nasciamo così o lo diventiamo? Per finire con la domanda più dura: la nostra è davvero una malattia?

L’autoironia le salva anche rispetto al rischio di perdersi tra definizioni, categorie e identità che caratterizzano i movimenti per i diritti civili: “gender fluid”, “gender queer”, “intersex”, “androgino”, “bigender”…
Ironia e senso critico sono le loro armi. E così in tutto il libro il ricorso alla medicalizzazione viene problematizzato e denunciati gli interessi dei chirurghi estetici che si approfittano delle fragilità dei/delle trans. La Romano ricorda inoltre che in Italia, così come in molti paesi, il cambio di sesso viene accettato anche senza la chirurgia demolitiva degli organi genitali. Sostiene tuttavia che la modifica del proprio corpo, anche medica, può essere fondamentale per vivere in pace con se stessi, per chi soffre di disforia di genere, ovvero quelle situazioni in cui sesso biologico non corrisponde a ciò che si sente vero e giusto per sé.
Le contraddizioni fanno parte della loro quotidianità: da una parte coniano il termine “euforia di genere” raccontando della gioia di vivere in alcuni momenti di conquiste e di condivisioni, e dall’altra l’autrice confessa il disprezzo che provavano verso loro stessi e il fatto che nessuno di loro sia immune da quel male dell’anima chiamato transfobia interiore.
Lottano per non mancare di rispetto verso se stesse, pur di farsi accettare e cercare redenzione da un presunto peccato originale: quello di cercare di “sembrare donne”. E così festeggiano tutte/i insieme quando qualcuna di loro rinuncia a fare l’operazione e cerca di accettarsi “senza mutilazioni”.

Quello che mi è piaciuto del suo sguardo è l’assenza di un punto di vista morale, di cosa sia giusto o sbagliato rispetto a chirurgie demolitive, terapie ormonali o altro. Stare all’ascolto dell’altra, alla sua verità soggettiva, è la loro pratica, come quella del femminismo che amo. Perché la messa in parola di ambivalenze e contraddizioni porta alla ricerca del proprio desiderio.

“Di quante parole avevamo bisogno” scrive “riprendevamo quel filo della nostra narrazione corale che ci era stato tolto dalle mani, partendo dalle singole storie”. Si rendono conto di avere un vissuto unico di cui devono prendere la responsabilità ed esserne protagoniste anche nella presa di parola.
Anche partendo da questo Romano polemizza con i fautori della cosiddetta “teoria gender”. Sottolinea che non avrebbe avuto alcun senso la sua lotta per essere riconosciuta donna dallo Stato e il suo definirsi donna transgender se la lotta trans fosse quella di cancellare i sessi. Il nominarsi donna trans, oltre a esprimere “la sua identificazione primaria al genere femminile”, come lei afferma, ha una valenza politica. Quando ha cominciato a fare attivismo ha iniziato a definirsi prima di tutto femminista e nomina il problema del maschile spacciato per neutro come un problema che permea tutti gli ambiti della vita, da quello famigliare a quello relazionale nel lavoro, dato che veniamo da una cultura patriarcale. Ribadisce quindi le relazioni politiche con gruppi femministi con cui ha iniziato da anni a creare ponti e alleanze, a partire dalla consapevolezza che il personale è politico e dal riconoscimento del valore dell’autocoscienza: “Noi non performiamo! Noi siamo” afferma la Romano.

Negli anni capisce che questa T, trans, diventa uno status per lei, non più un passaggio. Da allora in poi lei sarebbe stata una donna trans e “l’amore per il proprio corpo un ottimo presupposto da cui partire”, senza bisogno di rinnegare il dato biologico o la storia da cui viene.

Nel libro di Monica Romano ho letto di vite lontane dalla narrazione mainstream per cui i trans sarebbero solo casi umani, la cui vita è “una via crucis senza luce, quasi mistica e vagamente espiatoria.” Qui la fatica lascia spazio alla percezione che quel percorso è in realtà un dono, un viaggio che solo in minima parte riguarda il corpo e che ha regalato loro esperienze e incontri davvero speciali. Da una parte Monica Romano sottolinea l’importanza che nessuno pretenda di universalizzare la propria esperienza, rendendola paradigma, e tuttavia dichiara che le battaglie delle persone transgender hanno portata universale. La loro ricerca a mio parere ha molto a che fare con la ricerca del senso libero della differenza sessuale, fuori da logiche identitarie e biologismi. Monica Romano mostra un percorso personale e politico, a partire dalla riflessione sui corpi e sulla sessualità, che il femminismo secondo me dovrebbe riprendere.
La lettura di questo libro mi ha permesso di entrare in un mondo per me lontano e allo stesso tempo di ritrovarmi in una stimolante sintonia perché la differenza sessuale è un significante, un fatto “da scoprire e da produrre”, come scrivono le donne della comunità di Diotima nel loro primo libro “Il pensiero della differenza sessuale” (La Tartaruga, 1987). Monica Romano racconta di soggettività vive e combattive, molto politiche, e offre spunti da ascoltare e su cui riflettere, per il femminismo e non solo.

 

 

(libreriadelledonne.it, 12/01/18)

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