9 Ottobre 2015
Corriere della sera

Così compresi la necessità di descrivere la guerra con le parole delle donne

Brano inedito tratto dal libro di Svetlana Aleksievic «La guerra non ha un volto di donna», che esce in novembre per l’editore Bompiani


di Svetlana Aleksievic

Il villaggio della mia infanzia dopo la guerra era un villaggio femminile. Di sole donne. Non ricordo una voce maschile. E così questo mi è rimasto: la guerra la raccontano le donne. Piangono. O cantano, ma è anche questo un pianto. Nella biblioteca scolastica una buona metà dei libri era sulla guerra. La stessa cosa nella biblioteca rurale e in quella del capoluogo di distretto, dove mio padre si recava spesso a prendere in prestito dei libri. Come mai? Adesso sono in grado di rispondere. Non è certo per caso, ma perché noi quando non eravamo in guerra ci preparavamo comunque a farla. Non abbiamo mai vissuto in altro modo. A scuola ci hanno insegnato ad amare la morte. Abbiamo scritto dei componimenti sul fatto che volevamo morire in nome… Fantasticavamo… Ma le voci della strada gridavano d’altro e attiravano di più. Sono stata per molto tempo una persona libresca, avulsa dalla realtà, anche se mi attraeva e spaventava al tempo stesso. Ma in definitiva l’ignoranza della vita reale ha reso possibile la temerarietà successiva. (…) Per due anni, più che incontrare persone e annotare i loro racconti, ho pensato. Ho letto. Di cosa avrebbe parlato il mio libro? Beh, sarebbe stato un altro libro sulla guerra? A che scopo? C’erano già state migliaia di guerre, grandi e piccole, note e meno note. E i libri che le avevano narrate erano ancora più numerosi. Ma… erano libri scritti da uomini e parlavano di uomini: questo balzava subito all’occhio. Tutto quello che sapevamo della guerra ci era stato trasmesso da voci «maschili». Siamo tutti prigionieri di una rappresentazione «maschile» della guerra. Che nasce da percezioni prettamente «maschili». Rese con parole «maschili». Nel silenzio delle donne. Nessuno, tranne me, ha mai chiesto niente a mia nonna, a mia madre. Tacciono perfino quelle che sono state al fronte. Se pure all’improvviso cominciano a ricordare, non raccontano la loro guerra «femminile», ma quella «maschile». Si adattano al canone invalso. E solo in casa o, piangendo, nella cerchia delle proprie amiche veterane, si mettono a narrare la propria guerra. A rivelarla. Ed è una guerra sconosciuta. Non solo per me, ma per tutti noi. Nelle mie trasferte sono stata più di una volta testimone, e sola ascoltatrice di testi assolutamente nuovi. E ne ero fortemente emozionata, come dalle letture giovanili. In quei racconti balenava talvolta, come un digrignare di denti, il terribile scintillio di un feroce mistero. Nei racconti delle donne non c’è, o non c’è quasi mai, ciò che siamo abituati a sentire: gente che ammazza eroicamente altra gente e vince. O viene sconfitta. E la tecnica schierata in campo e i generali. I racconti femminili sono altri e parlano d’altro. La guerra «al femminile» ha i propri colori, odori, una sua interpretazione dei fatti ed estensione dei sentimenti. E parole sue. Dove non ci sono eroi e strabilianti imprese, ma persone reali impegnate nella più disumana delle occupazioni dell’uomo. E a soffrirne non sono solo loro (le persone!), ma anche i campi, e gli uccelli, e gli alberi. Ogni cosa che convive con noi su questa terra. E, tranne noi, a soffrire erano esseri privi della parola, in una angoscia aggravata dalla mutezza. Ma come è potuto accadere? – me lo sono chiesto più di un volta: come mai, una volta acquisito e occupato il proprio posto in un mondo un tempo esclusivamente maschile, le donne non hanno saputo far valere con altrettanta forza la propria storia? Le proprie parole e sentimenti? Non ci hanno abbastanza creduto neanche loro. Tenendoci così nascosto tutto un mondo. La loro guerra è rimasta sconosciuta? Voglio scrivere la storia di questa guerra. Una storia al femminile.

(Traduzione di Sergio Rapetti )

 

(Corriere della Sera, 09 ottobre 2015)

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