2 Gennaio 2018
Osservatore Romano

Genialità e saggezza

di Anna Bravo

«A sentire loro, sarei scappata dalla Germania con la bomba atomica nella borsetta», aveva detto Lise Meitner a proposito delle insistenze della Metro-Goldwin-Mayer perché collaborasse a un film sulla sua vita, «avrei preferito passeggiare nuda sulla Broadway».

La sua era una storia complicata, a volte avventurosa, cruciale. Quell’anziana signora viennese dallo sguardo vago dietro le lenti da miope era un genio della fisica, che, esule in Svezia in quanto ebrea, aveva scoperto il meccanismo della fissione nucleare, vale a dire il passaggio chiave per la costruzione della bomba atomica. Nel dopoguerra la chiameranno «Madre della bomba». Ovvio che a Hollywood fossero interessati a lei.

Era nata il 7 novembre 1878 in una colta e benestante famiglia ebraica di profonde convinzioni liberali; amava la musica, la natura, e la matematica, la fisica, la chimica. Suonare il pianoforte e passeggiare nei boschi poteva; accedere a una formazione scientifica no perché era donna, e all’epoca nell’Austria imperiale le donne erano escluse dagli studi superiori.

Eppure lei ci riesce: la famiglia le paga lezioni private, alcuni (rari) corsi la accettano come uditrice, e a fine secolo iniziano le proteste delle associazioni femministe contro le discriminazioni. Il primo febbraio del 1906 ottiene il dottorato in fisica a Vienna. Ma non ha sbocchi professionali. Si propone a Marie Curie, che non ha posti disponibili. Mentre insegna senza grande interesse in una scuola femminile, cerca ancora, oscillando fra la coscienza del proprio valore, le insicurezze, la ritrosia a farsi avanti, l’imbarazzo di dover dipendere dalla famiglia.

Finché, forte delle tre ricerche svolte autonomamente, si presenta a Berlino da Max Planck, che la accetta come allieva e poi come assistente. Ma la aspetta un semi-apartheid: deve entrare da un ingresso secondario, se ha bisogno della toilette deve usare quella di un ristorante di fronte, i colleghi sono tutti indisponibili a dividere il laboratorio con una donna. Tranne il giovane e brillante Otto Hahn che la accoglie all’Istituto di chimica, registrandola come “ospite non pagata”: lavoreranno insieme 31 anni. Strano team, lei costretta a fuggire con 10 marchi in tasca, lui impegnato nei laboratori del terzo Reich.

Lungo gli anni ottengono insieme fama e risultati in un campo affollato di ottime menti, la fisica delle particelle. Spesso è Lise a dare una svolta. Quella decisiva avverrà alla vigilia della guerra, mentre i massimi fisici sono impegnati a individuare il nuovo elemento che sono convinti si debba formare con il bombardamento dell’uranio. Non lo trovano, si ostinano a cercarlo. Esule, lontana da Hahn, Lise decide invece che se il prevedibile continua a non realizzarsi, bisogna riconsiderare l’impossibile. E intuisce, detective eccelsa, che è lo stesso nucleo dell’uranio a spaccarsi nel processo che chiamerà fissione, e da cui si sprigiona una quantità di energia enormemente maggiore di quella liberata dalla semplice radioattività. È quel che scrive in una lettera alla rivista «Nature», testata scientifica ma non specialistica, rompendo – fatto inaudito – la prassi di prudenza e segretezza in vigore nella comunità professionale. Resa pubblica la scoperta, anche altri si rendono conto della spaventosa distruttività di una reazione nucleare a catena.

Ma all’orizzonte c’è Hitler, e tutti, persino il pacifista Einstein, caldeggiano la costruzione di un’arma fondata su quel principio. Solo lei rifiuta di partecipare, anzi augura ai colleghi di fallire; e abbandona gli studi sulla fissione.

Quando nel luglio del 1945 gli uomini del progetto Manhattan festeggiano con una danza di gioia la prima esplosione sperimentale, il primo vagito dell’ordigno-figlio lungamente covato, la Madre è assente. È in Svezia, sola, che si chiede perché andare avanti, e pensa ai milioni di persone per le quali la domanda è stata stroncata da una morte orribile – gas, fame, torture, epidemie.

Lise verrà esclusa dai massimi riconoscimenti, a cominciare dal Nobel, assegnato a Otto Hahn. Fra guerra fredda e delirio di onnipotenza degli scienziati, non è tempo per capire che il suo ripudio è importante come la sua scoperta, e forse più difficile. Lo riconoscerà anni dopo uno degli apprendisti stregoni: anche quando l’impresa aveva perso la sua impellenza – la Germania sicuramente lontanissima dall’ottenere la bomba, il Giappone allo stremo – l’eccitazione rimaneva tale che nessuno era stato sfiorato dall’idea di sospendere, ritardare, riconvertire, perché «smetti di pensare, semplicemente smetti». Lise no.

Dopo decenni di quasi oblio, sulla sua storia oggi si sa di più, grazie a documentari, un film, pièces teatrali, libri, compresi testi per l’infanzia. Giustamente. Si parla tanto di coscienza del limite, e ben prima che fosse teorizzata Lise Meitner l’aveva vissuta, praticata, sbattuta in faccia al mondo. E ne aveva pagato il prezzo.

Ma nei lunghi decenni di quasi oblio, a renderle onore era stato solo Isaac Asimov, il grande della fantascienza, l’illustre studioso e divulgatore, l’uomo angosciato nel vedere che «la scienza raccoglieva conoscenze più velocemente di quanto la società raccogliesse saggezza».

(Osservatore Romano, 2 gennaio 2018)

Print Friendly, PDF & Email