10 Novembre 2017
il manifesto

La Casa internazionale delle Donne è sotto sfratto

di Alessandra Pigliaru

La giunta interrompe le trattative e dà il tempo di 30 giorni per onorare il debito. Laura Baldassarre: «Paghino gli 833mila euro. Non sulle spalle dei cittadini»

La raccomandata che lunedì la Casa internazionale delle Donne di Roma si è vista recapitare dal Campidoglio contiene una richiesta piuttosto scarna, oltre che chiara: il pagamento della «morosità accumulata» pari a 833mila euro, in caso contrario, tempo 30 giorni «si procederà all’attivazione, senza ulteriore comunicazione, sia della procedura coattiva; in sede civile, per il recupero del credito, sia della procedura di requisizione del bene in regime di autotutela». L’avviso di sfratto piomba come un fulmine a ciel sereno guastando, sia nel clima che nelle migliori intenzioni, l’interlocuzione avviatasi tra le donne di via della Lungara e l’attuale amministrazione. «Anche la Casa – si legge in un comunicato diffuso ieri – corre ora il pericolo di chiusura cui sono andate incontro tante associazioni e realtà sociali di Roma. Il debito che ci viene attribuito dall’Amministrazione non tiene conto del valore dei servizi che vengono offerti».

Già nel 2013, due anni prima che l’allora sindaco Ignazio Marino stilasse la controversa delibera 140 per «preservare» il patrimonio cittadino «anche ai fini della valorizzazione delle iniziative socio-culturali svolte da Organismi senza fine di lucro di interesse pubblico in ausilio dell’amministrazione», era stata intrapresa una trattativa, frutto di un lavoro paziente di confronto; si stava giungendo a un accordo che avrebbe consentito «il riconoscimento del ruolo svolto dalla Casa delle Donne e di parte del debito» – come si legge in una nota delle consigliere capitoline del gruppo Pd Michela Di Biase, Valeria Baglio, Ilaria Piccolo e Giulia Tempesta. Le «Linee guida per il riordino, in corso, del patrimonio indisponibile in concessione», delibera 19/2017, discussa il 22 febbraio dall’attuale giunta, è nata proprio dall’esigenza di precisare meglio il destino di spazi fondamentali. A tal proposito, emblematico è stato il caso della decisione della Corte dei Conti di smentire il proprio procuratore (Guido Patti, ndr) che pochi mesi fa si era accanito al grido del «danno erariale» dando il via ai «canoni sociali».

Eppure la relazione tra la Casa delle Donne e l’Amministrazione comunale non è esattamente interna a questo processo, seppure inesorabile perché segue l’andatura di una mentalità più generale; quella relazione arriva da molto più lontano, almeno da quando – nel 1992 – il comparto di via della Lungara è stato compreso tra le opere di Roma Capitale con approvazione del Comune.
Dal 1987, anno dell’occupazione di parte del Buon Pastore grazie al Movimento femminista romano, le donne hanno risignificato di felicità e lotta l’angusto reclusorio femminile che era stato in passato. Un affitto, le spese vive e la ristrutturazione dell’immobile così come il suo mantenimento e miglioramento sono state sempre curate della gestione della Casa che in questi anni ha inteso il grande senso politico, che essa stessa aveva inteso tessere, come una responsabilità verso l’intera collettività, mostrando che quando la scommessa è radicale corrisponde sempre un guadagno di civiltà per tutte e tutti.

Di questa risorsa enorme che Roma ha il privilegio di ospitare e che dovrebbe tenere cara, insieme ai servizi gratuiti offerti (sociali, sanitari, psicologici, culturali etc.), nessuno vuole privarsi.

Né le 30mila presenze annue che la Casa registra, né chi segue la vicenda della sua infaticabile attività ormai da 30 anni. Nelle reazioni di sostegno e vicinanza che si susseguono da ieri, da Sinistra Italiana alla Cgil a tante donne (e uomini) che si dicono pronte a manifestare in tutti i modi possibili il proprio dissenso per una situazione che può trasformarsi velocemente in uno sfratto esecutivo, c’è un dato di irremovibile ostinazione davanti a una tendenza, che non appartiene solo alla giunta pentastellata romana, di mettere a reddito – e con una certa urgenza – spazi cittadini, ignorando del tutto il valore e la forza che già da soli producono, inestimabile, di accoglienza, lavoro e impegno.

Rispristinare tariffe legalitarie, al prezzo di mercato, sgomberare luoghi irrinunciabili per il territorio e le reti che si sono costruite intorno, suona come il requiem definitivo al vuoto politico di un paese intero che non capisce la differenza tra un’ottima prova di ragioneria e una visione di intelligenza politica. Qualcuno lo chiama «bene comune». Altre la Casa che amiamo abitare. Tutte e tutti. L’Assemblea Cittadina è fissata per lunedì 13 alle ore 18.00.

(il manifesto, 10 novembre 2017)

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