19 Novembre 2019
Corriere della Sera

Il blitz di via Rubattino. Dopo dieci anni ecco la nuova vita dei rom sgomberati

di Elisabetta Andreis


Il 19 novembre 2009 centinaia di rom — per metà bambini — vennero sgomberati dal campo di via Rubattino. «Li tampineremo finché non se ne andranno, devono capire che a Milano per gli abusivi non c’è posto», tuonava l’allora vicesindaco Riccardo De Corato. «In quel clima ostile, con ruspe di continuo, accadde però qualcosa di magico — racconta Stefano Pasta della Comunità di Sant’Egidio —. Intorno alle 60 famiglie si strinse una rete di maestre, mamme e papà delle scuole di via Pini, Cima e Feltre. E quella rete resiste ancora a distanza di dieci anni».

Il lavoro per integrarli è stato lungo e difficile, ma ecco i risultati: «Quando siamo arrivati al campo con la Comunità nel 2008, nessuno frequentava la scuola. Un anno dopo, ai tempi dello sgombero, studiava un minore su tre. Oggi tutti, nessuno escluso. E in ogni nucleo almeno un adulto lavora». Ricorda la maestra di via Feltre Flaviana Robbiati: «Alcuni bambini arrivarono ad essere sgomberati 20 volte in un anno, anche per noi era uno strazio. Due fratellini delle mie classi ad un certo punto si erano dovuti spostare lontano, oltre il cavalcavia Bacula. Per venire si svegliavano all’alba. Sedevano sulla panca gelata davanti scuola e aspettavano di poter entrare».

Quei bimbi sono diventati ragazzi, si chiamano Denise e Iulian: lei fa l’alberghiero, lui ha preso il diploma e lavora come elettricista. La terza sorellina frequenta le medie. Il papà si è conquistato un posto da custode, la mamma fa le pulizie. Vivono in una casa al Corvetto, pagano regolare affitto: «Chiedevo l’elemosina per smuovere la pietà della gente, quanto sono cambiato», riflette Pietro, il padre. È diventato responsabile. Mostra orgoglioso la fotografia di Iulian che fa volontariato con anziani del quartiere: «Siamo riusciti a trasmettergli i valori del vivere buono».

I tempi di Rubattino gli evocano tristezza e insieme tenerezza: «Gli sgomberi erano umilianti, buttavano le nostre cose nei cassonetti e noi andavamo a riprenderle perché ci servivano davvero», racconta. E come ci tenevano i bambini ad andare a scuola puliti: «Ma non invitavano mai i loro compagni alla baracca — prosegue — e questo come genitore faceva un po’ male. In compenso al pomeriggio arrivavano le maestre al campo, apposta per insegnare l’italiano ai nostri figli …».

La storia d’integrazione pare riuscitissima. Eppure: «Del mio passato al lavoro non dico niente, non vorrei perdere il posto. In giro c’è ancora tanto pregiudizio». Assunta Vincenti, mamma di un ex compagno di classe di Julian, dall’inizio è al loro fianco: «Sono contenta di contrastarli, questi pregiudizi», sorride.

Stefano Pasta non si stanca di ripeterlo: «Sentiamo ripetere che coi rom è tutto inutile. Ci sono grandi difficoltà ma l’esperienza di Rubattino dimostra che la strada esiste, a volerla percorrere. Fatta non di ruspe ma di cultura e soluzioni abitative dignitose che imprimono coraggio. Ci vuole anche quello, in dosi massicce, per decidere di provare ad integrarsi davvero».


(Corriere della sera, 19 novembre 2019)

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