21 Marzo 2019
Internazionale

Macarena Sánchez

di Analía Fernandez Fuks


È una calciatrice argentina, lesbica e attivista femminista. Ha fatto causa alla squadra dove giocava perché la sua professione non è riconosciuta. Il suo personaggio è diventato simbolo e incarnazione del nuovo protagonismo delle donne in Argentina, dove ha preso slancio il movimento Ni una menos con le sue originarie caratteristiche.


Oggi il suo nome rimbalza sui giornali, in tv e alla radio. La causa contro l’Uai Urquiza e l’Afa, nella quale Sánchez denuncia anche le manovre disoneste del club per nascondere le vere condizioni del suo lavoro, è stata ripresa dai mezzi d’informazione di tutto il mondo, come la Bbc, il New York Times ed El País. La sua voce calma ma decisa raggiunge sempre più persone. È la prima volta in Argentina, in America Latina e nel mondo che una calciatrice esige il riconoscimento professionale della sua attività per vie legali, e non lo fa in un momento qualsiasi: a giugno cominceranno i mondiali di calcio femminile in Francia. Il pre­sidente della Fifa, Gianni Infamino, ha detto che tutti quelli che guarderanno i mondiali «si stupiranno di quanto è arrivato lontano il calcio delle donne».

Il 5 gennaio Sánchez è stata licenziata dalla sua squadra mentre era in ferie. Alcuni giorni prima aveva twittato: «Un 2019 nazionale, popolare, democratico e femminista. Che il calcio femminile sia pro­fessionista e l’aborto sia legale, cazzo». La telefonata di Germán Portanova, il suo allenatore, l’ha sorpresa. Le ha detto che dopo sette anni passati a giocare per l’Uai, Macarena avrebbe smesso di far parte della squadra.

Le parole di Sànchez sui social network hanno l’effetto di una mitragliatrice. Sa qual è il suo bersaglio. Quando si parla con lei di persona la sua voce si addolcisce, ma il discorso resta deciso, perché Sánchez sa che quello che ha fatto può creare un precedente storico. Ha paura. Per evitare di deprimersi è sempre circondata dalle sue amiche e dalle sue compagne. Di mattina lavora, il pomeriggio incontra le avvocate, tiene riunioni e rilascia interviste. Nei ritagli di tempo cerca di studiare antropologia, la materia che le manca per laurearsi come assistente sociale.

«Non dimenticherò mai quello che mi hai fatto capire quel giorno (ha scritto a sua sorella Soledad). Avevi tredici anni e raccontasti piangendo alla mamma che sapevi che mi piacevano le ragazze. Non piangevi per quello, ma perché mi prendevano in giro, e non volevi vedermi soffrire». Soledad è anche sua avvocata, insieme a Melina González e a Melisa García, componenti di AboFem Argentina, un’associazione femminista. A più di quindici anni da quella conversazione, la giocatrice ha reso pubblico il suo attivismo lesbico, femmi­nista, peronista e abortista.

Sánchez non è sola. Prima di annunciare la causa, la calciatrice ha incontrato le sue avvocate. Le hanno suggerito di cercare una giornalista che la aiutasse a rispondere alle interviste. Ha chiamato Luciana Gargini, Micaela Cannataro e Leila Grayani, tutte appassionate di calcio. Si sono incontrate una sera a casa sua e hanno organizzato una strategia di comunicazione, creando l’account Twitter @FutFemProf per dare visibilità ai problemi delle calciatrici.

Sánchez sa che la sua richiesta non avrebbe potuto essere fatta qualche anno fa. È questo il momento. Mancano pochi mesi ai mondiali di Francia, a cui la nazionale argentina parteciperà dopo dodici anni di assenza. E questo il momento, dopo che la partita tra Argentina e Panarr all’Emirates Stadium, lo stadio dell’Arsenal, ha attirato 11.500 persone. Dopo che la tribuna dietro la porta di Vanina Correa si è riempita di fazzoletti verdi, il simbolo delle proteste a favore della liberalizzazione dell’aborto. È questo il momento, ora che la Conmebol, la federazione calcistica dell’America Latina, obbliga i club ad avere una squadra di calcio femminile se quella maschile vuole competere nei tornei internazionali. È questo il momento, quasi un anno dopo che le giocatrici della nazionale hanno protestato durante la Copa América in Cile per chiedere condizioni migliori. È questo il momento, pensa, per rompere lo status quo.

C’è chi le dice che nel calcio femminile non ci sono soldi, chi le suggerisce di andare a lavare i piatti, chi le fa notare che con il suo club non ha vinto niente. Poi riceve una foto di una pistola insanguinata con una minaccia: «Maca, hai fatto arrabbiare un sacco di gente con le tue denunce. Sulla tua testa pende una taglia. Morirai presto».

Sánchez decide di rendere pubblico il messaggio, e avvisa la famiglia. Grisel, sua madre, lascia per qualche giorno il lavoro presso l’ufficio del difensore civico di Santa Fe e va a Buenos Aires per starle vicino. Vicino, come Macarena le aveva chiesto in altre occasioni, quando era più piccola e la madre si occupava di diritti umani per il governo di Jorge Obeid. «Era sempre occupata, sette giorni su sette. Quando non lavorava in ufficio era al cellulare», racconta. Portava le sue quattro figlie in giro per i quartieri poveri di Santa Fe, perché conoscessero la loro città e realtà diverse da quella della loro casa da ceto medio. L’assenza materna, che in certi momenti l’aveva messa in difficoltà, è diventata una cosa di cui essere grata: «Ci ha inculcato la coscienza di classe e di genere». Con la madre e le avvocate al suo fianco, Macarena va in procura a denunciare la minaccia ricevuta.

Il 19 febbraio 2019 Sánchez si stava preparando per andare alla manifestazione a favore della legge sulla liberalizzazione dell’aborto di fronte al parlamento. Ma quel giorno non sarebbe stato come aveva immaginato. Sánchez riceve un messaggio da Cristina Fernández de Kirchner: l’ex presidente l’aspettava nel suo studio. Si sono viste faccia a faccia. Fernandez era al corrente della lotta del calcio femminile, ed era dalla sua parte.

Poi è andata alla manifestazione. Non era la prima volta che partecipava a una protesta alzando il fazzoletto verde verso il cielo per chiedere aborti legali, sicuri e gratuiti. La prima manifestazione a cui è andata a Buenos Aires è stata il 3 giugno 2016, la seconda del movimento Ni una menos. «Il femminismo mi ha fatto capire molte cose. Prima pensavo: l’Uai Urquiza mi dà un lavoro e una casa. Adesso la vedo diversamente. So che ci sfrutta».

La causa intentata dalla calciatrice ha portato alla luce i meccanismi del calcio femminile in Argentina, dove giocano circa un milione di donne nei campionati provinciali, in quelli dell’Afa o in tornei privati.

«Abbiamo bisogno di sportive senza paura», ha twittato Macarena alcuni giorni dopo il suo licenziamento, e ha invitato le colleghe a raccontare la loro esperienza. Sono arrivati molti messaggi: le calciatrici denunciano che quando s’infortunano non gli pagano le cure, che devono affittare con i loro soldi il campo per gli allenamenti, che perdono giorni di lavoro per allenarsi, che pagano di tasca loro le divise e le spese degli arbitri, delle ambulanze e della polizia che sono obbligatorie per le partite.

L’account Twitter di Macarena e quello di @FutFemProf sono diventati una radiografia del calcio locale. In Argentina ci sono sedici squadre femminili in prima divisione e ventidue in seconda. I club possono trattenere le giocatrici a loro piacimento o possono ostacolarne il passaggio a un’altra squadra. Se il club e l’Afa riconoscessero che quello delle calciatrici è un lavoro si creerebbe un precedente storico, e le regole del gioco cambierebbero. È la speranza di Sánchez. Il suo appello per un calcio femminile professionistico è diventato virale. Si sta diffondendo, mentre in Spagna il calcio femminile batte i record: al San Mamés, nei Paesi Baschi, più di 48mila persone hanno assistito alla partita dei quarti di finale tra le squadre di calcio femminili dell’Athletic di Bilbao e dell’Atlético di Madrid.

Non le importa in che ruolo deve giocare, conta il gruppo. Per questo risponde alla Bbc: «Sono disposta a lasciare da parte la carriera per difendere il calcio femminile». Tra le varie chiamate che riceve, una arriva dalla Colombia e una dalla Spagna. Sono due squadre. In quei due paesi le calciatrici sono pagate per giocare, sono le mete più consuete per le calciatrici argentine. Ma lei risponde: «Non me ne vado. Resto qui, a lottare».


(versione abbreviata del ritratto apparso su Internazionale 1298, 15/21 marzo 2019, pp. 72-74, autrice Analía Fernandez Fuks di Revista Anfibia)

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