13 Aprile 2018
Munera

Il Sessantotto, cinquant’anni dopo

di Luisa Muraro

Scoraggiata dalla scarsa attenzione degli operai che entravano e uscivano sempre di corsa, imbarazzata dallo stare alle porte delle fabbriche con il mio pacco di volantini, avevo detto alla mia amica che mi aveva portato lì: «la propaganda per la pace nel Vietnam andiamo a farla nelle università». «Sarebbe tempo perso» mi rispose «gli studenti, i più sono borghesi, gli altri hanno preso quella mentalità». Ed ecco che meno di un anno dopo, esplose la rivolta degli studenti, il cosiddetto Sessantotto, in Italia e in mezzo mondo.

La serie dei grandi eventi imprevisti è continuata. Ma il ’68 ha avuto qualcosa di speciale ed è che prese quasi subito la forma della promessa di realizzazione di un sogno che c’era da prima, quello di una rivoluzione comunista o socialista. La rivoluzione era il sogno di alcuni, non di tutti. Io non lo avevo ma l’ho fatto mio, liberamente, come tanti altri. Così il ’68 diventò un’autorizzazione a desiderare di più e di meglio, e una specie di grande sogno in espansione: quello di cambiare il mondo.

Ora il sogno è morto e sepolto. Il mondo sta cambiando enormemente ma fa tutto da solo, per quel che risulta ai più. C’è chi ha avanzato il sospetto che il ’68 sia stato sepolto senza prima aver fatto l’autopsia per sapere di che cosa è morto. Sono pienamente d’accordo. Penso che, a un’analisi critica più approfondita, sarebbero emerse alcune verità che mancano all’appello del nostro presente. In conseguenza di questa mancanza noi dovremmo contentarci di vivere e di morire in un’epoca dal nome decisamente ridicolo: la postmodernità.

La vicenda del morto ’68 si è lasciata dietro una scia di indizi. Più che un bilancio, forse, si può ancora fare un’inchiesta.

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(Munera 1/2018, pp. 114-123)

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