28 Marzo 2013
L’Unità

Corpo a corpo col male oscuro

Una donna in lotta con la malattia nel nuovo libro di Vita Cosentino

di Luisa Muraro

Tam tam (Nottetempo 2013) è la storia di un combattimento che comincia con uno scontro violento: una “lei” protagonista, una donna in carne e ossa, viene colta di sorpresa e atterrata da un avversario invisibile; costui, potente e impersonale, assestato il primo colpo, non colpisce più ma resta sul posto, sensibilmente presente negli effetti del colpo assestato e nell’impossibilità della scienza medica di escludere che possa rifarlo.

La storia comincia come ho detto ma il racconto che ne fa la protagonista, Vita Cosentino, no, il racconto comincia in medias res, che sono le cose quotidiane di un’esistenza già colpita, già spartita fra un prima e un “dopo” dal danno fatto al corpo.

Io uso un linguaggio epico perché mi pare degno di questa storia e di questa donna, non le tradisce. Ma la lingua che “lei” usa è ben diversa, per forza, lei non contempla, non ammira, lei è presa dentro, impegnata a farcela. Il teatro del suo impegno è ampio ma ogni movimento, per quanto ampio, parte e riparte in pratica dalla vita quotidiana, là dove i corpi viventi trovano assicurata una risposta alle loro esigenze essenziali; per lei non ci sono alternative.

In verità non ci sono per nessuno, come ha tentato di farci capire Montaigne, con poco frutto allora; oggi? Si tratta della condizione umana, quella di tutte e di tutti, che è esposta alla morte e alle malattie, sì, ma che conosce anche piaceri e gioie, e che oltre alla malattia e alla morte, ha tanti altri modi per metterci alla prova, in primis il nostro attaccamento alla vita, e per torturarci, ma che offre anche straordinarie e ordinarie risorse per resistere e, a sprazzi, essere felici. Insomma una condizione “bella e crudele” come si diceva delle eroine negative dei romanzi rosa d’un tempo. Condizione comune che produce vite una diversa dall’altra. Non è sbagliato dire che alcune sono “più diverse”, come questa che, uscita bruscamente dai suoi cardini, cerca di ritrovare un assetto. Lo cerca anche raccontandosi.

Se il racconto vi sembra troppo breve, considerate che la sua materia sono vissuti che bisogna raccogliere perchè sfuggono alle parole come biglie che rotolano sotto i mobili, ed è una fatica. Si sente che in questo lavoro di raccolta la pressione del reale lascia poco spazio al volo della fantasia e l’aiuto viene più dalla grammatica che dalla letteratura. Una frase dopo l’altra, un passo dopo l’altro. Il “lei” sostituisce un “io”, come insegnano nelle scuole di scrittura per aiutare a distaccarsi da sé: l’intervallo tra la prima e la terza persona è enorme, la linguistica lo sa, infatti gli apprendisti della scrittura faticano a fare il passo. Ma qui, probabilmente, la situazione è ben diversa, nel senso che l’intervallo c’era già, era una crepa nell’integrità personale apertasi con il trauma iniziale, e lo scrivere di sé in terza persona, più che un espediente per prendere le distanze, potrebbe essere un ponte necessario verso l’inaccettabile.

Le persone che compaiono nel racconto condividono con la protagonista la scelta grammaticale di presentarsi senza nome proprio, con un pronome. S’intuisce che “prima” avevano tutte un nome, appartengono infatti a una cerchia amicale e politica di “lei”. C’è un personaggio che fa eccezione, un gattino, a rigore non una persona ma con buoni titoli per essere considerato tale; il privilegio del nome proprio si deve al fatto che lui (è un maschio) non esisteva “prima”, nasce infatti nel corso della vicenda, con caratteristiche miste tra l’umano, l’animale e il divino.

Che salvezza è quella che ci dà la scrittura, mi chiedevo e pensavo: domanda senza risposta per una parola, “salvezza”, che, separandosi dalla “salute”, ha perso molto del suo significato. Ma Vita Cosentino e la sua testimonianza mi smentiscono: salute e salvezza si chiamano e si frequentano anche a nostra insaputa. In altre parole: la salute non va mai da sola e quando è perduta, va cercata insieme ad altre cose.

Il valore inestimabile di Tam tam è che ci fa conoscere la condizione umana in una versione modificata nel suo stesso impianto, compreso dunque l’attaccamento alla vita come anche l’esposizione alla morte. La causa del cambiamento è in quel primo colpo ma non soltanto. Leggendo, si viene a scoprire che il colpo non si allontana mai nel tempo perché i suoi effetti non vengono mai dichiarati irreversibili, di modo che per la persona colpita non viene mai il tempo della rassegnazione e dell’adattamento. C’è un lento progresso in questa direzione, ma non può essere una direzione prescelta, al contrario, perché bisogna continuare a combattere.

Uscita dal suo corso abituale, impedita di entrare completamente in un nuovo tipo di normalità, perdute le illusioni correnti, come un paesaggio quando va giù la nebbia, la condizione umana si mostra così nel suo dipanarsi che ogni tanto diventa un cieco dibattersi. Resta la condizione “bella e crudele” che conosciamo, anzi lo diventa due volte. Ma avviene qualcosa di nuovo, ci sono delle scoperte, il paesaggio non è più lo stesso.

Nella versione modificata della condizione umana, colpisce che la morte non assume il valore di un esito finale sempre rimandato o prontamente dimenticato, tanto meno quello romanzesco e cinematografico di un riscatto. Essa si fa più prossima e fa paura, ma non è il terrore, e in questa vicinanza rende più consapevole e attivo l’attaccamento alla vita. Là dove, per abitudine inveterata, si concepisce un’alternanza totale o un antagonismo estremo tra salute e malattia, tra vita e morte, s’instaura invece uno scambio che è indubbiamente di natura polemica, poiché di un combattimento si tratta, ma pur sempre uno scambio. Si percepisce nelle reticenze stesse del racconto.

L’altra scoperta a me sembra più nuova e perciò più grande. La donna che racconta, e con il racconto si aiuta, inventa un’arte di vivere di cui non ho mai letto: lei lotta per rifarsi una vita salvando quella di prima, vale a dire per creare una continuità nella tremenda discontinuità del danno patito. Bisogna evitare perdite e sprechi, trovare risorse e rimedi, non creare doppioni, buttare via il superfluo, salvare il meglio. La chiamo arte perché esige, al tempo stesso, istinto e intelligenza, e si traduce in scelte, compromessi, invenzioni, giorno per giorno. Dovrei essere più precisa ma preferisco evitare ogni anticipazione nemica dell’esperienza di lettura. Per trovare un corrispondente di quest’arte, si pensi alle città nate nel Medioevo, in Italia ne abbiamo tante, e al modo in cui sono cresciute, con rifacimenti parziali, integrazioni, accostamenti sorprendenti, un insieme ammirevole ispirato dall’accettazione della contingenza del nostro vivere e dal gusto della convivenza tra esseri umani.

 

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