Questo contributo può aiutare a riflettere sulla crisi della democrazia rappresentativa, che per quel che riguarda l’Italia si è accentuata con l’esito delle ultime elezioni politiche. Lo abbiamo scelto tra i materiali prodotti dalla Scuola di scrittura pensante presso la Libreria delle donne di Milano che quest’anno si è dedicata al linguaggio della scrittura politica.
22 Marzo 2013

Da Franklin Delano Roosevelt a Mario Monti: la democrazia sul precipizio

di Silvia Baratella e Giulia Ghirardini

 

Dopo aver letto il discorso pronunciato da F.D. Roosevelt all’atto del suo primo insediamento come presidente degli Stati Uniti d’America, il 4 marzo 1933, dopo la grande crisi del 1929, ci siamo interrogate su come la politica affronta oggi la grande crisi del 2008. L’abbiamo perciò confrontato con il discorso di insediamento di Mario Monti il 17 novembre 2011.

Siamo consce che si tratta di crisi profondamente diverse, a parte il fatto che entrambe sono esplose a partire dalla borsa degli Stati Uniti, a seguito di “bolle” finanziarie. Siamo consce anche che, in definitiva, dalla crisi del 1929 Roosevelt è uscito con la II guerra mondiale più che con il New Deal. Eppure abbiamo pensato che ragionare sullo scarto di approccio politico tra questi due personaggi possa esserci d’aiuto per ragionare sull’attuale crisi non tanto dell’economia, quanto della politica.

 

Nei due discorsi prevalgono le figure della conoscenza e della verità seguiti dalle figure del dovere. In entrambi si esplicitano conoscenza  e verità sulla crisi e sono presenti i provvedimenti da adottare. Roosevelt individua le responsabilità della crisi negli speculatori e negli incapaci, valorizza le risorse, la forza e la storia del popolo americano; è certo sulle politiche da adottare e sui poteri straordinari cui ricorrere in caso di emergenza. Ma non dice nulla sui modi di produzione, sul profitto, sulle discriminazioni verso i più poveri, sulla delinquenza organizzata, argomenti correlati allora come ora al sistema di produzione capitalistico. Evita di parlarne e lo stesso fa Monti che ha però almeno un’attenuante: il suo è un mandato limitato, deve evitare il rischio di fallimento dell’Italia e ottenere il voto delle Camere di cui fanno parte le forze politiche che non hanno affrontato la crisi, in qualche caso l’hanno anzi negata.

Roosevelt si rivolge ai cittadini, fa appello alla storia, alla Costituzione, ai valori, alla forza e alla responsabilità del popolo americano che l’ha ascoltato durante una vivace campagna elettorale. Il suo è il discorso di un vincitore. Chiamato dal Presidente della Repubblica, senza ricorso alle urne, Monti esplicita le proposte e le intenzioni del governo che presiederà, sapendo che molti provvedimenti richiederanno i voti di una maggioranza che potrebbe mancare. Monti promette sacrifici che saranno poi più pesanti per i redditi medio-bassi, ma con il suo governo passeranno tasse sulle transazioni e i patrimoni finanziari. Prima non era mai accaduto.

 

Roosevelt parla negli USA degli anni ’30, quando il capitalismo era in espansione, con nuovi grandi mercati da conquistare. C’erano molte più prospettive di ripresa.

Monti lo fa nell’Italia (e nella Ue) dell’inizio del XXI secolo, con mercati mondiali sempre più saturi e una globalizzazione pervasiva, in cui la “crescita” invocata è sempre meno credibile e, semmai, comincia a diventare inquietante per il consumo che comporta di risorse non rinnovabili.

Anche così, fa una certa impressione accostare Roosevelt che parla delle preoccupazioni quotidiane dei cittadini americani con Monti che si preoccupa solo delle esigenze degli investitori internazionali. Lavoro, beni comuni, produzione di beni di prima necessità dovrebbero far parte del programma anche di un governo di crisi.

Roosevelt parla di rilanciare l’agricoltura e di prevenire i pignoramenti di case e fattorie, e soprattutto di «far tornare la gente a lavorare», anche attraverso un piano di assunzioni pubbliche. Monti invece non parla dei problemi sociali, se non in relazione alle ricadute che hanno sulla spesa pubblica che vuol ridurre, e come priorità di governo non ha il lavoro, ma il pareggio di bilancio. Normale, forse, per un rappresentante del mondo della finanza. Ma non per un governo. E in una democrazia rappresentativa, il governo dovrebbe essere eletto.

Quello che sconcerta è che la politica si sia invece ritirata e abbia messo il governo in mano alla finanza, concedendole di fatto sia l’impunità per la crisi che ha causato, sia la possibilità di continuare ad agire per i propri interessi.

 

C’è un altro aspetto che ci ha colpito nei due discorsi.

Roosevelt parla solo agli uomini. Monti invece recepisce l’esistenza delle donne. Riesce a scorgere persino le poche presenti fra i banchi for men only del Senato, e del resto affiderà tre ministeri importanti a tre donne autorevoli. Però nel suo discorso nomina donne e giovani solo definendoli «le due grandi risorse sprecate del nostro Paese», dimostrando di aver superato la cecità maschile alla differenza sessuale, ma non gli stereotipi sullo svantaggio femminile.

Se Monti tenta di fare i conti con le donne è perché in questi ottant’anni hanno preso parola a partire da sé, hanno costruito relazioni, hanno portato il loro desiderio nella sfera pubblica. Oggi primeggiano negli studi, lavorano, fanno politica, trasformano il mondo con la loro presenza.

La politica degli uomini, il loro modello economico e il loro modello di governo sono in crisi.

La democrazia rappresentativa nasce da una mediazione fra uomini, filtrata da regole e istituzioni che loro si sono dati nel corso della storia. Zoppa fin dalla nascita perché prevede un solo sesso, è stata tuttavia una delle forme più alte della politica maschile, perché è quella che meno ha ostacolato la libertà di uomini e donne.

Roosevelt è vissuto in un periodo critico: il mondo stava correndo dalla crisi del 1929 verso la II guerra mondiale. Ma il patriarcato godeva ancora di un credito che oggi non ha più. Lui è stato un’espressione di quella politica quando era ancora legittimata. Oggi non lo è più e corre verso il precipizio.

Nuove forme della politica dovranno affermarle altri soggetti: donne e uomini capaci di partire dalla materia viva delle loro relazioni, della quotidianità anche materiale, dei conflitti, capaci di passare dai diritti e dalla rappresentanza a pratiche di libertà.

 

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