2 Dicembre 2019
Corriere della Sera

Da dove nasce la violenza sulle donne

di Antonio Polito


Noi non sappiamo e non sapremo mai che cosa sia davvero successo quella sera di dieci anni fa tra Thomas Piketty e Aurélie Filippetti, allora coppia turbolenta della Parigi che conta. Però sappiamo che l’uomo, economista e saggista, ammise per iscritto di aver usato violenza contro la sua compagna, e chiese formalmente scusa. Dunque sappiamo anche – o, per meglio dire, ne abbiamo una nuova conferma – che la violenza contro le donne non è monopolio degli uomini rudi, incivili, ignoranti, maneschi e anti-sociali. Ma la violenza riguarda pure uomini colti, eleganti, di successo, progressisti e ugualitari (grazie al suo bestseller, Piketty è il non plus ultra dell’ugualitarismo). Anche i ceti medi riflessivi, insomma, picchiano le donne.

La punizione

Ci deve dunque essere un pericoloso grumo di pensieri e sentimenti comune a tutti gli uomini, di qualsiasi provenienza sociale e culturale, che li spinge a rivolgere contro le mogli e le compagne quel carico di violenza che nel resto delle loro relazioni sociali non si sognerebbero mai di usare. Per punirle in quanto donne. Di che si tratta? La coincidenza temporale della giornata contro la violenza e dell’«affaire Piketty», combinata magari con la lettura di alcuni tentativi della letteratura femminile di darsi una spiegazione di questo fenomeno, dovrebbe spingerci a riflettere di nuovo su quel «quid», e a guardare anche dentro di noi, per vedere se lo possiamo scorgere, nascosto da qualche parte, nel fondo stesso del nostro essere maschi. Forse consiste in questo: noi uomini diamo immancabilmente alle nostre compagne la colpa del fallimento di una relazione. E la cosa ci dà rabbia perché recriminiamo su una mitica felicità perduta, che pensavamo basata sull’esclusività del rapporto di coppia, sulla sua impermeabilità all’esterno; cioè, in definitiva, sul possesso più o meno civilizzato della persona amata. Per questo vorremmo che le nostre donne non cambiassero mai, per continuare a possederle come il primo giorno; così come esse desiderano che i loro uomini cambino.

La fine di una storia

La donna è sempre colpevole della fine di una storia perché ha voluto diventare più e altro rispetto alla sua funzione di mero completamento della coppia, ha cercato di essere una persona, non solo due. Tradendo così, almeno potenzialmente, anche il suo ruolo materno, di generatrice e nutrice dei figli. Va al lavoro, esce di casa, guadagna, ha relazioni, incontra persone, vede amiche? Espone il suo corpo in tutte queste attività, lo esibisce socialmente (per un italiano su quattro la violenza sessuale è originata dal modo in cui la donna si veste)? Dunque è colpa sua. Fosse stata al suo posto, accontentandosi dei costumi già abbastanza liberi ed emancipati oggi consentiti, la relazione avrebbe retto. Temo che questo, in fondo al cuore, lo pensino anche i migliori di noi. Ovviamente non tutti lo esprimono in modo violento. Ma molti, troppi, sì. Trecentomila anni di evoluzione della specie ci hanno abituato all’egemonia fisica e sociale, e agiscono nel nostro inconscio, dettandoci istinti aggressivi. Un paio di secoli di emancipazione femminile, fenomeno recentissimo nella storia dell’umanità, producono perciò ancora uno shock culturale formidabile su noi uomini. Ciò che è in corso è esattamente una reazione a questo cambiamento epocale degli equilibri di potere.

La morte di Ana

Il padre di Antonio Borgia, l’uomo che ha ucciso a Partinico la sua giovane amante, l’ha detto nel suo stentato italiano l’altra mattina in tv: «Chiedo scusa alla famiglia di Ana, sono cose che non si devono fare…, ma oggi le donne incitano con la parità, si permettono di dire delle cose, volere, pretendere. E così fanno andare l’uomo fuori di testa. È quello che è successo a mio figlio». Più chiari di così. Per questo Ana Di Piazza è morta, perché è una donna del nostro tempo. Nell’immaginario maschile la morte violenta rende invece eterno il possesso, ristabilendo l’equilibrio. Se non ti posso avere come dovresti essere, che tu non sia più niente, e così sarai mia per sempre. In un suo romanzo, Melania Mazzucco lo fa dire in questo modo a un marito violento: «Io non lo posso accettare il divorzio… abbiamo fallito, allora il mio dovere è cancellare ogni traccia di me e di mia moglie da questa terra perché siamo un grandissimo sbaglio e tutti e due ci abbiamo colpa. Ma soprattutto lei, che è una donna egoista e ingrata… io però la perdono di tutto, e la affido all’amore di Dio». Alla fine c’è sempre l’alibi della famiglia – dice una delle donne di «Ferite a morte», la Spoon River delle vittime scritta da Serena Dandini – «ma la famiglia è per noi il luogo più pericoloso».

Omicidi di donne

Ecco perché è giusto parlare di femminicidi, e non di omicidi di donne. Ecco perché siamo di fronte a una questione sociale, a un conflitto culturale; e non alla devianza di un gruppo, seppur cospicuo, di maschi. Ed ecco perché a noi uomini che non abbiamo mai alzato un dito contro una donna non può bastare davvero congratularci con noi stessi e fingere che i violenti siano degli alieni, estranei alla nostra cultura. Perché è invece proprio questa ad essere intrisa di sciovinismo maschile, e dunque del germe della violenza. Quel grumo è da qualche parte dentro di noi. Per estirparlo – ci vorrà tempo – bisogna prima di tutto riconoscerlo, ammetterlo. Poi correggerlo, accettando una diminuzione di status, perché questo richiede oggi la parità uomo-donna. Infine dobbiamo esercitare tutta la mediazione culturale di cui siamo capaci per contrastarlo nella società. Quando una donna muore a Partinico, la campana suona anche per te.


Corriere della Sera, 2 dicembre 2019

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