6 Luglio 2015
il manifesto

Convertire il debito in investimenti

di Gabriel Colletis, Jean-Philippe Robé, Robert Salais


Risol­vere la crisi greca? Mal­grado le dichia­ra­zioni, i diri­genti euro­pei cer­cano soprat­tutto di «pas­sare l’estate»: tro­vando una solu­zione tem­po­ra­nea, senza trat­tare il pro­blema di fondo. Si con­ti­nua come prima, con il rischio che le popo­la­zioni, esa­spe­rate da come quest’Europa si è andata con­fi­gu­rando, fini­scano per eleg­gere par­titi nazio­na­li­sti di estrema destra.

La crisi interna di cui sof­fre l’Europa si è rive­lata nella defla­gra­zione finan­zia­ria inter­na­zio­nale del 2007–2008. Ma cova sin dalla crea­zione della moneta unica, eco­no­mi­ca­mente pre­ma­tura e isti­tu­zio­nal­mente non soste­ni­bile. Affin­ché l’introduzione di tassi di cam­bio fissi fra gli Stati mem­bri abbia senso – è il pro­getto di tutta la moneta unica -, occorre lavo­rare prima alla pro­gres­siva con­ver­genza dei ritmi di cre­scita della pro­dut­ti­vità. Non è stato il caso dell’Europa. In que­ste con­di­zioni, il dramma greco rap­pre­senta il caso estremo di una situa­zione dif­fusa: la mag­gior parte degli Stati mem­bri, com­prese Fran­cia e Ita­lia, farà fatica a sop­por­tare inde­fi­ni­ta­mente la parità esterna dell’euro e l’impossibilità di svalutare.

Di fronte alle dif­fe­renze di pro­dut­ti­vità e com­pe­ti­ti­vità, soprat­tutto rispetto alla Ger­ma­nia, la neces­sità di tra­sfe­ri­menti interni alla zona euro appare con chia­rezza. E ci rimanda alle idee svi­lup­pate dall’economista bri­tan­nico John May­nard Key­nes alla con­fe­renza di Bret­ton Woods, nel 1944.

La sua pro­po­sta, che potremmo adat­tare alla zona euro, era: esor­tare i paesi euro­pei ad appli­care il prin­ci­pio di una gestione coo­pe­ra­tiva delle rispet­tive bilance dei paga­menti per man­te­nerle intorno all’equilibrio. Non con sem­plici tra­sfe­ri­menti finan­ziari o con aggiu­sta­menti di cam­bio interni, ma con inve­sti­menti da parte dei paesi ecce­den­tari verso i paesi defi­ci­tari, così da cor­reg­gere gli squilibri.

Qual è il pro­blema prin­ci­pale della Gre­cia? Per molti, è la sua inca­pa­cità di ono­rare i pro­pri debiti. Secondo la com­mis­sione per la verità sul debito creata dal Par­la­mento elle­nico, l’attuale stock di debiti deriva dal for­tis­simo aumento dei tassi d’interesse (fra il 1988 e il 2000), da mas­sicce spese mili­tari e poi, a par­tire dal 2000, dalla caduta delle entrate dello Stato pro­vo­cata da eva­sione fiscale, amni­stie fiscali e altri «regali» con­cessi ai più abbienti.

Quest’analisi indi­vi­dua cer­ta­mente alcune delle cause dell’aumento del far­dello del debito greco. Ma non tutte. Per­ché il debito non è la causa dei mali del paese; piut­to­sto, li aggrava. Il pro­blema prin­ci­pale è il sot­to­svi­luppo delle atti­vità pro­dut­tive e il suo corol­la­rio: la grande dipen­denza della Gre­cia dai finan­zia­menti esterni.

Attual­mente, un’uscita della Gre­cia dalla zona euro seguita da una forte sva­lu­ta­zione della moneta nazio­nale col­pi­rebbe molto nega­ti­va­mente la capa­cità dei greci di pro­durre i beni dei quali neces­si­tano per vivere. Non solo il paese importa la quasi tota­lità dei beni di pro­du­zione e di con­sumo dure­voli, ma la sua bilan­cia com­mer­ciale è in rosso anche nei campi dell’energia, dei far­maci, del tes­sile, degli elet­tro­do­me­stici. È defi­ci­ta­rio anche il set­tore agricolo.

Dopo l’adesione della Gre­cia alla Comu­nità euro­pea, nel 1981, il con­sumo della popo­la­zione si avvi­cina pro­gres­si­va­mente a quello della media degli altri paesi euro­pei svi­lup­pati. Ma al tempo stesso, la pro­du­zione indu­striale crolla: la sua quota nel pro­dotto interno lordo passa dal 17% del 1980 al 10% circa nel 2009. Poi, dal 2009 al 2013, la pro­du­zione indu­striale è calata ulte­rior­mente del 30%.

Que­sta situa­zione fa sì che il paese, per equi­li­brare la pro­pria bilan­cia com­mer­ciale, dipenda in gran parte dal turi­smo e dai tra­sfe­ri­menti pro­ve­nienti dall’estero. Sto­ri­ca­mente, que­sti ultimi pro­ve­ni­vano da per­sone che risie­de­vano e lavo­ra­vano in altre parti del mondo (anni 1960–1980); a par­tire dagli anni 1980–1990, sono stati sosti­tuiti dai finan­zia­menti euro­pei. Dagli anni 1980, la Gre­cia – le sue ban­che, le sue imprese e in ultima istanza lo Stato – si rivol­gono ai mer­cati finan­ziari per finan­ziarsi. Una scelta che spiega l’esplosione del carico di inte­ressi dovuti da Atene.

Da una parte un appa­rato pro­dut­tivo carente, dall’altra la dipen­denza dai finan­zia­menti esterni (per­ché l’economia non pro­duce abba­stanza per soste­nere i red­diti e il con­sumo, e per finan­ziare lo Stato e i ser­vizi pub­blici): il dramma greco si avvi­luppa su se stesso.

Di fronte al dop­pio defi­cit, negli scambi con l’estero e nei conti pub­blici, i governi che si sono suc­ce­duti fra il 2008 e il 2015 – fino a quello di Antó­nis Sama­rás – hanno rispo­sto com­pri­mendo i con­sumi e la spesa pub­blica. La prima misura doveva ridurre il defi­cit della bilan­cia com­mer­ciale; la seconda, quello nei conti dello Stato. Gli effetti di que­ste scelte fune­ste sono noti: una con­tra­zione del Pil pari al 25%, un balzo della disoc­cu­pa­zione al 26% della popo­la­zione attiva e… un’esplosione del debito.

Entrando in con­trad­di­zione, dopo aver rico­no­sciuto in un rap­porto del 2013 che le misure impo­ste alla Gre­cia erano state un errore, il Fondo mone­ta­rio inter­na­zio­nale (Fmi) ha con­ti­nuato a pre­ten­dere una ridu­zione delle pen­sioni e un aumento dell’imposta sul valore aggiunto. Ma que­ste ricette non con­sen­tono di imma­gi­nare una ripresa della cre­scita, unica pro­spet­tiva di rim­borso dei debiti esi­stenti, che oggi supe­rano il 175% del Pil.

Quale altra pista imma­gi­nare? L’opzione dell’annullamento par­ziale, decisa uni­la­te­ral­mente, acui­rebbe le ten­sioni fra Atene e le isti­tu­zioni sulle quali il paese deve poter con­tare se desi­dera rima­nere nella zona euro. La mag­gio­ranza dei cre­di­tori l’ha esclusa. Essa inol­tre avrebbe un’efficacia solo tem­po­ra­nea, riman­dando a domani la ricerca di una vera solu­zione al pro­blema greco.

Ma esi­ste un’altra via: usare il pro­blema del debito come un’opportunità per indu­stria­liz­zare i paesi euro­pei in dif­fi­coltà, fra i quali la Gre­cia. Un pro­getto la cui por­tata va oltre il caso spe­ci­fico che oggi pre­oc­cupa mer­cati, media e diri­genti politici.

È pari ad almeno 50 miliardi di euro (in genere da rim­bor­sare fra il 2016 e il 2024) l’ammontare dei debiti greci che tutti con­si­de­rano persi. Si tratta del 15% circa del totale. Un pro­getto di uscita dalla crisi che si fon­dasse su un piano di indu­stria­liz­za­zione del paese offri­rebbe ai cre­di­tori una garan­zia abba­stanza seria di essere rimborsati.

E come? Il bilan­cio dello Stato greco ha un ecce­dente pri­ma­rio. Insomma, prima del ser­vi­zio del debito, il governo spende meno del totale delle impo­ste che incassa. Ci sono due modi di ana­liz­zare que­sta situa­zione: o vedervi una capa­cità di rim­borso, ed è que­sto che imman­ca­bil­mente sot­to­li­neano i cre­di­tori; oppure una capa­cità di inve­sti­mento, che un nego­ziato potrebbe promuovere.

La seconda pista implica una pre­via ristrut­tu­ra­zione del debito, senza un nuovo finan­zia­mento da parte del Fmi o della zona euro. L’operazione avrebbe due obiet­tivi prin­ci­pali. Da una parte, far pas­sare nelle mani di Stati euro­pei i cre­diti attual­mente dete­nuti dal Fmi e dalla Banca cen­trale euro­pea (Bce) con sca­denza 2016–2024, ovvero il 70% del totale. D’altra parte, ren­dere più fles­si­bili le date di paga­mento di alcune sca­denze affin­ché l’ammontare totale dei rim­borsi dovuti per un deter­mi­nato periodo non sia supe­riore all’eccedente primario.

Gli Stati diven­tati deten­tori, al posto del Fmi e della Bce, del debito greco da pagare nel periodo 2016–2024 con­fe­ri­reb­bero i loro cre­diti, di un ammon­tare pari a 50 miliardi di euro, a fondi di inve­sti­mento pub­blici bila­te­rali. Que­sti ultimi sareb­bero dete­nuti in eguale misura da due isti­tu­zioni pub­bli­che. Nel caso della Fran­cia potrebbe trat­tarsi della Ban­que publi­que d’investissement(Banca pub­blica di inve­sti­mento — Bpi); per la Ger­ma­nia, della Kre­di­tan­stalt für Wie­de­rauf­bau (Isti­tuto di cre­dito per la rico­stru­zione). Il fondo franco-greco deter­rebbe il 20% dei cre­diti verso lo Stato greco; il suo omo­logo tedesco-greco, il 27%, ecc.

La Gre­cia con­ti­nue­rebbe a ono­rare il paga­mento del debito ma – ed è il punto essen­ziale – il denaro andrebbe a fondi inca­ri­cati di inve­stire nell’economia pro­dut­tiva del paese. Detto in altri ter­mini, invece di andare ad arric­chire le tasche dei cre­di­tori, le somme sareb­bero messe a pro­fitto per svi­lup­pare l’industria locale. Gli stati creditori-investitori sareb­bero rim­bor­sati una volta rea­liz­zati e ven­duti gli inve­sti­menti. Il diritto della con­cor­renza dell’Ue si è ben adat­tato finora ai fondi sovrani nazio­nali; non si vede per­ché dovrebbe disap­pro­vare fondi bila­te­rali che per­se­gui­reb­bero fina­lità del tutto simili.

Il coor­di­na­mento degli inve­sti­menti avver­rebbe essen­zial­mente sotto l’egida della banca di svi­luppo greca, part­ner di cia­scuno dei fondi. Ma si avvar­rebbe dell’esperienza dei fondi nazio­nali, che per­met­te­rebbe di evi­tare certi errori del pas­sato, a comin­ciare dagli spre­chi. Si può anche imma­gi­nare che la Banca euro­pea degli inve­sti­menti (Bei), la Banca euro­pea per la rico­stru­zione e lo svi­luppo (Berd) e/o la Banca mon­diale met­tano la loro espe­rienza e una parte della loro capa­cità di inve­sti­mento al ser­vi­zio dei pro­getti individuati.

Que­sta pro­po­sta richiede uno sforzo di imma­gi­na­zione da parte dell’Europa, ma implica anche che la Gre­cia si impe­gni in una pro­fonda riforma delle pro­prie isti­tu­zioni per uscire dal solco tra­di­zio­nale: quello di un’economia di ren­dita (ren­dita turi­stica, ren­dita immo­bi­liare, pro­fitti legati al com­mer­cio di impor­ta­zione) infet­tata dal clientelismo.

Occor­re­rebbe indub­bia­mente creare nuove isti­tu­zioni – come la banca di svi­luppo greca in via di costi­tu­zione –, miglio­rare il regime fiscale degli inve­sti­menti esteri, rea­liz­zare un vero cata­sto per l’insieme del paese.

D’altra parte occor­re­rebbe soste­nere la ricerca, inco­rag­giare il decen­tra­mento… Insomma, un can­tiere isti­tu­zio­nale di ampia por­tata, corol­la­rio di un pro­getto di svi­luppo senza il quale la Gre­cia non potrà uscire dalle dif­fi­coltà ere­di­tate dal pas­sato e che i piani di auste­rità hanno al tempo stesso evi­den­ziato e aggravato.

Dun­que lo sforzo sarebbe impo­nente, ma il gioco non vale forse la can­dela? I cre­di­tori diven­tati inve­sti­tori con­tri­bui­reb­bero all’industrializzazione della Gre­cia, alla crea­zione di posti di lavoro nell’industria, alla ridu­zione della disoc­cu­pa­zione, alla cre­scita dei con­sumi, all’aumento delle entrate fiscali, al rim­pa­trio dei capi­tali gra­zie all’ancoraggio della Gre­cia nella zona euro, ecc. Si cree­rebbe un cir­colo vir­tuoso, pro­prio il con­tra­rio dell’attuale cir­colo vizioso trac­ciato dalle poli­ti­che di auste­rità. Senza con­tare che uno dei van­taggi di que­sto piano sarebbe indi­vi­duare nuove occa­sioni di inve­sti­mento per gli indu­striali del nord Europa. In altri ter­mini, il rilan­cio dell’Europa inde­bi­tata ser­vi­rebbe anche a quello dell’Unione nel suo insieme.

E andiamo oltre: per­ché non appro­fit­tare di que­sto pro­getto per appro­fon­dire le com­ple­men­ta­rietà indu­striali all’interno dell’Unione? Bru­xel­les sem­bra attual­mente fomen­tare una con­cor­renza fron­tale fra gli appa­rati pro­dut­tivi nazio­nali. Non si potrebbe invece far sì che gli inve­sti­menti da avviare in Gre­cia siano sele­zio­nati per rispon­dere ai biso­gni della popo­la­zione ma anche per inse­rirsi in un sistema pro­dut­tivo dav­vero europeo?

Le eccel­lenze gre­che in certi campi, agroa­li­men­tare, cosmesi natu­rale, can­tie­ri­stica e per­fino alcune atti­vità legate ai distretti aero­spa­ziali potreb­bero essere svi­lup­pate e aiu­tare la base indu­striale dell’insieme della regione.

Un nuovo modello, suscet­ti­bile di essere ripro­dotto altrove in Europa, apri­rebbe la strada a un vero rilan­cio euro­peo. Invece di una corsa al pro­dut­ti­vi­smo, con­sen­ti­rebbe di avviare il con­ti­nente sulla strada di uno svi­luppo nuovo, eco­lo­gico, umano e soli­dale, sulla base di cri­teri ela­bo­rati in modo democratico.

Alla fine, la sfida, al di là del caso Gre­cia, è quella di far avan­zare l’Europa verso un co-sviluppo inse­rito nel qua­dro della tran­si­zione ener­ge­tica e dello svi­luppo soste­ni­bile. Il pro­getto euro­peo sarebbe rilan­ciato su basi nuove: coo­pe­ra­zione, ricerca dell’efficienza ambien­tale e sociale, la mag­giore demo­cra­tiz­za­zione pos­si­bile delle scelte poli­ti­che, eco­no­mi­che e finanziarie.

Non resta che eli­mi­nare il condizionale….

* Gli autori sono rispet­ti­va­mente: pro­fes­sore di eco­no­mia all’università Toulouse-1 Capi­tole e ricer­ca­tore presso il Labo­ra­toire d’étude et de recher­che sur l’économie, les poli­ti­ques et les systè­mes sociaux (Lereps); avvo­cato del foro di Parigi e del foro di New York; diret­tore di ricerca eme­rito in eco­no­mia al Cen­tre natio­nal de la recher­che scien­ti­fi­que (Cnrs)

(Tra­du­zione di Mari­nella Correggia – il manifesto, 6/7/2015)

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