12 Gennaio 2019
Adista

L’aborto e l’indicibile

di Paola Cavallari

Tina Lagostena Bassi chiese una lira di risarcimento al processo per stupro reso poi epico dal documentario del 1979 (Processo per stupro) realizzato da alcune coraggiose filmakers; interessava non la condanna ma che si facesse giustizia. La ragione per cui, nei processi di violenza carnale fino ad allora celebrati, non si faceva giustizia era perché si assumeva il punto di vista esclusivo dell’uomo e si trasformava così la vittima in imputata: nel dibattimento gli avvocati difensori degli stupratori capziosamente spostavano il «disonore» dal presunto aggressore alla presunta vittima. «Noi chiediamo giustizia. Non vi chiediamo una condanna severa, pesante, esemplare, non c’interessa la condanna. Noi vogliamo che in questa aula ci sia resa giustizia, ed è una cosa diversa». […] E dopo aver osservato che nessun avvocato difensore di un rapinatore avrebbe indagato se il gioielliere rapinato aveva un passato poco chiaro, con qualche macchia, con qualche trasgressione, continuava: «E allora io mi chiedo, perché se invece che quattro oggetti d’oro, l’oggetto del reato è una donna in carne ed ossa, perché ci si permette di fare un processo alla ragazza? E questa è una prassi costante: il processo alla donna. La vera imputata è la donna». Una lira: perché il danno che la donna stuprata subisce è incommensurabile.

10 ottobre 2018, udienza generale in piazza San Pietro: papa Francesco, nel commentare il «non uccidere», afferma: «Un approccio contraddittorio consente anche la soppressione della vita umana nel grembo materno in nome della salvaguardia di altri diritti… Non si può, non è giusto fare fuori un essere umano, benché piccolo, per risolvere un problema. È come affittare un sicario… L’accoglienza dell’altro, infatti, è una sfida all’individualismo… E che cosa conduce l’uomo a rifiutare la vita? Sono gli idoli di questo mondo: il denaro, il potere, il successo». Nel febbraio 2016 aveva dichiarato: «l’aborto non è un male minore, è un crimine, è far fuori, è quello che fa la mafia»; e nel giugno di quest’anno, a proposito dell’aborto selettivo: «Il secolo scorso tutto il mondo era scandalizzato per quello che facevano i nazisti per curare la purezza della razza. Oggi facciamo lo stesso, ma con i guanti bianchi». In questi moniti l’interruzione volontaria di gravidanza è costantemente incorniciata da strutture di peccato: la ricerca del denaro, potere, successo, l’egoismo, l’individualismo, l’edonismo, insieme e mafia e nazismo. La parola donna è assente, ma è lei il convocato numero uno ed è lei (insieme a chi ha il compito di intervenire nelle strutture ospedaliere) l’imputata innominata. A commento di queste parole ho letto alcuni articoli, ma nessuno di essi era scritto da una donna cristiana. Io non rappresento le donne cristiane: sono una donna che si autocomprende come tale e basta. Credo che il papa ci abbia dato l’opportunità di assumere con determinazione l’impegno di affrontare un argomento ineludibile. «Non dobbiamo temere le sfide», lui stesso ebbe a dire in occasione della sua visita a Milano. «Le sfide si devono prendere come il bue, per le corna. Dobbiamo piuttosto temere una fede senza sfide…; per far sì che la nostra fede non diventi ideologica…». Anche sfide come quella che una cristiana come me potrebbe raccogliere proprio nei confronti di queste laceranti parole? Sarà mai accettata la sfida che concerne il tema della sessualità della donna e dell’aborto? E che tenta di avvicinarlo in un’ottica estranea al cul de sac “aborto sì o aborto no”? È possibile la sfida dentro una Chiesa che impedisce l’esercizio della parola alle donne nelle assemblee pubbliche liturgiche? Una sfida, ben inteso, che sgorga dal prendere sul serio la libertà, e non la libertà senza accezione alcuna, ma quella che biblicamente si origina dal timor di Dio, e nel Nuovo Testamento è proclamata a più riprese: in Gal 5,1 per esempio: «È perché noi fossimo veramente liberi che Cristo ci ha liberato». Porrò domande vere, che sgorgano dalla mia esperienza, alla maniera di chi è assetato di risposte vere. Conosco la mia imperfezione, ma la franchezza non mi fa difetto. So di osare e sarò giudicata sfacciata, certamente imprudente, tanto più in un momento che vede il papa al centro di un attacco da parte di molti settori ecclesiastici e no. Quando lui dice «non dimenticatevi di pregare per me» gli sono accanto. Ma autocensurarsi non produce frutti, né per l’avventura della fede, né per la comunità dei/delle battezzati/e, «in Spirito Santo e fuoco» (Lc 3,16).

Il mio esordio parte dunque dalla Parola; mi soffermo su tre brani.

A) Luca 7,36-50. La peccatrice che unge i piedi di Gesù. Non finisce di sorprendere la spregiudicata accoglienza che Gesù manifesta a questa donna, che è stata prostituita da una società a misura di uomo, che è reputata peccatrice: dunque uno scarto. Invece che una peccatrice, potrebbe essere una vittima. Ora ella è animata dal desiderio di prodigarsi per manifestargli una sovrabbondanza d’amore. Lui lascia che lei lo avvicini, si lascia toccare, manifestando una intimità sentita come scandalosa e inaccettabile da Simone il fariseo, l’ospite. Gesù non la respinge, né le chiede di purificarsi dal peccato: egli sa vedere la persona oltre la maschera in cui la società l’ha relegata, sa vedere l’amore là dove gli uomini religiosi presenti sapevano vedere solo il peccato. Per la bellezza che sigilla, la frase che Gesù rivolge alla donna come epilogo lascia senza parole: «La tua fede ti ha salvata; va’ in pace!».

B) Giovanni 8, 1-11. L’adultera. Gesù si distanzia esemplarmente da una inferocita folla maschile che condanna alla lapidazione una donna giudicata adultera (dov’è l’uomo con cui ha consumato il peccato?). Si interpreta comunemente il brano come: nessuno scagli la prima pietra perché nessuno è tanto immune dal peccato da poter giudicare quelli altrui. Nel capitolo precedente, stava scritto: Non giudicate secondo l’apparenza, ma giudicate secondo giustizia, Gv 7, 24. Poco dopo si incontra la donna adultera: sarà un caso? Non andrà applicato lo stesso principio anche a lei? “Non ti condanno perché forse non tu sei da condannare”, sembra dire Gesù; la colpevolezza di quell’essere è probabilmente costruita su apparenze, su pregiudizi. Forse il suo atto è stato preceduto da una catena di torti inflitti, di malvagità subite: da vittima era stata trasformata in colpevole.

C) Giovanni 4,1-30. La samaritana. Una donna samaritana poteva aspettarsi da un uomo giudeo solo disprezzo. «Come mai tu, giudeo, chiedi da bere a me…?». Il personaggio assomma su di sé vari marchi infamanti: è figura della Samaria adultera, impura, scismatica, e per di più è una donna! Le convenzioni impediscono a un uomo, in particolare a un rabbi, di conversare con una donna. Gesù ribalta le cose: non solo non la condanna, bensì si fa con lei mendico d’acqua. Nello scoprire che ha di fronte un profeta, ella scopre se stessa. L’autorità di lui si estrinseca nella capacità – come indica il latino auctoritas(da augere) – di aumentare la sostanza interiore della persona cui si rivolge, di farla crescere, rovesciando i presupposti impoverenti per cui veniva denigrata. E da scismatica ella diviene annunciatrice.

I brani sigillano l’orizzonte del mio ragionare, che li legge con il filtro della teologia femminista. È un orizzonte interpretativo che custodisce quel tratto di Gesù che coglieva l’autenticità esistenziale in chi incontrava, che intuiva ciò che precede e influenza le storie personali, che rovesciava le interpretazioni accreditate, che accoglieva le singolarità nella loro irriducibile sostanza di vita ed interpretava i vissuti umani con empatia. Gesù è fonte di misericordia anche perché mette in connessione fra loro aspetti della vita trascurati, e comprende. Rovesciamento, empatia e accoglimento della prospettiva di chi sta di fronte sono quegli aliti viventi trasmessi che dilatano le energie dell’altro/a, che dopo quest’incontro è in comunione col divino.

Vengo ora alle domande, che saranno precedute da una premessa.

Nel mondo l’interruzione volontaria di gravidanza (IVG) è praticata in misura molto maggiore nei Paesi più poveri: sono soprattutto le donne povere a subirla. In Paesi economicamente arretrati (specie Africa e America Latina) dove pure è legalmente permessa, essa è difficilmente accessibile, perché socialmente proscritta e perché strutture/personale sono inadeguati. Un’alta percentuale di donne povere muore o rimane menomata in quanto vittima di IVG non medicalmente assistita. Ma anche quelle che sopravvivono, devono subire lo stigma e l’indicibile umiliazione familiare e sociale (e religiosa), a cui si aggiunge la corresponsione in denaro a cliniche o praticanti che lucrano sulla sofferenza. Le misere vicende degli aborti e delle morti di donne povere che vi si sono miseramente sottoposte con modalità clandestine gridano una profonda ingiustizia, aggravata dall’assenza di misericordia che le attornia.

Perché la Chiesa non è ospedale da campo nei confronti delle donne povere che partoriscono così come di quelle che abortiscono? L’attenzione per i poveri è forse selettiva? Non contempla le donne povere “costrette” da abitudini misogine a rapporti sessuali non protetti e poi ad abortire? Perché non si raccoglie la loro miseria di ultime della terra?

Negli anni ’70, una scrittrice italiana espresse sul tema sessualità e aborto considerazioni assai acute; non hanno avuto molta risonanza nella cultura media. Le vorrei qui ricordare: «Per il piacere di chi sono rimasta incinta? – scrive Carla Lonzi (in Sessualità femminile e aborto, Rivolta femminile, 1974, p.68 e passim) – Per il piacere di chi sto abortendo? Le donne abortiscono perché restano incinte. Ma perché restano incinte? La cultura patriarcale non si pone questa domanda, perché non ammette dubbi sulle leggi “naturali” difende con ogni mezzo la sessualità dell’uomo patriarcale come sessualità “naturale” per entrambi, uomo e donna. Ma noi sappiamo che quando una donna resta incinta e non lo voleva, ciò non è avvenuto perché lei si è espressa sessualmente, ma perché si è conformata all’atto e al modello sessuale sicuramente prediletti dal maschio patriarcale… L’uomo ha imposto il suo piacere». Il concepimento, quando non è desiderato dalla donna, e anche se è frutto di un rapporto consenziente, è incentrato sulla iniziativa/desiderio di lui. La cultura egemone non mette minimamente in discussone se il piacere femminile è altro rispetto a quello maschile, ma trova naturale l’omologazione, che le donne hanno introiettato, poiché i dominanti da sempre colonizzano i dominati. Avete mai sentito parlare di complicità e di “zona grigia”? «Il dominio maschile – scriveva Virginia Woolf – sembra abbia “un potere ipnotico”». Nell’aborto, a suggellare la tela, è la donna che viene «responsabilizzata di una situazione che invece ha subito. Negandole la libertà di aborto, l’uomo trasforma un suo sopruso in una colpa della donna» (Ibid., p. 70). Qualcuno/a leggerà tali considerazioni come opinioni di una donna che è espressione di una élite, e quindi ne neutralizzerà tout-court il contenuto: ma sarebbe un alibi, poiché se è vero che il linguaggio e la consapevolezza riflettono le istanze di una minoranza, il coefficiente di realtà del contenuto si estende ad una vastissima area di donne, sia in senso diacronico che sincronico. Schiere di donne si sono conformate (è possibile parlare di libera scelta?) per tutta la loro vita ad un regime sessuale che non corrispondeva alle loro esigenze, vivendolo però come unica chance, unico destino: meglio non sottilizzare troppo, tiremm innanz… traendone i benefici possibili! Una spirale di dominio che non è mai stata scritta e che dà il capogiro a pensarci. Delle questioni sollevate dalle parole di Carla Lonzi, così inconfessabili ma così condivise tra le fessure confidenziali tra donne che hanno maturato consapevolezza di sé, così innominabili ma così raggianti di autenticità, così respinte dalla “norma e normatività sessuale” eppure così fragranti di schiettezza, ebbene da queste parole mi pare emerga una domanda: perché, quando parla di moralità sessuale e aborto, la Chiesa non ascolta il sentire (il patire ma anche il dire) delle donne, la loro esperienza e saggezza? Perché non applica, come è capace di fare, una visione olistica che illumina il fenomeno? Perché lo si associa egoisticamente all’egoismo femminile?

Alcuni tra i pastori (uomini) del nostro tempo stanno compiendo un grande servizio alle comunità di fede. Stanno cioè facendo un passo indietro, un abbassamento, un gesto di kenosi, proprio a partire dal loro essere maschi. Intendo dire che questa è un’epoca in cui sta emergendo, da parte della coscienza maschile matura, da un lato la consapevolezza dell’esistenza di forme diffuse di sessualità malata, rea di sofferenze immani, e d’altro lato l’evidenza inconfutabile di una identità maschile sorda all’esempio evangelico. Le due cose non sono estranee l’una all’altra, evidentemente, ma sono distinte. Per la prima parte, intendo quell’area vastissima che comprende – limitandosi all’Occidente – le realtà della prostituzione e della tratta (frequentemente messa in atto con minorenni, per cui le donne implicate debbono essere considerate vittime di schiavitù sessuale), del turismo sessuale (con le stesse caratteristiche), della pornografia. La pedofilia, che in molti Paesi – ma stranamente non in Italia – ha scoperchiato una voragine di perversione e di ferocia da parte anche di pastori, non è fuori dal perimetro. La lista sarebbe ancora lunga, poiché esteso è il mosaico di pretese, offese, aggressioni maschili in campo sessuale, fino allo stupro e al crimine estremo dell’uccidere. E non mancano gli abusi spirituali. Molti dei fenomeni elencati sono spesso banalizzati come comportamenti inestinguibili, frutto di una “natura” immodificabile del maschio. Se, per qualche ragione, lo status della naturale superiorità maschile vacilla, il maschio deve allora ricordare “chi porta i pantaloni”, in società come tra le mura domestiche: la sua reazione violenta sarà interpretata come un atto che ristabilisce un ordine naturale infranto, atto che sconfina nel sacrificio (anche di se stesso), come ha scritto Alberto Melloni («Se l’assassino si percepisce come eroe (suicida) che attua un sacrificio», in Non solo reato, anche peccato, a cura di Paola Cavallari, Effatà, in uscita di stampa).

Non perdiamo di vista la fecondità di quello sguardo suggerito dal Vangelo, che rovescia le convenzioni, che è abitato dall’empatia, dall’esercizio del connettere e comprendere di cui ho parlato prima. Nella pianta che le mie parole vanno disegnando, un ramo è l’aborto, altri rami sono le questioni nominate, ed esse a loro volta si biforcano e moltiplicano in altri rami il cui spessore è carico di significato. Sulla prostituzione i risvolti da esaminare sarebbero innumerevoli. Mi limito a osservare che il rigore dei teologi moralisti non ha stigmatizzato i clienti, e la prostituzione è stata vista come male minore, sul solco di illustri padri. «Eliminate le prostitute dalle cose del mondo – scrive Agostino – e contaminerete tutto con la lussuria; ponetele fra le matrone oneste e disonorerete tutto con la vergogna e la turpitudine». Lo reduplica Tommaso: «La prostituzione nel mondo [è] come la melma o la cloaca in un palazzo. Togliete la cloaca e riempirete il palazzo di inquinamenti; e analogamente con la melma [nel mare] togliete la prostitute dal mondo e lo riempirete di sodomia, perciò Agostino dice… che la città terrena ha fatto dell’uso di prostitute un’immoralità lecita».(Mary Daly, Al di là di Dio Padre, Editori Riuniti 1990, p. 77). Perché, parlando di aborto, la dottrina della Chiesa non opera una interagente saldatura tra tutti quanti questi fenomeni apparentati tra loro? Perché continua a tenerli separati, in una schizofrenia del tutto insensata o forse faziosa? Perché non applica, come è capace di fare (vedi Laudato si’), una visione olistica che restituisca alla questione la complessità che merita? Che interesse sotterraneo si nasconde? Perché l’aborto continua ad essere scisso, sia dall’immaginario della sessualità maschile e dai suoi nodi rispetto al corpo, sia dalla responsabilità generativa dell’uomo? Nella Chiesa cattolica, un episodio strepitoso a dir la verità è avvenuto: papa Francesco ha rotto il muro del colpevole silenzio durante un incontro nel marzo del 2018, in vista della riunione pre-Sinodo dei giovani. «È una mentalità malata quella che porta a sfruttare la donna… Chi fa questo è un criminale. Questo non è fare l’amore, è torturare una donna, è criminale». Qui in Italia, dobbiamo avere il coraggio di dirlo, i clienti, al 90 per cento, sono battezzati cattolici. E sono anche tanti. Io penso allo schifo che devono sentire queste ragazze quando gli uomini le fanno fare delle cose». Possiamo sperare? O si tratta di una rosa che non fa primavera?

Per la seconda area, trovo davvero lucenti le parole del pastore Daniele Bouchard, di cui riporto qualche frammento tratto dal suo contributo “Eredità e responsabilità di un uomo consapevole e cristiano critico” (In Non solo reato, anche peccato, a cura di Paola Cavallari, Effatà, in uscita di stampa). «Nel mio percorso ho imparato che la violenza è costitutiva del genere maschile». «Occorre un “lavoro con gli uomini. Non soltanto con gli uomini che agiscono con violenza… Affrontando alla radice i nodi del maschile, tra cui il rapporto con la violenza ma anche la difficoltà rispetto al corpo, il bisogno di dominio, il rapporto con le donne e altri ancora, si potrà bonificare il terreno da cui nasce la violenza maschile (…) Sarà possibile recuperare il valore della famiglia (…) solo dopo aver smantellato il ruolo di copertura della violenza maschile».

Martin Luther King scriveva: «Può darsi che non siate responsabili per la situazione in cui vi trovate, ma lo diventerete se non farete nulla per cambiarla»: mi piace associare la frase ad un gesto molto più antico, al distanziarsi cioè dell’apostolo Paolo dallo status privilegiato di uomo, status in cui si era venuto a trovare, ma dal cui vanto egli abdicò, pronunciando per esempio la celebre frase “Non c’è Giudeo né Greco, non c’è schiavo né libero, non c’è maschio né femmina, perché tutti siete uno in Cristo” (Galati 3,28). Uomini (del clero e non) poco propensi ad accogliere le domande da me suggerite potrebbero rifletterci. Al fine d’evitare la sofferenza dell’aborto (e la stessa Lonzi l’ha nominata) abbiamo bisogno che germinino relazioni di reciprocità e di giustizia tra uomini e donne, che disintossichino dalla tradizione (anche ecclesiologica) che abbiamo ereditato.

(Adista documenti n. 1 del 12/1/2019)

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