21 Maggio 2020
Il Quotidiano del Sud

Quelle foto parlano da sole

di Franca Fortunato


Sono di questi giorni di pandemia le foto di 46 neonati/e dentro le culle, allineate nella hall di un hotel a Kiev, apparse sul sito di una delle agenzie che in Ucraina gestiscono il mercato dell’utero in affitto. L’agenzia le ha pubblicate per “sollecitare i clienti – si legge – a rivolgersi ai ministeri degli Esteri dei rispettivi Paesi perché richiedano al governo ucraino un permesso speciale” in deroga alle regole del lockdown per recarsi a ritirarli. Niente è più eloquente di quelle immagini di che cosa sia la pratica dell’utero in affitto, maternità surrogata o gravidanza per altre, come la si voglia chiamare, per la cui abolizione si batte la rete internazionale di associazioni e movimenti femminili di 20 Paesi, compresa l’Italia dove tale pratica è reato. Creature ridotte a “merci”, tenute in deposito in attesa di essere ritirate dagli acquirenti, tra cui italiani, che con “regolare” contratto commerciale le hanno comprate sin dal concepimento, reso possibile dalle tecnologie riproduttive, programmando così l’interruzione di quella che è la relazione su cui, da millenni, si regge la civiltà umana, la relazione materna, origine del dono della vita di ogni madre verso la sua creatura.

La compravendita di esseri umani, per il diritto internazionale, non è un reato? Le cliniche come quella da cui provengono le/i neonate/i sono luoghi di mercificazione della maternità, del corpo delle donne, di compravendita di esseri umani, un business da montagne di profitti. È quanto ci racconta anche la scrittrice filippina Joanne Ramos nel suo romanzo d’esordio La Fabbrica, ed. Ponte Alle Grazie, dove ci porta dentro la Golden Oaks Farm, clinica americana per ricchi clienti di ogni parte del globo. Un romanzo che – come lei scrive – per molti versi è una storia vera, ispirata a donne che ha conosciuto e ai loro racconti. Racconti di donne per lo più immigrate, provenienti da paesi ispanici, caraibici e da altri paesi del Sud Est asiatico, come le “Ospiti” della clinica, a cui viene prospettato un “lavoro facile che le renderà ricche”, cambierà per sempre la vita loro e delle loro figlie/i, e le “renderà felici” per aver aiutato altre donne a realizzare il loro desiderio di maternità. Convinzione questa necessaria, più del denaro, per “motivare” la scelta di portare avanti una gravidanza per altre, come ben comprende la dirigente della clinica, Mae Yu, grande manipolatrice dei sentimenti e dei bisogni delle donne come le protagoniste, Jane, filippina disoccupata con una figlia piccola, e Reagan, laureata, desiderosa di rendersi indipendente dal padre e diventare una grande fotografa. L’autrice, senza giudicare, ci porta dentro i meandri del contratto commerciale il cui unico fine è assicurare la consegna di un/a bambino/a sano/a, concedendo alla cliente clausole di salvaguardia in caso d’imprevisti. Nulla è concesso alla madre gestante che, una volta firmato, non può più tornare indietro. La sua vita da quel momento in poi è solo nelle mani di chi dirige la clinica e delle clienti. Vive reclusa, controllata, spiata, sorvegliata, manipolata. Quello che prevale è il potere del denaro. Nessuna delle gestanti diventerà ricca.

Chiudete quelle cliniche, abbandonate la pratica dell’utero in affitto, e intanto – come hanno chiesto le donne della rete italiana contro l’utero in affitto – affidate quelle neonate e neonati alle madri che le/i hanno messe/i al mondo, e se queste non vogliono o non possono farsene carico, datele/i in adozione.


(Il Quotidiano del Sud, 21 maggio 2020)

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