6 Marzo 2019
il manifesto

Perché la puttana felice è un falso mito

di Mariangela Mianiti

 

Intervista a Julie Bindel. Per mettere fine al mercato del sesso serve offrire vie di uscita per le donne prostituite, con volontà politica e fondi, oggi un’eccezione. E bisogna creare deterrenti per chi paga

 

Quando, nel 1990, uscì il film Pretty Woman, l’immagine della puttana felice che grazie al suo lavoro incontra e sposa un bel miliardario conquistò mezzo mondo.

Si trattava del primo mito persuasivo del mercato del sesso. Con il libro Il mito Pretty Woman. Come la lobby dell’industria del sesso ci spaccia la prostituzione(VandAepublishing, 283 pagine, 15 euro) Julie Bindel sbugiarda le teorie secondo cui il sesso a pagamento è un lavoro come un altro.

Attraverso 250 interviste in 40 paesi, Bindel ha incontrato donne che raccontano che cosa davvero significa essere prostituita.

Parlano dell’odore tremendo dei compratori, del dolore della vagina disidratata e ulcerata penetrata da una molteplicità di uomini, dell’orrore dello sperma e altri fluidi vicino alla faccia, di barbe che sfregano le guance fino a farle sanguinare, di non riuscire a mangiare, bere o baciare i figli per via di quello che hanno dovuto fare con la bocca, del dolore al braccio o al gomito per avere disperatamente cercato di far venire il cliente così da non dover essere penetrata un’altra volta.

Bindel, poi, ricostruisce la nascita dei movimenti abolizionisti, svela chi finanzia le lobby pro prostituzione e i loro metodi di convincimento, verifica gli effetti disastrosi e fallimentari delle leggi che hanno depenalizzato e regolamentato la prostituzione, spiega i risultati del modello nordico adottato in diversi paesi fra cui Svezia, Irlanda, Francia, Islanda e che è l’unico che sta davvero combattendo la prostituzione perché va all’origine del problema, ovvero la domanda e il cliente.

 

Accanto a Stupro a pagamento (Round Robin editore) di Rachel Moran, Il mito Pretty Woman è una lettura indispensabile per capire che la prostituzione, come ha detto Evelina Giobbe, sopravvissuta americana e fondatrice di Whisper, «È un’industria portata avanti dalla domanda maschile di accesso sessuale incondizionato ai corpi delle donne, una domanda che esiste grazie al potere sociale, economico e di genere esercitato dal patriarcato».

 

Femminista radicale, attivista, giornalista famosa per le sue inchieste su fondamentalismo religioso, violenza contro le donne, maternità surrogata, tratta degli esseri umani, Julie Bindel è in Italia fino al 9 marzo per presentare il suo libro: Torino (7, Campsu Luigi Einaudi), Rimini (8, Teatro degli Atti) e Milano dove sono previste due date, il 6 alla Fondazione Feltrinelli con la lectio magistralis Sex work. È un lavoro? che rientra in un programma in vista dell’8 marzo su Donne, diritti, disuguaglianze di genere, attivismo, inchieste e culmina il 7 con l’incontro We, Women, Storie dal mondo femminile, il 9 alla Libreria delle donne.

Bindel, lei e molte sopravvissute con cui ha parlato sostenete e dimostrate che il sesso a pagamento non è un lavoro. Perché?
Per prima cosa non si può far diventare l’interno del corpo di una donna un luogo di lavoro. Il secondo punto è che se il sesso è lavoro, allora lo stupro è semplicemente un furto. La terza cosa è che non è accettabile chiamarlo lavoro o occupazione quando il rischio del mestiere è la morte per contagio da Aids, suicidio, femminicidio.

Da chi è composta la lobby pro sex work?
Dipende dal paese di cui si parla. Ci sono gruppi ideologi dell’estrema sinistra come il Collettivo Inglese delle Prostitute (ECP) fondato nel 1975 in Gran Bretagna. Per loro tutto è lavoro, dalle mansioni domestiche ai rapporti sessuali che, quindi, vanno pagati. Noi femministe invece consideriamo che il lavoro di cura e di casa debba essere condiviso da tutti, uomini e donne. Loro sostengono che l’unica ragione per cui si entra nella prostituzione è la povertà e per questo le donne dovrebbero poter continuare a praticarla. Poi ci sono i papponi, i proprietari di agenzie di escort, quelli che affittano gli appartamenti a persone prostituite, i pornografi, i tenutari dei bordelli. A questa lobby fa molto comodo la decriminalizzazione così come all’industria del tabacco fa comodo vendere nei paesi dove non ci sono leggi restrittive. Al terzo gruppo appartengono accademici e intellettuali che ritengono regressivo, moralista, anti progressista, anti libertario e conservatore essere contro il sex work perché limiterebbe la scelta soggettiva delle donne.

Il sesso a pagamento può essere una scelta di libertà per una donna?
Può esserla solo se ce ne sono molte altre disponibili. Le donne scelgono di stare in relazioni violente per molte ragioni, ma una scelta non è necessariamente buona. Noi non diciamo che le donne non possono decidere di prostituirsi, diciamo solo che lo fanno in circostanze e situazioni così particolari che è irrilevante parlare di scelta. Ciò di cui bisogna parlare, invece, sono le scelte degli uomini.

Gli antiabolizionisti usano un linguaggio ripulito. Non parlano di donne prostituite, ma di sex worker, partner temporanee a pagamento, sesso transazionale.
Il linguaggio che scegliamo è molto importante. Le persone che usano il termine sex work pensano così di dare dignità alle persone prostituite. Io sono d’accordo che prostitute sia un termine inaccettabile perché la prostituzione viene imposta alla donna dall’intera società patriarcale, per questo diciamo che è prostituita. Se le donne sono sex worker, allora bisognerebbe dire che i papponi sono dei manager e i proprietari di bordello degli uomini d’affari, per questo è importante usare le parole in modo corretto. Tutte le persone con cui ho parlato e che sono state prostituite non si sono mai definite sex worker che è un termine inventato dalle lobby accademiche.

Che cosa risponde alle femministe che giudicano le abolizioniste puritane, moraliste e contrarie alla libertà di scelta?
A queste donne dico che ci sono centinaia di modi di essere femministe e la maggior parte di questi sono sbagliati. Il femminismo liberista non è affatto femminismo, è semplicemente liberismo fatto da donne. Il vero femminismo è quello che cerca di liberare tutte le donne dalle situazioni peggiori. Noi ci preoccupiamo più di quelle che stanno in fondo alla scala sociale perché sono le più indifese.

Lei analizza e documenta gli effetti delle leggi che regolamentano o depenalizzano la prostituzione. Ovunque sono devastanti per le donne. Qual è secondo lei la strada da percorrere?
Per mettere fine al mercato del sesso serve un doppio intervento. Da una parte creare vie di uscita complete e ben fatte per le donne prostituite, per riuscirci servono volontà politica e fondi, oggi un’eccezione. Allo stesso tempo bisogna creare dei deterrenti per chi paga, determinare delle pene per i clienti, additarli alla pubblica vergogna. Dobbiamo rendere chiaro agli uomini e ai giovani che questa è violenza contro le donne e che è inaccettabile pagare per il sesso. Dobbiamo smettere di usare eufemismi come “esperienza fidanzatina”, “spose su catalogo”, “assistente sessuale” o “sex worker”. Dobbiamo semplicemente chiamarla per quello che è, prostituzione. E dobbiamo ascoltare le sopravvissute.

Nell’introduzione del suo libro è citata Luisa Muraro che scrive: «La ferita inflitta dall’umanità con la pratica della prostituzione non è più accettabile. Verrà il momento, ed è questo, in cui la non eliminabile vergogna della prostituzione, sempre rigettata dalle donne, tornerà alla sua vera causa, che è una concezione maschile degradata del desiderio e della corporeità». Sono quindi gli uomini a doversi interrogare e cambiare?
Questa è responsabilità degli uomini. Sono gli uomini che guidano questo mercato del sesso. Possiamo trovare esempi di donne pappone, ma di solito sono state prostituite prima e chiaramente vanno trattate come sfruttatrici, ma sono gli uomini che portano avanti questa industria. E’ stata un’idea degli uomini sotto il patriarcato quella di soggiogare le donne pagando per l’accesso dentro il loro corpo. Dobbiamo ritenere gli uomini completamente responsabili della servitù sessuale perché sono loro ad aver creato e normalizzato il mercato del sesso.

 

(il manifesto, 6 marzo 2019)

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