29 Agosto 2019
il manifesto

Se la cura è nucleo vitale della politica

di Luigina Mortari


Di seguito una parte della relazione al Festival della mente di Sarzana


LA CURA È UNA PRATICA difficile, che richiede competenza. Una pratica che procura quanto necessario alla vita, coltiva le possibilità dell’essere e ripara le ferite procurate dalla sofferenza. È la pratica che fabbrica il nostro essere, nel senso che le azioni di cura ci modellano. Se ci prendiamo cura di certe persone quello che accade nello scambio relazionale con l’altro diverrà parte di noi. Se abbiamo cura di certe idee, la nostra struttura di pensiero sarà modellata da questo lavoro, nel senso che la nostra esperienza mentale si nutrirà di quelle che abbiamo coltivato e risentirà della mancanza di quelle che abbiamo trascurato; se ci prendiamo cura di certe cose, l’esperienza di quelle cose condizionerà il nostro nodo di essere. Della cura si può pertanto parlare nei termini di una fabbrica dell’essere.
Una fabbrica necessaria, inaggirabile perché la qualità della condizione umana è quella di essere fragile, precaria e incompiuta. Veniamo al mondo non bastanti a noi stessi, strutturalmente bisognosi dell’altro, e anche nei momenti in cui ci sembra di avere sufficientemente autonomia sempre necessitiamo di quello che l’altro ci può dare. Per questo stare nel mondo secondo l’ordine necessario delle cose è avere cura per gli altri. Ma la cura non è solo qualcosa che riceviamo e che ci impegniamo ad agire per l’altro, nelle relazioni private e in quelle pubbliche: in famiglia, a scuola, nei luoghi di lavoro, nelle istituzioni pubbliche. È anche cura di sé. Nasciamo incompiuti, senza una forma, profondamente diversi dagli altri esseri viventi che sono dotati di una mappa della vita. Quando si realizza quello strappo che è la coscienza ci percepiamo mancanti, necessitanti di una tecnica dell’esistenza. Aver cura di sé significa prendere a cuore il nostro mancare di una forma e mettere in atto quei gesti dell’essere che ci fanno trovare il modo giusto di abitare il tempo. La cura di sé non è narcisistico amore di sé, ma è la pratica necessaria a dare forma all’essere in modo da prepararlo a vivere nel mondo secondo la sua forma migliore.

SOCRATE, nell’Alcibiade Primo, solleva una domanda destinata a rimanere aperta: in che cosa consiste la giusta cura? Per poter affrontare questa domanda occorre innanzitutto capire qual è la sostanza di cui è fatta la cura. Da ricerche etnografiche condotte con quelle persone che sono indicate essere testimoni esemplari di una efficace pratica di cura risulta che l’agire con cura è cosa impegnativa, perché si manifesta nel mettere in atto azioni che, secondo il linguaggio tradizionale, sono codificate come virtù. Chi ha cura sa avere rispetto per l’altro trovando la giusta misura fra la tentazione a includerlo dentro la sua visione delle cose e la tolleranza indifferente che lo abbandona là dove si trova. Chi ha cura è onesto: nulla toglie all’altro. Chi ha cura sa resistere a tutte le scorciatoie che ci fanno evitare il volto dell’altro. L’amico, relazione esemplare di una pratica di cura, mai fa mancare sostegno all’altro, ma quando è il momento sa dire la verità più dura se pensa che possa essere di aiuto all’amico. La cura è buona se è giusta e per fare le cose giuste serve coraggio: il coraggio di infrangere le regole se queste impediscono di dare all’altro quanto ha bisogno; il coraggio di prendere la parola e di agire quando si vede l’altro patire condizioni non giustificabili. Avere cura è essere capaci di quel gesto vitale che è l’agire con gratuità: uscire dalla logica mercantile che inaridisce la vita sociale e fare quanto è necessario, non per avere qualcosa per sé, ma semplicemente perché la realtà lo richiede. È il gesto generativo della civiltà.

PER QUESTO SUO RICHIEDERE un forte investimento di energie, di pensiero e di passione, molti evitano di parlare di cura. Troppo scomoda. Al massimo accettano che se ne parli nel contesto della relazioni private, così che non turbi la logica utilitaristica e individualistica che permea la società contemporanea; dove conta chi si afferma anche a scapito degli altri; dove l’ingiustizia è cosa da non vedere per non sentirsi obbligati ad agire; dove l’economia crudele del consumo porta a interpretare la vita come accumulazione di cose, quel consumare che consuma la vita stessa. Si evita di parlare di cura perché ha un dirompente valore politico. La cura è il nucleo vitale della buona politica. Aver cura delle istituzioni che ci consentono di condividere l’abitare il mondo significa assumere come primario principio dell’agire l’impegno a cercare di definire quelle leggi giuste che rendono possibile una buona qualità della vita. Non di affermazione di sé ha bisogno la politica, ma di dedizione al lavoro del convivere. Lo sapevano bene gli antichi. Nel libro VII della Repubblica Socrate spiega a Glaucone che a chi si assume la responsabilità di governare le città, è giusto chiedere, obbligandoli, di «aver cura e custodire» gli altri cittadini (520a).


(il manifesto, 29 agosto 2019)

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