28 Agosto 2019

Documenti della teologia favolosa

Potere e resistenza, corpi e natura nella caccia alle streghe: un’intervista alla filosofa femminista Luisa Muraro.


Riccardo Giacconi è un artista visivo e documentarista. La sua nuova mostra, “Options”, sarà presentata a Settembre a Grazer Kunstverein, all’interno del festival steirischer herbst. Collabora con la trasmissione Tre Soldi (Rai Radio 3).


Per esplorare la vita, il lungo percorso letterario e filosofico e la vasta influenza del pensiero di Luisa Muraro, si potrebbe partire dal suo ruolo fondativo nel femminismo italiano dagli anni Sessanta, attraverso i gruppi di autocoscienza femminile e ciò che lei definisce il “pensiero della differenza sessuale”.

Si potrebbe ripercorrere la sperimentazione pedagogica di pratiche “antiautoritarie” nella scuola dell’obbligo degli anni settanta (da lei condotta assieme allo psichiatra Elvio Fachinelli), o la comunità filosofica femminile Diotima, da lei co-fondata (assieme a Chiara Zamboni e Adriana Cavarero, fra le altre) all’Università di Verona negli anni ottanta.

Ci si potrebbe immergere nella sua ricerca poliedrica – al contempo storica, filosofica e politica – sulla scrittura mistica femminile, che rende omaggio a figure come Margherita Porete, Hadewijch d’Anversa, Guglielma di Milano e Maifreda da Pirovano, fino ad arrivare a Simone Weil ma anche al “mago e scienziato” tardo-rinascimentale Giambattista Della Porta.

Io, invece, ho scoperto Luisa Muraro quando mi sono imbattuto ne La signora del gioco (uscito per Feltrinelli nel 1976 e ristampato da La Tartaruga nel 2006), uno dei suoi primi libri, dedicato ai processi per stregoneria fra l’Italia settentrionale e la Svizzera. Ho incontrato quel libro mentre, con Carolina Valencia Caicedo, ci stavamo chiedendo come iniziare un documentario radiofonico sulle figure femminili nella storia delle pratiche magiche in Italia.

Qualche giorno dopo, io e Carolina andiamo a cercare Luisa Muraro alla Libreria delle Donne di Milano, un’istituzione cruciale per il femminismo non solo italiano, da lei co-fondata nel 1975 (assieme, fra le altre, a Lia Cigarini, Renata Dionigi e Giordana Masotto). Le parlo subito del mio incontro entusiasta con La signora del gioco, uscito poco dopo l’apertura della Libreria. Mi ferma: ciò che più le interessava della caccia alle streghe, mi dice, non era di certo la magia. Però ci dà un appuntamento a casa sua, per parlarne.


In Europa, tra il XIV e il XVII secolo migliaia di donne furono processate per stregoneria da tribunali ecclesiastici e laici. Nel tuo libro definisci la caccia alle streghe come “una lezione difficile, che domanda di essere ancora ascoltata”. Puoi ricostruire il tuo primo incontro con questo “tema che non si lascia archiviare”?


È un tema legato al passato difficile e poco conosciuto delle donne, che mi ha interessato fin dagli anni della mia formazione al liceo. Agli inizi del movimento femminista, nel 1969-70, arrivò dall’America uno slogan, “le streghe son tornate”, che assumeva la carica minacciosa e paurosa della stregoneria e della stregomania. Era una frase chiaramente allegorica, un modo molto americano di far rivivere i tempi delle streghe, con un’aggressività poetica, fantastica, mitica. Io invece concepivo il tema come una sequela di martiri, di sofferenze. Lo slogan era però accompagnato da una tesi interessante, secondo cui la caccia alle streghe aveva messo fine ad una cultura popolare. E in effetti, soprattutto nella sua parte iniziale, in quella persecuzione è leggibile la volontà di cancellare una sapienza popolare legata alla natura e a credenze magiche. L’erboristeria era anche una passione di mia madre, con cui da bambina andavo a raccogliere erbe medicinali nei boschi. Questo intreccio d’infanzia e di storia delle donne mi ha spinta a prendere in mano la ricerca sulla caccia alle streghe.


Quando il libro è uscito, credevi che la stregomania potesse parlare al movimento femminista degli anni Settanta?


Sì, quest’idea c’era fortemente. Ero appassionata dalla ricerca storica, ma anche delusa – anzi, sbalordita – dall’assenza delle donne nei libri di storia. Ero, e sono ancor oggi molto convinta di una differenza femminile che può agire, esprimersi, prendere coscienza di sé e cambiare dall’interno la realtà storica umana. Per me, che mi definisco ancora oggi femminista, la storia è andata avanti mettendo in ombra delle cose molto importanti, che risalgono alla genealogia femminile. Nella stregoneria, infatti, le conoscenze magiche si trasmettono di madre in figlia, e questo tipo di relazione è stato perseguitato da tribunali laici e religiosi. Volevo far rivivere una storia che, sebbene tragica e dolorosa, mostrava il mondo femminile dal suo interno; ho scritto il libro per far parlare le donne, anche se in circostanze così estreme. Quelle donne, che non potevano trasmette la memoria scritta di sé, hanno lasciato una tragica memoria attraverso i verbali dei processi, che ci consegnano anche notizie sulla loro personalità. Alcune, ad esempio, arrivano a intuire che il delitto di cui erano accusate, la stregheria con i suoi diabolici poteri (in cui loro stesse avevano creduto), in realtà non aveva niente di vero. Con la mia ricerca sentivo di contribuire a una profonda modificazione della storiografia facendo risaltare la presenza delle donne. Quelli erano i tempi in cui Foucault insegnava a leggere la storia attraverso lenti nuove, e a considerare quanto il potere abbia manipolato il racconto dei fatti.


Potresti parlare del tuo rapporto con le fonti? Nel libro i verbali dei processi vengono presentati da soli, spesso senza mediazioni da parte tua. Il lettore è chiamato ad avere un ruolo attivo, a prendere posizione nei confronti di questi documenti.


Non essendo storica di formazione, andavo semplicemente dove c’erano i documenti e li offrivo alla lettura con le mediazioni a mia disposizione (ragione e sentimento). Così ho fatto, per esempio, con l’archivio della Magnifica casa della comunità di Poschiavo, in Svizzera (oggi diventata un museo). Lì sono custoditi i verbali di processi fatti in quello stesso posto, verbali raccolti quasi due secoli fa dal giudice Gaudenzio Olgiati, autore di un manoscritto pubblicato postumo nel 1955 da una tipografia locale, Lo sterminio delle streghe nella Valle Poschiavina. Io li ho studiati nelle stesse cantine in cui furono imprigionate queste donne. Leggevo della loro tragedia con un’intensa partecipazione che, però, non mi impediva di lavorare. Ero infervorata: ogni mattina prendevo un meraviglioso trenino e salivo a Poschiavo a consultare l’archivio, come in un pellegrinaggio. Il primo capitolo del mio libro riguarda una di loro, la giovane Caterina Ross, figlia e nipote di donne condannate per stregheria, da cui la regista Gabriella Rosaleva ha tratto il film Il processo di Caterina Ross

In seguito chiesi alla Biblioteca Ambrosiana di Milano se avevano carte sulla caccia alle streghe. Mi risposero gentilmente: “Sì, ce ne sono, ma non sono ordinate. Però se vuole gliele portiamo”. Dopo un po’ è arrivato un commesso con una carriola piena di carte alla rinfusa. È stata una visione strana in quella sala di studio e inattesa, che, invece di farmi ridere, mi ha dato una spaventosa angoscia. Mi ha ricordato uno degli episodi che avevo studiato: una donna venne portata al rogo in una carriola, perché era stata torturata durante un interrogatorio e le avevano rotto le gambe.

Tutto ciò è per dirti che la realtà indagata non mi diventava mai esteriore e distaccata, ma in qualche misura restava nel mio vissuto personale. Per certi aspetti sono come una scrittrice di romanzi, ma per me non ha senso inventare storie: la storia umana è già ricchissima di vicende, di cui la storiografia narra solo una minima parte. Ho sempre cercato di salvare la distanza storica, ma non ho mai voluto fare una ricostruzione oggettiva: voglio che ognuno stabilisca un proprio rapporto con i documenti, senza che io fornisca una posizione che inquadri la faccenda a priori. Mi interessa che il lettore stesso – o, piuttosto, la lettrice, visto che mi sono sempre rivolta alle donne – possa a sua volta partecipare, restituendo vita e senso alle donne che sono state martirizzate.


Prima citavi tua madre: nel libro scrivi che era una “buona cattolica” che coltivava una “più antica religione delle fate”. Come convivono queste due tradizioni nella tua esperienza personale?


Nei racconti della tradizione orale che è arrivata fino a me c’era ancora un’altra civiltà, precedente a quella cristiana. Ad esempio le fate, che fanno parte del folklore celtico: nel loro mondo siamo vicini a una divinità femminile benefica, amica delle donne, che entra nottetempo nelle case e lascia doni in quelle che trova in ordine. C’era un’etica femminile della vita domestica. C’erano tracce di questa mitologia in certi racconti di mia madre, come quello della Marietta, che ha come madrina di battesimo colei che si rivelerà poi essere una strega minacciosa. In Italia, racconti del genere si ritrovano nelle Fiabe italiane raccolte da Italo Calvino e, prima ancora, nello Cunto de li Cunti di Giambattista Basile. Erano sopravvivenze del favoloso mondo precristiano, e venivano tramandate oralmente nelle società preindustriali. Mia madre, da bambina, ancora partecipava a una pratica che compare spesso nei verbali della caccia di streghe, cioè il riunirsi nelle stalle a raccontarsi storie. Lo chiamavano “fare filò”, ed è l’ultima espressione di una socialità popolare, povera, che poi il mondo industriale cambierà completamente. Era lontanamente una forma del “gioco”, ho pensato, ascoltando certe risonanze interne che mi venivano dall’infanzia – non biograficamente la mia, ma quella di mia madre. Come se fosse la mia.


Ecco: cos’è il “gioco”, e chi è la “signora del gioco”?


La signora del gioco è una figura femminile benefica, simile a una regina, resto di una mitologia arcaica, completamente estranea a quella romana antica. Presiede incontri di festa, danza, allegria. Vola di notte con la sua compagnia, che è tutta o in prevalenza femminile. È una figura che si estende piuttosto ampiamente nell’Italia settentrionale, dal Trentino alla Lombardia. Ma io non ho fatto ricerche sulla sua origine, ho registrato la sua comparsa nelle testimonianze delle accusate. E ho notato che scompare piuttosto presto dai processi, sostituita da mitologie di origine pagana o cristiana, che erano quelle presenti nella testa dei giudici. 

La signora del gioco che compare nei verbali mi pare una figura onirica, espressione di una cultura che sapeva dividere il sogno dalla realtà in un modo che non è più il nostro. Il sottrarsi, anche con la fantasia, al controllo del potere è sempre stato sentito come un pericolo per i detentori dell’ordine: i suoi magistrati, i suoi guardiani, i suoi chierici. Con la sconfitta della civiltà contadina, la possibilità di slittare nel sogno, soprattutto tra le donne, diventa una risorsa di indipendenza immaginaria. Qualcuno ha parlato di uso di droghe; io non ne ho trovato traccia, ma non posso escluderlo. Il sogno viene usato per uscire dai limiti della realtà data, quando essa non può modificarsi attraverso la politica o la lotta (detto con un linguaggio moderno). Ma non è una forma di disperazione estrema che spinge a perdersi nell’irrealtà. C’era lì, mi pare d’intuire, una capacità di alternare notte e giorno, sogno e realtà, che considero una possibilità pratica di sottrarsi a una realtà insopportabile senza ammalarsi. Certamente nella cultura diffusa dell’età premoderna, il senso della realtà era molto differente dal nostro… (Dico “il nostro” che però a sua volta è entrato in una fase di cambiamento.)


A proposito di quelli che definisci “documenti della teologia favolosa”, affermi che alla poesia e alle fiabe può essere riconosciuta una verità alternativa, che “scioglie le parole dai riferimenti fissi”, liberandosi dei confini fra sogno e realtà, fra “dentro” e “fuori”. Come definisci questa forma di verità?


È una conoscenza che sentiamo vera senza averla oggettivata, non sottoposta quindi alla razionalità scientifica. Io penso che la verità nasca come verità soggettiva e che questa, detto con formula paradossale, sia “più vera di quella oggettiva”. La prima idea moderna di una “verità soggettiva” emerge con la psicoanalisi e, in particolare, con [Wilfred] Bion, che intuisce che la valenza relazionale della psicoanalisi può spostare i termini della realtà data. Lo psicoanalista può accompagnare il paziente nella sua interiorità, quella senza controllo. È una possibilità che viene scoperta ai nostri giorni, ma che ha un rapporto con la caccia alle streghe, cioè con il momento in cui la familiarità femminile con il mondo interiore viene ostacolata. Vediamo svilupparsi allora quella che sarà chiamata “isteria”: nei conventi del Seicento-Settecento appaiono spesso fenomeni “mistici/isterici”: visioni, raptus, ecc. Diventerà una “malattia delle donne”. 

La psicoanalisi comincia quando Freud e Breuer prestano ascolto ad alcune “malate di nervi” ed entrano nel loro mondo. Alcune di esse raccontano di essere state molestate dal padre. Freud alla fine non si domanderà più se ciò sia vero o no: capisce che si tratta di una dimensione in cui la distinzione fra vero e falso resta sullo sfondo, perché c’è da ascoltare quello che la donna vuole dire del suo mondo interiore, che non ha corso nella vita ordinaria. Questa modalità discorsiva tra il sogno e la realtà, tra il vero e il non vero, fa parte dalla materia prima della storia umana. L’arte è oggi l’unico campo del sapere autorizzato ad entrare in questo mondo, ma in tempi passati ciò era possibile anche in altri modi, come la ricerca mistica, in cui non a caso si riscontra un’eccellenza femminile. Era una produzione fantastica libera dagli strumenti di osservazione della psicologia, della sociologia o della stessa storiografia, che, per acquisire una certa scientificità deve per forza verificare i fatti, perdendo però di vista questa inafferrabile materia prima.


Che ruolo ha questa “verità soggettiva” nel femminismo?


Con il femminismo che spunta alla fine degli anni Sessanta abbiamo lasciato i partiti e i movimenti misti, per ritirarci nelle case in gruppi di sole donne a fare “autocoscienza”.  La casa era e resta un luogo altamente femminile, estraneo all’emancipazione e all’integrazione nel mondo degli uomini. Nei gruppi dell’autocoscienza ci si raccontava delle cose mai raccontate prima. Si scopriva in questo modo la “verità soggettiva”, che per me è più vera di quella oggettiva. È una conclusione profonda cui sono arrivata passo passo, da allora. Quando l’ho formulata in un recente incontro del Circolo della rosa, c’è stato un certo stupore. Dopo una lunga discussione, si alzò una giovane donna e disse: “È giustissimo, la verità soggettiva è quella che dice il vero, perché la verità oggettiva è verità di regime”. Ecco, l’avrei abbracciata, perché sintetizzava perfettamente quello che volevo dire: la verità oggettiva è quella su cui ci mettiamo d’accordo, ma non ci si mette pubblicamente d’accordo se il potere non è d’accordo. I miei libri li ho scritti rivolgendomi alle donne che insorgevano, non solo contro il potere dato, ma anche contro i linguaggi politici del movimento giovanile del Sessantotto, che tacitavano qualcosa che le donne sentivano profondamente proprio. La signora del gioco nasce sull’onda di questa esperienza.


Quindi la caccia delle streghe può essere vista come un conflitto fra un potere che mira a produrre una verità giudiziaria e alcune pratiche antichissime che, invece, sfuggivano alla logica di questo “regime di verità”.


È verissimo, perché l’uscita dalla caccia alle streghe avviene proprio con una definizione di linguaggi e di specialismi medici, con una distinzione fra vero e falso (un atteggiamento che si trova già in Cartesio). È un processo positivo per l’Europa, che deve superare il modo persecutorio e violento inizialmente adottato contro le società e le mentalità premoderne. Positivo, sì, ma nella direzione del positivismo, senza mettere fine al processo di espulsione di ciò che non era più accettabile per quella che diventerà la civiltà moderna occidentale. La medicina ufficiale e accademica doveva espandersi, estendersi al popolo, estromettendo quindi credenze e figure autorevoli, perseguendo in particolare quelle donne che erano considerate capaci di curare e di dare risposte alternative a quelle del potere.


Infatti tu parli della “esclusione, dal campo del sapere, di soggetti non autorizzati, che di preferenza risultano essere donne”. Un esempio sono le medichesse, che intendevano la medicina come un’attività prettamente femminile, un campo del sapere in cui le donne potevano eccellere.


È un processo che arriva fino al Novecento, quando la medicina ufficiale abolisce le levatrici. Nel femminismo c’è un filone di lotta per restituire alle donne la possibilità di assistere le partorienti. Mia madre a suo tempo fu ancora assistita da una levatrice, mentre io ovviamente ho partorito in ospedale. È stato l’ultimo resto di una superiore competenza da parte di soggetti non autorizzati. 

Il processo di eliminazione delle possibilità, per le donne, di sottrarsi al controllo dell’uomo culmina con la borghesia del diciannovesimo secolo. La donna sposata di classe borghese viene isolata nella casa maritale, come in Casa di bambola di Ibsen, in cui la protagonista è trasformata in una bambola all’oscuro di tutto, sposata a un uomo che invece frequenta il mondo, fa i soldi, mantiene lei e i figli, etc.


Hai definito la caccia alle streghe come il congedo da un tipo di conoscenza premoderna, un “cedimento dell’antico confine fra fantasia e realtà”. Qual è il rapporto fra caccia alle streghe e modernità?


Abbiamo oggi una visione più criticamente lucida sulla modernitàLe epoche di passaggio sono sempre epoche difficili, ne sappiamo qualcosa. 

Montaigne è il filosofo che più capisce la follia della caccia alle streghe allora in corso, a cui dedica uno dei suoi ultimi saggi, intitolato “Degli zoppi”. Racconta di aver avuto uno scontro verbale durissimo con qualcuno che poteva essere lo stesso Jean Bodin, filosofo e giurista francese alle origini della modernità, il quale scrisse un manuale sulla caccia alle streghe e fece lui stesso il magistrato in diversi processi di stregoneria. Montaigne era furioso con la società del suo tempo, convinta che alcune donne facessero morire i bambini, andassero in volo di notte e facessero sesso col diavolo. Tutta la mitologia creata con la persecuzione delle streghe si mescola con le antiche mitologie in un garbuglio indecifrabile e quasi illeggibile. Montaigne attribuisce la stregomania, questa sorta di follia collettiva di magistrati, intellettuali, preti e popolo, alla ricerca delle cause a tutti i costi, senza restare in contatto con le cose, vicini all’esperienza vissuta. 

Va notato che, in pieno Medioevo, la diffusa credenza nelle streghe non ha portato alla loro persecuzione organizzata, come invece accade nel Cinque-Seicento. Come mai? Un elemento di risposta viene dalla visione religiosa del mondo, considerato come opera fondamentalmente buona di Dio, il quale non consentiva che fosse manomessa dalle potenze del male. I molti mali che colpivano l’umanità avevano la loro causa prima nei peccati dell’uomo.

Sulle soglie della modernità c’è un cambiamento profondo, assecondato e perfino promosso dall’autorità religiosa. Al posto di questa visione rassegnata ma ottimistica – in cui siamo nelle mani di Dio e accettiamo il buono e il cattivo – emerge una soggettività umana che vuole controllare la realtà cercandone le cause, per poterla poi prevedere e riprodurre. Pensiamo ad esempio a Cartesio, un grande pensatore della modernità, che promuove la scienza matematica del mondo reale. Dal Cinquecento, che ancora coltivava le arti magiche, si passa alla fisica matematica. Il passaggio avviene nel Seicento, il secolo culmine della caccia alle streghe, che arriva come un contraccolpo a quella ricerca di sapere. Il Seicento è anche un secolo percorso da malattie e guerre; è il crogiolo dell’Europa moderna, in cui convivono tutti questi elementi.


Nel tuo libro Le amiche di Dio (Orthotes, 2014), affermi che le scrittrici mistiche hanno prodotto opere importanti ma che i loro scritti non sono entrati nella tradizione, e quindi non sono stati trasmessi. Mi chiedo se le testimonianze raccolte ne La signora del gioco si possono vedere come una forma estrema di scrittura, di resistenza femminile contro i divieti e le convenzioni della società.


Esiste in effetti una teologia in lingua materna che deve molto alle donne ma che, purtroppo, non ha contato nella tradizione; la sua scoperta è recente, la questione principale è quella della trasmissione. Ma nei documenti della caccia alle streghe chi scrive è il potere. Le donne rendono testimonianza di quello che si sta perdendo. Vero è che il potere, preoccupato di documentare la sua giustizia, si è fatto involontariamente strumento di una scrittura in cui compaiono persone cui era negata esistenza simbolica… Sì, possiamo parlare di una scrittura estrema. Il potere deve documentare quello che avrebbe preferito eliminare o assimilare. I corpi, in sostanza. E le donne hanno un corpo che resiste e che, in questo senso, apre la possibilità di una scrittura ulteriore. In effetti, la mia è una scrittura di resistenza e di lotta, anche verso le forme codificate scientifiche, che ho potuto praticare grazie alle donne (le streghe) e il femminismo. I criteri rigidi della storiografia danno la sicurezza del fatto storico, che però viene ridotto a un dato accettabile, senza il “di più” del vissuto vero. Il vissuto è entrare in rapporto con queste persone, che io sento chiedere: “Parla di me”.


Per concludere, vorrei chiederti di leggere tre frammenti da La signora del gioco.


“Perdenti in partenza, per l’enorme disparità di potere, le vittime si difesero con tutti i mezzi che avevano a disposizione: con la fuga, con la verità, con le menzogne, con la ragione, con la religione, con il silenzio, con la malattia mentale, con la morte.”

“…due parti: un corpo da fecondare, ed un resto sterile e maligno, da distruggere. (La donna, e la strega).”

“E fu, per i corpi, in conseguenza di quel collasso, un trovarsi esposti ad uno sguardo (e a una violenza) di nuovo tipo, come natura che non è più segno di altro e ombra di una luce invisibile, ma materia separata, strumento e mezzo per i nostri scopi, buoni e cattivi che siano.”


(Il Tascabile, 28 agosto 2019)

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