26 Gennaio 2018

Scommettere sulla soggettività libera delle millennial

di Sara Gandini

We should all be feminist” recita la t-shirt divenuta virale in pochissimo tempo, presentata da Maria Grazia Chiuri in occasione della sua prima collezione come direttrice creativa Dior. Meryl Streep al Festival di Londra del 2015 andò con una maglietta con la scritta “I’d rather be a rebel than a slave”, citazione della suffragetta Emmeline Pankhurst. Famose cantanti e modelle amate dalle adolescenti hanno indossato t-shirt con slogan “The future is female”, slogan usato nel 1972 dalle fondatrici della prima libreria femminista di New York. Sono donne come Emma Watson, Taylor Swift, Beyoncé, Lady Gaga e Madonna.

Questo accade perché le donne sono dappertutto e in una dimensione di libertà inedita nella storia. Indubbiamente una conquista del femminismo. Infatti gioiamo quando vediamo le manifestazioni di milioni di persone che si sono tenute inizialmente negli USA con la Women’s March e hanno coinvolto decine di capitali in tutto il mondo.

Freeda a mio avviso sta in questo contesto. È un prodotto editoriale indirizzato alle cosiddette millennial: giovani nate tra gli anni ’80 e i primi anni 2000 che arrivano in una società segnata dalla globalizzazione, la tecnologia e la crisi economica, ma che per la prima volta nella storia si sentono davvero libere. Freeda significa freedom al femminile: «di fare, di essere, di pensare, in una prospettiva di piena auto-determinazione» come spiega Daria Bernardoni, 31enne direttrice di Freeda, azienda in cui il 75% dei dipendenti sono giovani donne. Con i loro video raggiugono anche decine di milioni di persone. Parlano di lavoro e di masturbazione femminile, di artiste radicali (dalla Abramović a Niki de Saint Phalle), di personagge dello spettacolo, ma anche della storia come Franca Viola, che hanno cambiato la storia patriarcale. E si trovano video di donne comuni. Ricordo per esempio il video delle tre ragazze che raccontano di essersi inventate una impresa originale, le portiere di quartiere, partendo dalla esperienza delle loro nonne e dall’importanza del ruolo dei vicini di casa. Non sono le classiche emancipate degli anni ’70. «Non vogliamo sostituire lo stereotipo della donna madre con quello della donna manager» spiega la direttrice, «il punto è proprio la libertà di decidere chi e cosa diventare nella propria vita, quindi lavorare perché le condizioni di questa libertà si verifichino».

Per certi aspetti mi sembra una grande agorà, fatta di narrazioni di esperienze in prima persona. Tuttavia è giusto domandarci chi stia dietro questo enorme business, come sollecitano Pat Carra e Elena Leoni che accusano Freeda di avere ingannato le lettrici occultando le proprie mire. Nella interessante inchiesta di Dinamo press si scopre che Freeda è un progetto editoriale dove i contenuti femministi funzionano come cavallo di Troia per vendere l’enorme quantità di dati così ottenuti alle imprese che vogliono sfruttare quel target per le proprie strategie aziendali, proprio come Facebook. «I social network sono ancora una volta un dispositivo biopolitico attraverso cui intrappolare e far diventare merce i nostri dati personali» scrive di Arya Stark per Dinamo Press.

In sostanza le domande secondo me sono: se il femminismo diventa un prodotto del marketing (il cosiddetto pink-washing) si rischia di depotenziare le lotte delle donne? Queste realtà strumentalizzano il linguaggio del femminismo stravolgendone il senso? Se oggi si parla di “femminismo virale” è solo merito del mercato?

Ma non c’è solo questo. Freeda è stato criticato perché racconta di quel femminismo americano di stampo liberal che vede la libertà femminile come auto-affermazione imprenditoriale. In effetti è sotto gli occhi di tutti che ci sono contiguità forti tra la nascita della soggettività delle donne e la trasformazione individualista, autoimprenditoriale, neoliberale, dominata dal mercato che caratterizza il tempo presente.

Ora è chiaro a tutti che il mondo ci guadagna se ci sono le donne, ma è molto meno diffusa la consapevolezza che il mondo si debba trasformare perché le donne ci siano. Per questo nell’ambito del ciclo di incontri «Femminismo tremendamente vivo» alla Libreria delle donne di Milano abbiamo discusso di femminismo e neoliberismo a partire dal libro Femminismo e neoliberismo. Libertà femminile versus imprenditoria di sé e precarietà curato Tristana Dini e Stefania Tarantino e Il trucco. Sessualità e biopolitica nella fine di Berlusconi di Ida Dominijanni.

Sono libri importanti che scommettono che il discorso della differenza sessuale sia capace di produrre un’eccedenza rispetto all’ordine neoliberale. Visto che non possiamo chiamarci fuori dal contesto in cui viviamo, per modificarlo dobbiamo far leva sulla posizione asimmetrica ed eccedente in cui le donne si trovano.

Come si fa? Non abbiamo ricette ma scommesse. Luisa Muraro usa l’immaginario per spiegarlo e, in un articolo pubblicato su Via Dogana 3, nomina un famoso passaggio della Lettera ai Romani di Paolo per affrontare un concetto non facile: l’indipendenza simbolica. Perché se è vero che nella disparità di potere si obbedisce, tuttavia esiste anche altro che fa ordine e che non può essere cancellato: la soggettività libera. Così nei social network, come nell’impero romano, bisogna entrare come un elemento non integrabile, come un elemento che stona. Per questo da una quindicina di anni ogni settimana ci ritroviamo alla redazione “carnale” del sito della Libreria delle donne di Milano. Si tratta di un progetto di grande impegno, basato sulla passione politica e lavoro volontario di una quindicina di donne (e qualche uomo), che ha portato ad avere ogni giorno migliaia di visite al sito (con punte di 5.000 accessi). Lettrici e lettori arrivano al sito in larga parte da Facebook (il gruppo e la pagina amministrate da donne della libreria) e l’interesse principale è sui contributi originali che scriviamo noi della redazione, che discutiamo molto sul taglio da dare ai testi e sul linguaggio più efficace. Perché il femminismo italiano è caratterizzato da un pensiero critico fine, che però rischia di essere fin troppo sofisticato e di non saper parlare alle più giovani, che si orientano sul web grazie a testi brevi e un linguaggio immediato. Sappiamo che c’è fame di uno sguardo intelligente sul mondo che sappia orientare, ma c’è bisogno di un pensiero che sappia fare le necessarie mediazioni, anche con le millenial, che sono ragazze sveglie, portano una soggettività libera, corrono veloci ed io vorrei correre con loro.

(www.libreriadelledonne.it, 26 gennaio 2018)

Print Friendly, PDF & Email