11 Gennaio 2019
27esimaora

Poeti, ma ladri

di Paolo Di Stefano

La pubblicazione delle lettere di Caterina Vassalini a Salvatore Quasimodo da parte della studiosa Elena Villanova (Nell’ombra del poeta, Carocci editore) accresce il numero delle donne che si sono messe al servizio degli scrittori rimanendo del tutto (o quasi) relegate nell’ombra. Presenze invisibili che meriterebbero un nuovo tipo di #metoo, non legato all’abuso sessuale ma allo sfruttamento intellettuale, non meno discriminante. Sarebbe utile almeno per rendere giustizia a figure femminili vittime di umiliazioni maschiliste.

Vassalini era una professoressa di latino e greco al Liceo Maffei di Verona che conobbe Quasimodo nel 1947 instaurando con lui un’amicizia fedele (per lei soltanto), nonché soggetta a «immondi pettegolezzi» (alimentati anche dai pubblici viaggi realizzati insieme in Grecia). Si tratta di lettere sentimentali ed amare, qua e là non prive del risentimento di una filologa consapevole del fatto che il suo contributo non veniva adeguatamente considerato. Fu la Vassalini infatti ad approntare la traduzione-base degli epigrammi che sarebbero andati a comporre il Fiore dell’Antologia Palatina, uscito da Guanda nel 1958 a firma di Quasimodo e con prefazione dell’amica. Su quella traduzione letterale in prosa su cui faticosamente si concentrò la studiosa veronese, Quasimodo avrebbe poi lavorato in chiave poetica. Finora si pensava che dalla prima all’ultima fase l’intera elaborazione fosse opera del poeta: l’analisi di Elena Villanova dimostra invece che la Vassalini ebbe una parte fondamentale — compresa la selezione dei testi — mai pienamente riconosciuta (del resto Quasimodo era già stato accusato di aver tradotto i lirici greci senza sapere il greco antico).

Non è un caso isolato di «schiavismo» letterario di genere. Se è vero che insospettabili e autorevolissimi autori, firmando le versioni con il proprio nome, hanno sfruttato il lavoro di traduttrici straordinarie. La più nota (o la meno ignota) è la coltissima Lucia Rodocanachi, che negli anni Trenta sottostò all’abuso di diversi illustri amici, compresi Montale, Vittorini e Gadda, i quali si avvalsero del suo oscuro contributo preliminare di «négresse inconnue» (lei traduceva, lasciando loro il compito di personalizzare lo stile). Non senza soprusi anche economici, come quando Vittorini, trovandosi squattrinato a Milano, arrivò a falsificare la firma per incassare un assegno intestato a lei. La Rodocanachi non abbe mai la voglia o il coraggio di intaccare il prestigio dei suoi amici denunciandone pubblicamente le prevaricazioni, che sarebbero emerse postume.

Ciò che invece osò l’anglista Bice Chiappelli accusando Montale di averle copiato la traduzione di Strano interludio di Eugene O’Neill: e nel ’53 vinse un lungo processo per plagio contro il futuro Premio Nobel, poco nobile (come l’altro).


“Le amiche dei poeti, vittime (nel silenzio) di abusi intellettuali”

(27esimaora.corriere.it, 11 gennaio 2019)

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