13 Settembre 2019
Noi Donne

Adriana è stata uccisa per l’impotenza o per la negligenza dello Stato?

di Maria Dell’Anno


Una morte annunciata. Abbiamo letto che quella di Adriana Signorelli era una morte annunciata. Ma se era così chiaramente annunciata, perché nessuno ha fatto nulla per impedirla?


Adriana aveva 59 anni, 2 figli, un lavoro come operatrice sociosanitaria. E un marito. Un marito che era già stato condannato e punito più volte per le violenze che aveva agito all’interno della famiglia nei confronti di Adriana e dei suoi figli. Ma che, nonostante tutto, lei continuava a sperare potesse cambiare. Nell’autunno del 2018 era stato nuovamente arrestato per aver bruciato la porta dell’appartamento di Adriana e aver tentato di gettarle addosso un misto di candeggina e benzina. La misura cautelare che la magistratura dispose a suo carico per impedirgli di commettere ulteriori reati fu il cosiddetto obbligo di firma presso la polizia giudiziaria. Il 27 agosto Adriana è costretta a rifugiarsi in bagno per proteggersi dalle sue minacce, che le urlavano di averlo mandato in carcere con false accuse; riesce a scappare, denuncia suo marito per l’ennesima volta, come prevede la nuova normativa definita giornalisticamente “codice rosso” viene ascoltata in Procura e il consiglio che le viene rivolto è quello di allontanarsi dalla propria casa. Viene uccisa quattro giorni dopo, nella sua casa, da suo marito.

Abbiamo letto alcune frasi davvero disturbanti nella stampa di queste settimane. Abbiamo letto che Adriana «non aveva mantenuto la promessa fatta e non si era trasferita a casa di sua figlia». Abbiamo letto che «la sua disponibilità estrema ad aiutare il marito le è stata purtroppo fatale». Abbiamo letto, insomma, che ancora una volta la colpa della morte di Adriana è di Adriana stessa.
No! La colpa di un omicidio è solo di chi uccide. E chi uccide la propria moglie – laddove il cuore del problema sta esattamente nell’aggettivo “propria” – non è un malato o un pazzo, è semplicemente un uomo che ha imparato molto bene ciò che la società patriarcale in cui viviamo gli ha insegnato.
E la soluzione del problema non è pensabile che si possa raggiungere con una legge, o con un codice rosso bianco o verde, perché, per quanto lo si voglia riformare, il nostro ordinamento penale – come ogni ordinamento penale occidentale democratico – è costruito per difendere l’imputato, non le vittime. E infatti nessuno va a dire a quell’uomo di non uccidere sua moglie, si dice a sua moglie di provare a proteggersi da sola.
Ma se anche Adriana fosse andata ad abitare da sua figlia, è davvero pensabile che il marito non ci sarebbe arrivato? Magari avrebbe ucciso entrambe. E magari proprio per questo Adriana non ci è andata, per non correre il rischio che sua figlia rimanesse nuovamente coinvolta in quella violenza. E se anche Adriana avesse smesso prima di essere disponibile ad aiutare suo marito nell’erronea illusione che cambiasse, è pensabile che lui non avrebbe trovato comunque un’occasione per ucciderla?
Adriana ha denunciato più volte suo marito. Suo marito è stato punito più volte per le sue azioni violente. La normativa più recente è stata applicata e Adriana è stata sentita dal pubblico ministero entro 3 giorni dalla sua denuncia. E poi? Intuitivamente l’unica misura che avrebbe davvero impedito la sua uccisione sarebbe stato incarcerare il marito subito e per sempre, ma questo nessuna legge attuale o futura potrà prevederlo, proprio per quell’architettura di sistema di cui si diceva prima. L’ergastolo può arrivare solo quando siamo già morte. Dobbiamo morire per non correre più il rischio di essere uccise.

E allora apparentemente non c’è soluzione. Lo Stato non può fare nulla, e contemporaneamente noi non potremo mai proteggerci da sole.
Invece la soluzione c’è. È una soluzione di certo molto più difficile da mettere in pratica rispetto a votare qualche articolo di legge con cui si inaspriscono pene e si intasano procure impreparate. È una soluzione che non è per nulla efficace da un punto di vista di pubblicità elettorale. E soprattutto non è una soluzione che consente di vedere i suoi risultati nel breve periodo. Ma è l’unica soluzione possibile: promuovere, anzi costringere tutti e tutte ad un profondo cambiamento culturale.
E il cambiamento culturale non può che realizzarsi con la formazione e l’educazione. E a dirlo è prima di tutto la Convenzione di Istanbul (che l’Italia ha ratificato), l’atto internazionale che più di tutti ha adottato un approccio olistico alla violenza di genere, proprio perché non è pensabile guardarne un aspetto e dimenticarne gli altri.

Ma uno Stato che in una legge, autodefinitasi di contrasto alla violenza di genere, prevede la formazione delle sole forze di polizia in modo parziale (non dei magistrati, non degli operatori sanitari, non dei giovani, non della società tutta) e non prevede alcun finanziamento al riguardo; uno Stato che rimanda il reingresso nelle scuole dell’educazione civica – che sarebbe un ottimo mezzo per inculcare nei giovani i principi di parità e di non discriminazione che vediamo sempre più allontanarsi dal nostro orizzonte quotidiano –; uno Stato che continua a chiudere i centri antiviolenza invece di finanziarli; uno Stato il cui linguaggio continua a colpevolizzare le vittime e a compatire gli assassini; uno Stato il cui linguaggio a tutti i livelli continua a umiliare le donne; ebbene questo Stato è davvero interessato a sconfiggere radicalmente la violenza maschile contro le donne?


(Noidonne.org, venerdì, 13/9/2019)

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