7 Marzo 2019

Senatore Manconi, anche la Corte Costituzionale ti dice no

di Massimo Lizzi

 

Sul Foglio del 5 marzo 2019, Luigi Manconi prende spunto dal controllo di legittimità costituzionale sulla legge Merlin, per proporre una «parziale e prudente legalizzazione» della prostituzione allo scopo, «non di abolire il male, ma di circoscriverlo», secondo una «concezione profondamente laica dello stato» e la «dottrina cattolica del male minore»; all’opposto «dell’ispirazione pedagogica e disciplinare» della senatrice Lina Merlin che, per liberare le donne prostitute ed educare la coscienza sessuale del cittadino, volle abolire le case chiuse e introdurre reati contro lo sfruttamento della prostituzione, senza però vietarne l’esercizio. Una legge contraddittoria, per l’ex senatore democratico, persuaso che la trasformazione della prostituzione in tanti sotto mercati (donne libere, schiave, minori, trans) richieda ormai politiche differenti: repressive contro la tratta e la prostituzione minorile; di emersione dalla clandestinità, con prelievo fiscale e controlli igienico sanitari nei confronti della prostituzione libera; un principio di riduzione del danno già applicato ad altri fenomeni sociali molto diffusi e oggetto di riprovazione morale: il gioco d’azzardo, il consumo di droghe e alcol.

Fin qui, il testo di Manconi.

In merito alla sua proposta, va detto che se la prostituzione non è vietata dalla legge Merlin, il suo carattere clandestino non dipende dalle limitazioni della legge, ma dalla riprovazione morale. Una norma legittimante non risolverebbe una tale questione come non l’ha risolta nei paesi regolamentaristi; se la norma si proponesse di incoraggiare una morale più liberale assumerebbe proprio quella funzione pedagogica che il senatore attribuisce alla Legge Merlin; solo di segno contrario. Peraltro, la legalizzazione ha tra le sue motivazioni di fondo, non quella di rendere la prostituzione più visibile, bensì quella di toglierla dalla strada, dallo sguardo pubblico, per confinarla nelle case chiuse e in zone rosse. Più che una emersione, una regolamentazione della clandestinità.

Il contenimento del male nell’articolo del Foglio è indefinito e soltanto teorico. L’autore non dice in cosa consiste per lui il male della prostituzione. Quando il male è inequivocabile, nel caso dello sfruttamento minorile o della tratta, egli chiede la repressione, come se volesse abolire e non contenere. Quando la questione è controversa, nel caso del rapporto sessuale retribuito tra adulti consenzienti, egli chiede la legalizzazione. Ma per contenere cosa, visto che dal punto di vista laico-liberale in un simile rapporto non c’è alcun male? Forse egli intende, che legalizzare la prostituzione libera può arginare quella coatta, ma non spiega come e perché possa accadere, nel momento in cui le rappresenta separate.

Rappresentare la prostituzione distinta in sotto mercati può avere senso nell’analisi sociologica, ma non ha riscontro nella realtà, perché i veri beneficiari della legalizzazione (protettori, favoreggiatori, reclutatori, clienti) non fanno distinzioni: tutte le offerte possono trovarsi nello stesso bordello, dove la prostituzione libera e legalizzata finisce per fare da copertina e copertura a tutto il resto. D’altra parte, ipotizzare una prostituzione regolata, riconosciuta, legittimata, vuol dire immaginarsela il più possibile civile, dignitosa, rispettata, tutelata e ben remunerata. In che modo ciò metterebbe un argine alla domanda maschile di prostituzione minorile, esotica, a basso costo, disponibile al sesso non protetto e a pratiche degradanti?

Dal mio punto di vista, la prostituzione è un male perché è violenza: infligge sesso indesiderato, quindi una forma di tortura, in cambio di denaro. È l’uso e il consumo di un essere umano, di una donna, al modo di una sostanza stupefacente, una bevanda alcolica, un giocattolo. Un trattamento deplorato, ma pure considerato normale, tanto che persino nei ragionamenti di una personalità democratica e progressista, che predica politiche differenti per fronteggiare una prostituzione frammentata, poiché puntare su una sola strategia sarebbe un gravissimo errore, ad un certo punto salta fuori il principio della riduzione del danno considerato sempre valido per tutte le situazioni: prostituzione, droga, alcol, gioco d’azzardo. Nonostante le smentite dei paesi che la legalizzazione della prostituzione l’hanno già sperimentata.

Nella prostituzione, il cliente non è una vittima, non è dipendente, e non si fa del male, lo fa lui alla donna prostituita. Ma se una persona, una donna è disposta a sottoporsi a violenza in cambio di un compenso, la sua soggettività non conta? La legge Merlin non glielo vieta, mentre persegue i suoi sfruttatori, e già in questo realizza un equilibrio, il migliore possibile tra il rispetto dell’autodeterminazione e la lotta allo sfruttamento. La situazione invece si sbilancia, se il mancato divieto diventa un’autorizzazione, con l’inevitabile corollario di autorizzare anche coloro che le fanno del male o vogliono aiutarla a farselo fare. Perché lo stato, la società dovrebbero dare una tale autorizzazione? Perché i difensori intellettuali e progressisti di una libera scelta già non vietata, indifferenti alle condizioni e le circostanze in cui matura, insistono nel voler ricevere dalla pubblica autorità una benedizione laica?

 

(www.libreriadelledonne.it, 7 marzo 2019)

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